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  • Sabato 22 ottobre 2022

L’editore tedesco che agita i media americani

Un ritratto del capo di Axel Springer, la società giornalistica di grande potere in Germania, che vuole imporre un'idea personale del giornalismo anche negli Stati Uniti

di Sarah Ellison - The Washington Post

(The Washington Post/Verena Brüning)
(The Washington Post/Verena Brüning)

Dall’alto della sede centrale a 19 piani della casa editrice Axel Springer, a Berlino, mesi dopo l’acquisizione del giornale online Politico da parte della sua società, Mathias Döpfner osservava la doppia fila di ciottoli che segna il perimetro dell’ex muro di Berlino illustrando le sue ambizioni globali: «Vogliamo essere il principale editore digitale delle democrazie di tutto il mondo».

Döpfner, nuovo arrivato nella comunità dei magnati miliardari dei media, è abituato alle dichiarazioni audaci e alle formule visionarie. Teme che la stampa americana sia diventata troppo polarizzata: a suo avviso, testate storiche come il New York Times e il Washington Post si stanno spostando sempre più a sinistra, mentre i media conservatori cedono all’influenza dei «fatti alternativi» trumpiani. Quindi in Politico, giornale politico della capitale in grande ascesa, vede una grande opportunità.

«Vogliamo dimostrare che essere nonpartisan è in realtà il posizionamento di maggior successo» dice al Washington Post. L’ha definita la sua «scommessa più grande e controcorrente». In che modo Döpfner, CEO di Axel Springer, speri di produrre giornalismo imparziale in un periodo in cui la politica americana è particolarmente frammentata è una questione che suscita una grande curiosità, dal momento che Döpfner sta lavorando per lasciare il segno sui media americani. D’altro canto anche le sue preferenze politiche sono rimaste un mistero per diverso tempo. Ma alcune settimane prima delle elezioni presidenziali statunitensi del 2020 aveva inviato un messaggio sorprendente ai suoi dirigenti più vicini, acquisito dal Washington Post: «Vogliamo riunirci tutti per un’ora la mattina del 3 novembre e pregare che Donald Trump torni a essere il presidente degli Stati Uniti d’America?».

L’email gli era stata ispirata da una notizia che aveva condiviso, sul governo che progettava di citare in giudizio Google per abuso di posizione dominante, questione su cui è combattivo da anni. Ma Döpfner aveva aggiunto che Trump avesse fatto le scelte giuste su cinque di quelle che considerava le sei questioni più importanti dell’ultimo mezzo secolo – la «difesa delle libere democrazie» da Russia e Cina, la necessità di spingere gli alleati NATO a dare un contributo maggiore, le «riforme fiscali» e gli sforzi di pace in Medio Oriente, la lotta ai monopoli tecnologici: anche se non è stato all’altezza, aveva suggerito, sul cambiamento climatico.

«Negli ultimi 50 anni nessuna amministrazione americana ha fatto di più» ha concluso Döpfner. Richiesto di spiegazioni sulla mail, inizialmente ha risposto negando energicamente. «È assolutamente falso» ha detto. «L’email non esiste. Non è mai stata inviata e neppure è stata immaginata».

Ma vedendosi mostrare il testo stampato, Döpfner ha ammesso di riconoscerlo. È possibile, ha detto, che abbia inviato l’email «come dichiarazione ironica e provocatoria nella cerchia di persone che odiano Donald Trump», perché questo è esattamente il genere di ironiche provocazioni per cui ha un debole Döpfner, sostenitore loquace ed entusiasta della messaggistica istantanea. «Mi riconosco», dice. «È possibile».

Mathias Döpfner sul palco della conferenza di Vox Media del 2022 a Beverly Hills, in California (Jerod Harris/Getty Images for Vox Media)

A Döpfner piace portare i suoi ospiti a godersi la visuale da questo tetto.
Fu il fondatore di Axel Springer in persona, il risoluto anticomunista Axel C. Springer, a collocare sei decenni fa il suo quartier generale qui, sulla linea di demarcazione tra Berlino Ovest e Berlino Est, come provocazione al regime autoritario che governava dall’altra parte. I funzionari della Germania Est costruirono palazzi molto alti per ostruirne l’orizzonte, temendo che l’editore vi installasse una telescrivente per proiettare i titoli della stampa libera ai cittadini di là dal muro.

