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  • Giovedì 10 novembre 2022

Il rugby prova a introdurre i nomi sulle maglie

È l’ultimo grande sport di squadra rimasto senza, ma alcune nazionali — Italia compresa — credono possano aiutare in un momento complicato

di Pietro Cabrio

Freddie Steward e Maro Itoje in Inghilterra-Argentina (AP Photo/Alastair Grant)
Freddie Steward e Maro Itoje in Inghilterra-Argentina (AP Photo/Alastair Grant)
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Nel rugby professionistico la stagione autunnale è quella dei test match, le serie di partite ufficiali tra nazionali che chiudono un’annata sportiva (nel caso delle squadre dell’emisfero australe) o che servono a preparare quella appena iniziata (nel caso delle squadre europee). Dall’anno scorso queste partite, che si svolgono nell’arco di circa tre settimane, sono state riorganizzate in una sorta di “format” unico, chiamato Autumn Nations Series, nel tentativo di dare un’immagine più attraente e massimizzare la vendita dei diritti televisivi.

Sul lato sportivo i test match continuano a essere quelli di sempre, ma vengono organizzati in un contesto più appetibile dal punto di vista commerciale. Le Autumn Nations Series sono uno dei migliori esempi degli investimenti che il mondo del rugby ha iniziato a fare di recente per potenziare la sua immagine, ritenuta a lungo trascurata sotto diversi aspetti.

In questi giorni, proprio nell’ambito delle Autumn Nations Series, è stata introdotta una novità che a prima vista potrebbe sembrare di poco conto, ma che in realtà rappresenta un cambiamento notevole. Per la prima volta nella loro storia, Inghilterra, Scozia e Italia hanno stampato i cognomi dei giocatori sulle maglie da gara, portando nel rugby internazionale una cosa che finora si era vista solo di rado nei campionati locali europei.

L’inglese Owen Farrell (David Rogers/Getty Images)

Il rugby è l’ultimo grande sport di squadra in cui le squadre nazionali giocano senza nomi e con i soli numeri di maglia, rigorosamente ordinati dall’1 al 15. A ogni numero corrisponde un ruolo, tanto che è usanza riferirsi ai ruoli con i numeri corrispondenti: una cosa che nel calcio, per esempio, è rimasta soltanto per il numero 10 (che peraltro indica ormai caratteristiche e leadership di certi giocatori, più che il loro ruolo esatto).

Oltre a questo aspetto tecnico, c’è un’altra ragione che ha contribuito a tenere lontano i nomi dalle maglie da rugby per oltre un secolo.

Nato in ambienti scolastici britannici, il rugby conserva ancora oggi con un certo orgoglio le sue caratteristiche di sport di contatto ruvido e dominato dalla forza fisica, ma regolamentato anche dal rispetto reciproco e dalla sportività, valori da cui dipende l’esistenza stessa di un gioco in equilibrio tra queste apparenti contraddizioni.

In un contesto di questo tipo, una delle tante usanze che si tramandano da decenni riguarda appunto le maglie. Nelle squadre nazionali in particolare vige una cosiddetta regola non scritta per cui nessun giocatore possiede veramente la propria divisa, ma la riceve soltanto per un certo periodo in cui proverà a difenderla e migliorarla, per poi consegnarla a chi verrà dopo.

George Turner in Scozia-Isole Figi (Mark Runnacles/Getty Images)

I tempi però sono cambiati anche per il rugby, e il movimento se ne sta accorgendo specialmente in questo periodo. Da una parte allo sport viene riconosciuta una certa appetibilità economica, con diversi fondi d’investimento entrati di recente nella gestione commerciale di tornei o di certe nazionali, come nel discusso caso degli All Blacks. Alla base di questi interessi c’è proprio il potenziale inespresso del rugby, una realtà che per tanti addetti ai lavori ha investito troppo poco “fuori dal campo” rispetto ad altri sport. Dall’altra parte, questi mancati investimenti stanno mettendo in pericolo la sua stabilità, come nel caso del campionato inglese, il più antico e tra i migliori al mondo, che a stagione in corso è rimasto senza due squadre, entrambe fallite.

Come tutti i cambiamenti, però, la decisione presa da certe nazionali di iniziare a usare le maglie con i nomi sta dividendo parecchio. La federazione inglese ritiene che sia un modo per sfruttare maggiormente l’immagine dei giocatori, soprattutto i più amati e appetibili dagli sponsor, creando nuovi interessi, maggior riconoscibilità (anche per gli spettatori) e nuovi mercati (come per i tanti calciatori diventati dei veri e propri brand).

Alcuni tentativi di questo tipo sono già stati introdotti nelle squadre di club, che operano in un contesto perlopiù privato dove sperimentazioni e iniziative sono più facili da applicare. C’è però chi ritiene che oltre a entrare in conflitto con una tradizione rugbistica da conservare ad ogni costo, i nomi sulle maglie rappresentino solo una spesa in più da sostenere, dato che su larga scala la personalizzazione richiederebbe manodopera e materiali già di per sé piuttosto costosi, vista la resistenza che le divise devono garantire durante le partite. Per ora, tuttavia, le maglie con i nomi non sono ancora in vendita e verranno sperimentate per un periodo di tre partite.

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