E mentre tenta di penetrare nel mercato statunitense e oltre, Döpfner dice di voler a sua volta superare le divisioni, quelle che si stanno formando all’interno delle nostre democrazie. «Sempre più testate giornalistiche si stanno disponendo in campi politici prevedibili», dice, aggiungendo che quando gli editori hanno successo «amplificando sostanzialmente la visione del mondo e il pregiudizio dei loro lettori […] poi continuare in quella direzione è una tentazione molto pericolosa».

Ben prima che l’acquisizione da 1 miliardo di dollari di Politico da parte di Axel Springer l’anno scorso lo rendesse una delle figure più seguite dai media americani, Döpfner, 59 anni, si faceva notare.

È alto due metri, e lo si vede spesso in maglione nero con lo scollo a V e completi attillati che suggeriscono un’immagine europea tra i sedicenti leader del pensiero, nei corridoi del potere di Davos, Bilderberg e Sun Valley. Da un improbabile ingresso nel mondo del giornalismo come critico musicale con un dottorato di ricerca, il carismatico redattore si impose rapidamente guadagnandosi la fiducia della vedova Springer, al punto da esserne designato sostanzialmente erede dell’azienda. E mentre altri nuovi miliardari investono in yacht, Döpfner ha costruito un museo per ospitare la sua collezione di nudi femminili dipinti da sole artiste, che si dice sia la più grande del mondo.

Per lo più, però, sta investendo nell’informazione digitale.

Mathias Döpfner alla conferenza annuale di Sun Valley, Idaho, nel 2016 (Drew Angerer/Getty Images)

Le tentazioni di Döpfner per un’espansione globale sono iniziate con le acquisizioni nella carta stampata, non tutte andate in porto. Nel 2005 ha tentato senza successo di comprare il quotidiano conservatore britannico Daily Telegraph; un decennio dopo, anche la sua offerta per il Financial Times non è stata ritenuta all’altezza. A quel punto la sua strategia era diventata completamente digitale: aveva venduto i giornali regionali tedeschi di proprietà di Axel Springer per disporre della liquidità necessaria ad acquistare sia una quota di maggioranza da 343 milioni di dollari di Insider, l’elegante sito di notizie economiche con sede a New York che si rivolge sempre più a un pubblico giovane e variegato, sia le quote di minoranza delle startup di media digitali statunitensi Thrillist e NowThis News. Nel 2020, inoltre, è riuscito ad acquisire la quota di maggioranza della popolare newsletter quotidiana di business Morning Brew.

Se le ambizioni di Döpfner sono guardate con sospetto negli ambienti progressisti, tuttavia, è in gran parte per via del prodotto cartaceo che da 70 anni rappresenta il cuore del suo impero: il belligerante tabloid di destra Bild.

Perché il fiore all’occhiello di Axel Springer sarà anche la Welt, quotidiano nazionale cosmopolita e di centrodestra, ma è con la Bild, il quotidiano più venduto d’Europa, che da molti anni la società si paga le bollette. Ispirata ad audaci tabloid britannici come il Daily Mirror e il Sun di Rupert Murdoch, la Bild ha ospitato la pagina di modelle in topless fino al 2018, ed è nota per aver pubblicato storie provocatorie e pretestuose come quella, successivamente smentita, sulle presunte violenze sessuali compiute da gang di nordafricani a Francoforte, o quelle che si scagliavano contro il «gergo woke» o altre cause di battaglia culturale. Le sue tattiche aggressive di reportage sono regolarmente sanzionate dalle autorità locali di regolamentazione dei media. Ma il giornale è influente, e nel 2012 la sua inchiesta sulla presunta corruzione di un ex presidente tedesco ha contribuito a provocarne le dimissioni.

«A rendere la Bild così influente è la convinzione generale che dia voce all’uomo comune, quindi tutti i politici lo leggono» ha detto Stefan Niggemeier, che ha fondato un sito di sorveglianza sulla Bild e ha scritto un libro sul suo ruolo nella cultura tedesca. «Non c’è redazione in Germania che non inizi la giornata guardando quali storie abbia la Bild».

Nonostante l’email inviata ai colleghi nel 2020, da lui definita una sciocchezza, Döpfner ribadisce di non essere mai stato un sostenitore di Trump. Sostiene di essere di vedute eclettiche, un «sionista non ebreo» con tendenze «liberali con la elle minuscola», profondamente preoccupato dal razzismo e dall’omofobia. A preoccuparlo è anche quella che considera cancel culture, e nelle conversazioni private, dicono gli amici, si lamenta della politica identitaria.

Uno dei suoi figli è capo dello staff di Peter Thiel, il magnate della tecnologia libertario-conservatore diventato uno tra i volti più influenti del movimento Make America Great Again, ma Döpfner ha incontrato Thiel solo poche volte e dice che non sono amici. Dimostra però una predilezione per i «controcorrente» e ha definito il CEO di Tesla, il provocatore Elon Musk, che attualmente è coinvolto in un contenzioso per il suo eclatante tentativo di impossessarsi di Twitter e di capovolgerne le politiche di moderazione, «una delle persone più stimolanti che abbia mai incontrato».

Mathias Döpfner e sua moglie Ulrike al funerale del giornalista tedesco Frank Schirrmacher a Francoforte nel 2014 (Thomas Lohnes/Getty Images)

Pur invitando alla neutralità politica dai suoi mezzi di informazione negli Stati Uniti, Döpfner viene da una tradizione di editori europei che si trovano molto a loro agio nel fondere l’ideologia con l’informazione. Il personale della Axel Springer in Germania è tenuto a firmare un impegno a rispettare principi che includono il disconoscimento del razzismo, del sessismo e dell’estremismo politico o religioso, ma anche a sostenere un’Europa unita, la legittimità dello Stato di Israele e il libero mercato. «Questi valori sono come una costituzione» ha detto l’anno scorso al Wall Street Journal.

L’anno scorso Döpfner ha ordinato che alla sede dell’azienda restasse issata per una settimana la bandiera israeliana, in segno di solidarietà dopo le manifestazioni antisemite organizzate in Germania per un nuovo periodo di violenze a Gaza. Alcuni dipendenti si sono innervositi, interpretando la cosa come una presa di posizione dell’azienda nel conflitto israelo-palestinese.
Döpfner ha risposto bruscamente in una videochiamata con lo staff: «Sarò molto franco con voi: una persona che ha un problema con una bandiera israeliana issata per una settimana qui, dopo manifestazioni antisemite, è bene che si cerchi un nuovo lavoro».

Gli opinionisti conservatori sono andati in visibilio per quello che ai loro occhi è apparso come un attacco alle posizioni progressiste. «Per fermare la follia basta un adulto disposto a dire no» ha twittato l’ex editorialista del New York Times Bari Weiss. Ma interrogato in proposito dallo staff di Politico, Döpfner l’ha messa in termini più semplici: dopo l’Olocausto, come può un’azienda tedesca avere una posizione diversa sul diritto di esistere dello stato di Israele?

Döpfner era il direttore del secondo quotidiano della seconda città più popolosa della Germania, Amburgo, quando nel 1996 a una cena conobbe Friede Springer, la quinta e ultima moglie di Axel Springer. Due anni dopo, su invito di lei, il consiglio dei supervisori dell’azienda lo assunse come caporedattore della Welt.

Si è tentati di pensare che nel giovane giornalista spavaldo Friede Springer avesse visto qualcosa del suo defunto marito – un uomo vigoroso ed elegante che aveva combattuto con fervore contro gli attivisti di sinistra durante i tumultuosi anni Sessanta e Settanta in Germania e sognava la riunificazione con l’Est.

Friede Springer, invece, sostiene di aver riconosciuto un outsider, come lei. I vertici aziendali avevano sottovalutato anche lei, considerandola solo la tata molto più giovane che aveva sposato il capo e che di certo non avrebbe dovuto assumere un ruolo di primo piano nell’azienda dopo la sua morte, nel 1985. Ma quando l’azienda si trovò in grave difficoltà, in un periodo di rapido turnover ai vertici, Springer si rivolse a Döpfner.

«Dissero “è troppo giovane, è solo un critico musicale e non sa nulla di affari”» ha raccontato ricordando le reazioni alla sua decisione. «Io risposi: “Voglio lui”. E avevo la maggioranza delle quote». La nomina a CEO avvenne nel 2002. «Dopo un anno, tutti a dirmi: “Che buona idea!”», ha concluso ridacchiando.

Qualche tempo prima Döpfner aveva inviato a Springer una copia dell’autobiografia dell’ex proprietaria, nonché editrice, del Washington Post Katharine Graham, che raccontava il suo stretto rapporto di lavoro con il leggendario direttore Ben Bradlee. «Questo può essere un buon modello per la nostra azienda», le aveva detto.

Mathias Döpfner, Priscilla Chan, Mark Zuckerberg e Friede Springer a Berlino nel 2016 (Adam Berry/Getty Images)

Ma Döpfner aspirava a qualcosa di più che un posto fisso in un giornale con un editore collaborativo. Il padre, «un architetto fallito, ma un uomo libero», l’aveva esortato a diventare il capo di se stesso. Così nel 2007 Döpfner aveva provato a fare il salto.

Bramando «il sonno irrequieto dell’imprenditore», dice, si affrettò ad acquistare azioni di Axel Springer, ansioso di trarre profitto dai successi dell’azienda ma anche di farsi carico delle «pressioni derivanti dalle perdite». Chiese un prestito sufficiente a rilevare il 2% dell’azienda, ignorando le preoccupazioni della moglie Ulrike: è un investimento sicuro in qualsiasi condizione, la rassicurava, a meno di una crisi finanziaria globale.

L’anno successivo il mercato crollò. «Fu un vero incubo» dice Döpfner. Alla fine il prezzo delle azioni risalì, ma lui ha continuato a diffidare dei volubili mercati pubblici e nel 2019 ha incaricato KKR, società di investimento di New York, di rimuovere dalla quotazione Axel Springer per accelerarne la trasformazione digitale. Nel frattempo Friede Springer ha stabilito il suo piano di successione: ha venduto a Döpfner una partecipazione nella società pari al 4,1% e gli ha dato un altro 15%, quindi ha trasferito a lui i diritti di voto per il suo restante 22%.

Il giornalista era diventato un vero magnate, un ruolo per cui si preparava da tempo. Nel 2013 aveva visitato con i suoi dirigenti la Silicon Valley per assorbirne la cultura, documentando il viaggio con un video celebrativo; in seguito si era messo in relazione con i giganti del mondo tecnologico lanciando gli Axel Springer Awards, nel 2016, per premiare «personalità imprenditoriali eccezionali» tra cui Mark Zuckerberg di Facebook e Jeff Bezos, fondatore di Amazon e proprietario del Washington Post. Ma nel 2014 si era anche imposto come leader aziendale con cui fare i conti, scrivendo una feroce lettera aperta all’allora CEO di Google Eric Schmidt, in cui accusava quell’azienda di essere un monopolio e l’intero settore di un’inosservanza della privacy da fare invidia, a sua detta, alla Stasi della Germania Est.

Döpfner si è distinto dagli altri amministratori delegati del mondo dei media semplicemente perché «è arrivato in anticipo» ad abbracciare la sperimentazione digitale, dice Evan Spiegel, il fondatore di Snapchat, ma «non è disposto a scendere a compromessi sui valori del giornalismo in cui crede, nemmeno per amore dell’innovazione». Durante l’ultimo viaggio di Spiegel a Berlino hanno discusso del futuro della realtà aumentata (e Döpfner «mi ha regalato un pezzo piuttosto pesante del muro di Berlino».)

Döpfner si era anche destreggiato in una vita romantica degna di un Murdoch o un Musk, avendo avuto un figlio nel 2016 con la collezionista d’arte Julia Stoschek pur rimanendo sposato con Ulrike, la madre dei suoi tre figli maggiori.
Eppure Döpfner, malgrado sia miliardario e controlli la maggioranza delle quote con diritti di voto di Axel Springer, deve ancora fare i conti con dei capi.

Friede Springer, Mathias Döpfner, Ulrike Döpfner, Richard Gere e sua moglie Carey Lowell a un premio cinematografico nel 2010 (Andreas Rentz/Getty Images)

Il suo comitato consultivo è formato in gran parte da dirigenti di KKR e i media tedeschi ipotizzano spesso che i termini del loro accordo con Axel Springer costringano Döpfner a generare un cashflow sufficiente a rilevare le loro quote (Axel Springer ha un ampio e redditizio giro d’affari di piccoli annunci, che è considerato maturo per lo spin-off.)
E la sua ascesa al vertice della piramide l’ha messo più che mai sotto esame.

Mentre Döpfner iniziava a dare seriamente la caccia alle principali aziende di news statunitensi, in patria si consumava una crisi manageriale. Nel marzo 2021 la rivista Spiegel ha rivelato che Axel Springer stava indagando sulle accuse di cattiva condotta sessuale rivolte all’allora direttore della Bild. Julian Reichelt era stato accusato di intrattenere rapporti inappropriati con tirocinanti che venivano premiate e promosse sul posto di lavoro.

L’azienda ha eseguito una sbrigativa opera di pulizia. Dopo una sospensione di circa due settimane e un’indagine interna, Axel Springer ha rilasciato una dichiarazione di colpe, affermando tuttavia di non aver trovato «alcuna prova di molestie o coercizioni sessuali». A Reichelt è stato concesso di mantenere il posto ma con un demansionamento, ed è stato affiancato da una condirettrice.

Nel frattempo Döpfner portava avanti la propria missione negli Stati Uniti. Sperando di creare un modello sostenibile a pagamento per il giornalismo, è stato attratto dal fruttuoso servizio in abbonamento di Politico, “Politico Pro”, con il quale vengono offerti contenuti approfonditi su temi politici e normativi a un pubblico specializzato di addetti alla politica di Washington e interessati al mondo degli affari. Le prime proposte di Döpfner per l’acquisto dell’azienda erano sempre state respinte. È stato solo nell’estate del 2021, quando ha appreso che Axel Springer stava corteggiando anche Axios, un sito rivale di Politico fondato da alcuni fuoriusciti di Politico stesso, che il proprietario Robert Allbritton ha accettato di vendere.

A ottobre l’accordo era ormai praticamente chiuso, ma i funzionari della Axel Springer hanno scoperto che il New York Times stava preparando un’inchiesta sul caso Reichelt. Tra le rivelazioni schiaccianti c’era la dichiarazione, rilasciata agli investigatori assunti dall’azienda, di una delle giovani con cui l’allora direttore aveva avuto una relazione: «È così che va sempre a Bild» diceva «Quelle che vanno a letto con il capo trovano un lavoro migliore».

Döpfner a quel punto è entrato in modalità «unità di crisi». Era convinto che ad architettare lo scandalo fossero stati i rivali che detestavano la politica conservatrice di Reichelt, quindi ha sollecitato i suoi maggiori dirigenti a far circolare questa sua teoria, per indebolire l’efficacia della storia della testimone. «Deve essere chiaro questo: qui c’è un gruppo di persone con un obiettivo» ha scritto in una email acquisita dal Washington Post. «Sono uomini malvagi, ma siccome ora sono dipinti come nobili difensori delle donne, questo quadro dev’essere crepato».

I consulenti per la gestione della crisi gli hanno suggerito una strategia più diretta. «L’obiettivo della settimana sarà spostare il focus da questa storia alla chiusura dell’accordo e al procedere del nostro business» ha scritto uno di loro il 18 ottobre, all’indomani della pubblicazione della storia da parte del New York Times. Stavolta Reichelt è stato licenziato, perché secondo la società non aveva «mantenuto un chiaro confine tra questioni private e professionali».

In una rara dichiarazione pubblica, Reichelt ha detto al Washington Post, «Döpfner mi ha invitato a casa sua per leggermi il rapporto finale» dell’indagine originale del marzo 2021, e ha aggiunto che «non hanno trovato alcuna prova a sostegno delle accuse mosse contro di me. Il motivo è che quelle accuse erano bugie fin dall’inizio» (una persona a conoscenza delle decisioni della Axel Springer afferma che Döpfner gli abbia letto solo «degli estratti adeguatamente censurati»).

Döpfner ha invece detto al Washington Post che Reichelt gli aveva dato «la sua parola di aver cambiato atteggiamento. Ma si è scoperto che aveva ripetutamente mentito ai dirigenti e a me».

Il giorno dopo il licenziamento di Reichelt, Axel Springer ha concluso l’acquisto di Politico. Ma chiaramente quella storia logorava ancora Döpfner, il quale, contro i consigli dei suoi professionisti della comunicazione, ha pubblicato un video su YouTube per attaccare i soggetti non meglio specificati che, secondo lui, avevano cospirato per rovinare il suo direttore.

Sei mesi dopo, alla fine di aprile di quest’anno, Döpfner è volato a Washington per fare il suo trionfale debutto in società nella capitale. A quel punto aveva ormai governato alcune importanti manovre dentro Politico, tra cui l’assunzione di un nuovo CEO, Goli Sheikholeslami, dalla New York Public Radio, e di un nuovo direttore esecutivo, Dafna Linzer, ex NBC (prima lavoravano entrambi al Washington Post), dopo una ricerca su scala nazionale in cui aveva passato in rassegna una serie di divi del giornalismo politico, professionisti del Washington Post e del New York Times. Dietro le quinte Axel Springer si era ripromessa di raddoppiare abbondantemente le entrate annuali di Politico entro il 2026; e secondo due persone vicine a quello specifico processo di pianificazione, sembra che Politico aggiungerà inviati in California, a New York e oltreoceano, ampliando le squadre che si occupano di questioni giudiziarie e ambientali.

Sebbene Döpfner partecipi regolarmente a varie conferenze elitarie, non aveva mai partecipato alla cena dell’Associazione dei corrispondenti della Casa Bianca. Ha recuperato comparendo a cinque feste al giorno nel fine settimana, e partecipando a un incontro di un’ora con Antony Blinken, segretario di Stato dell’amministrazione Biden. La confidenza che si è venuta a creare fra i due in quell’occasione è stata tale da giustificare una telefonata del segretario di Stato a Döpfner quando, giorni dopo, è risultato positivo al coronavirus (Döpfner è rimasto negativo).

La visita del fine settimana tuttavia non è stata di pure relazioni sociali:  lo staff di Politico ha avuto per la prima volta l’occasione di vedere il suo nuovo capo impegnato in scelte e decisioni di grosso rilievo. Tra un festeggiamento e l’altro Matthew Kaminski, direttore di Politico, ha preso Döpfner da parte. I suoi giornalisti avevano ottenuto una bozza di documento della Corte Suprema, scritta dal giudice Samuel A. Alito Jr., in cui si dichiarava che la Corte era intenzionata ad annullare quanto stabilito con la storica sentenza Roe v. Wade.

Una fuga di notizie dalla Corte Suprema era una cosa praticamente inaudita; Sheikholeslami e John Harris, rispettivamente direttore co-fondatore del giornale e presidente del comitato consultivo, volevano che Döpfner comprendesse il potenziale sismico della storia: lo scoop più grande mai realizzato da Politico nei suoi 15 anni di vita, ma anche un possibile rischio di natura legale, se l’azienda fosse stata costretta a proteggere le sue fonti. Nel pomeriggio del 2 maggio Linzer e Kaminski hanno preparato la storia per la pubblicazione con i loro giornalisti, mentre Harris e Sheikholeslami parlavano al telefono con Döpfner e con il suo numero due, Jan Bayer.

Bayer voleva sapere quanto gli sarebbe venuto a costare se Politico fosse stato citato in giudizio. Döpfner, nei panni dell’avvocato del diavolo, chiedeva perché fosse importante divulgare una bozza di sentenza, dato che probabilmente sarebbe diventata ufficiale di lì a poche settimane secondo il parere di tre persone che avevano familiarità con l’argomento e avevano chiesto l’anonimato.

Harris ha spiegato l’ovvio valore giornalistico della bozza di sentenza e ha aggiunto che sarebbe stata una batosta per la loro reputazione se Politico avesse rinunciato a uno scoop legittimo di quella portata. La telefonata è durata appena dieci minuti. Secondo una delle persone a conoscenza della chiamata, Döpfner avrebbe detto ai colleghi che se erano ragionevolmente sicuri della validità della segnalazione, allora era il caso di procedere («dovete pubblicarla e avete il nostro appoggio»). Politico ha pubblicato la storia quella sera stessa.

«Ho creduto subito che fosse stato fatto tutto con la massima serietà professionale e che questa fosse una storia di rilevanza epocale» ha detto in seguito Döpfner. «Onestamente non è mai stato in dubbio che l’avremmo fatta uscire». Appena una settimana dopo Döpfner ha dovuto prendere una decisione simile su una storia di Insider, che aveva appena vinto il suo primo Pulitzer per un reportage illustrato che raccontava di una fuga da un campo di prigionia cinese. Stavolta erano pronti a pubblicare uno scoop sulle accuse di molestie sessuali contro uno degli eroi di Döpfner nel mondo del business: Elon Musk.

La storia era tenuta insieme da una sorta di triangolazione: Insider infatti non aveva un’intervista ufficiale all’assistente di volo di SpaceX che, secondo quanto riferito, aveva ricevuto un risarcimento di 250mila dollari dalla società fondata da Musk; ma il giornalista di Insider aveva esaminato i dettagli del fatto su una dichiarazione firmata da un’amica di lei, scritta per convalidare il racconto della donna secondo cui Musk si sarebbe spogliato proponendole di fare sesso. Musk aveva dichiarato a Insider che ci fosse «ben altro da dire su questa storia», che aveva definito «uno scoop spinto da motivi politici» (in seguito ha definito le accuse «assurde» e «assolutamente false»).

Döpfner era diffidente e ha fatto domande specifiche su come avessero fatto i giornalisti a stabilire l’attendibilità delle fonti per la pubblicazione: questo secondo persone che hanno familiarità con la questione e hanno accettato di riportare una conversazione delicata a condizione di mantenere l’anonimato. Alla fine, ha detto Döpfner, la decisione dovevano prenderla i giornalisti e i loro avvocati. La storia è stata pubblicata.

In seguito Döpfner ha detto al Washington Post che è essenziale garantire l’indipendenza ai giornalisti. Si irrita quando i critici si riferiscono alla Bild come all’equivalente tedesco di Fox News, oppure insinuano che lui sia il Rupert Murdoch tedesco.

«È praticamente l’opposto di ciò che vogliamo e di ciò che siamo» ha detto. «Che i media debbano stare in un campo o nell’altro, penso sia concettualmente sbagliato».

(una settimana dopo la pubblicazione originale di questo articolo Döpfner è stato accusato dal Financial Times di cospicue ingerenze interessate nelle scelte dei suoi giornali tedeschi, ndr)

Döpfner aspirerà anche a ricavarsi una nicchia «nonpartisan», ma dice di non vedere come i media possano rivendicare la pura neutralità; ecco perché Axel Springer mette nero su bianco i principi che si aspetta che i dipendenti rappresentino, spiega. «Ma all’interno di questo quadro ideale, incoraggiamo la libera decisione», anche se questo implica pubblicare una storia che scontenta gli amici del capo o va contro alle sue opinioni.
«Mi sono impegnato molto perché in questa azienda» ha aggiunto «non tutti i giornalisti scrivano quello che è giusto per me».

© 2022, The Washington Post
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(traduzione di Sara Reggiani)