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  • Giovedì 13 ottobre 2022

La tragedia e il “miracolo” delle Ande

Cinquant'anni fa un aereo si schiantò a oltre quattromila metri d'altezza: i superstiti, che per rimanere in vita fecero qualsiasi cosa, vennero salvati più di due mesi dopo

di Gabriele Gargantini

I superstiti la notte prima di essere portati in salvo (AP Photo)
I superstiti la notte prima di essere portati in salvo (AP Photo)
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Cinquant’anni fa, il 13 ottobre del 1972, l’aereo preso a noleggio da una squadra di rugby uruguaiana diretta in Cile precipitò sulla catena montuosa delle Ande. A bordo c’erano quarantacinque persone: cinque membri dell’equipaggio, diciannove rugbisti e poi amici, parenti e altri passeggeri che erano stati convinti a prendere quel volo così da ammortizzarne i costi. La maggior parte di loro sopravvisse all’impatto, ma solo sedici passeggeri restarono in vita fino a quando, poco prima del Natale di quell’anno, furono trovati dai soccorsi.

In Uruguay quella vicenda è nota soprattutto in due modi: la Tragedia de los Andes o il Milagro de los Andes, per le ventinove persone che morirono dopo la caduta e prima dei soccorsi e per quanto raro ed estremo fu il modo in cui sedici di loro si salvarono.

Per sopravvivere in mezzo alla cordigliera delle Ande, a quasi quattromila metri di altezza e con temperature che di notte andavano di molto sotto lo zero, i sopravvissuti superarono difficoltà di ogni genere, e due di loro fecero un viaggio di dieci giorni, scalando una montagna di 4.650 metri mai scalata prima, per cercare aiuto. E per sopravvivere quei passeggeri dovettero mangiare la carne di alcuni cadaveri.

Uno dei sopravvissuti ricoverato a San Fernando, in Cile, il 23 dicembre 1972 (AP Photo)

I rugbisti giocavano per l’Old Christians Club, una squadra fondata nel 1962 a Montevideo, con forti legami con l’Irlanda e il cattolicesimo. Il volo charter serviva alla squadra, tra le più forti in Uruguay, per andare a giocare una partita contro una squadra di Santiago del Cile; una sorta di replica di quanto già era stato fatto un anno prima.

Il volo charter 571 costò alla squadra 1.600 dollari statunitensi e oltre ad amici e familiari dei rugbisti sull’aereo si imbarcarono anche persone che andavano in Cile — dove dal 1970 governava Salvador Allende — per fare altro. Una signora, per esempio, era lì perché stava andando al matrimonio della figlia, che doveva sposarsi in Cile con un esiliato politico.

L’aereo, un Fairchild FH-227D, aveva quattro anni e meno di ottocento ore di volo. Apparteneva all’aeronautica militare uruguaiana, che al tempo noleggiava i suoi aerei per provare a sistemare una complicata situazione finanziaria. Partì il 12 ottobre dall’Uruguay e, a causa del maltempo, si fermò a Mendoza, in Argentina, dove equipaggio e passeggeri trascorsero la notte. Ripartì nel pomeriggio del 13 ottobre, diretto verso Santiago del Cile e con le Ande da sorvolare.

Le condizioni meteorologiche avverse e una serie di errori di calcolo da parte dei piloti – i quali dovettero guidare l’aereo praticamente senza visibilità – crearono le condizioni per l’incidente. Contribuì anche il fatto che il margine tra l’altitudine massima raggiungibile da quel tipo di aereo e l’altezza di certe vette andine era scarso: non potendo andare troppo in alto, l’aereo finì per volare troppo basso e schiantarsi.

L’impatto avvenne a oltre quattromila metri di altezza, dopodiché l’aereo perse ali e coda, e alcune delle persone che si trovavano a bordo. Quel che restava della fusoliera scivolò velocemente lungo un ghiacciaio, per fermarsi infine a circa 3.570 metri d’altezza, in un territorio sotto giurisdizione argentina: a ovest c’era il Cile e tutto attorno c’erano le Ande.

Secondo i successivi resoconti dei superstiti, più di dieci persone morirono o risultarono disperse dopo l’impatto, e altre cinque morirono nei due giorni successivi. Tra i sopravvissuti molti avevano meno di vent’anni, nessuno aveva esperienza di alpinismo e alcuni nemmeno avevano mai visto la neve. Si trovarono con pochi indumenti, scarsissima protezione dal freddo, e quasi nessuna informazione su dove si trovassero.

Dei due piloti, uno era morto nell’impatto e l’altro, morto nei primi giorni, aveva detto loro, sbagliando, di ritenere di aver superato una certa città. Gli strumenti di volo indicavano inoltre un’altitudine di circa duemila metri, molto più bassa di quella effettiva e, di fatto, i superstiti non sapevano dove si trovavano. Erano in un luogo così remoto che il ghiacciaio sul quale finirono non aveva nemmeno un nome.

I superstiti non sapevano neppure che a circa venti chilometri da lì c’era un centro termale abbandonato, con annesso albergo, nel quale avrebbero potuto trovare un riparo migliore rispetto ai pochi metri quadrati di spazio rimasti all’interno della fusoliera.

Con il passare dei giorni, i superstiti – tra i quali c’erano tanti studenti di agronomia e due di medicina, entrambi però ancora all’inizio degli studi – si organizzarono in vari modi ed a emergere come leader fu soprattutto Marcelo Pérez, il venticinquenne capitano dell’Old Christians Club. I superstiti erano tutti cattolici e, da quanto raccontato in seguito, molti di loro lo erano in modo particolarmente convinto.

Per bere trovarono modi per sciogliere la neve. Per mangiare disponevano, come scritto nel libro pubblicato dopo il loro salvataggio, «di otto tavolette di cioccolata, cinque tavolette di torrone, alcune caramelle sparpagliate sul pavimento della cabina, di pochi datteri e prugne secche, di un pacchetto di cracker salati, di due barattoli di vongole, di un barattolo di mandorle salate, e di tre vasetti di marmellata: uno di pesche, uno di mele e uno di more». Molti giorni più tardi, trovando la coda dell’aereo avrebbero recuperato qualche altra provvista, ma per gran parte della loro permanenza lì non ebbero altro.

Attorno a loro, nella neve e nel ghiaccio, non c’era nulla da poter mangiare. Fu per questo che decisero di nutrirsi con la carne di alcuni dei cadaveri che neve e ghiaccio avevano conservato. La decisione fu ovviamente oltremodo sofferta, discussa e inizialmente avversata da alcuni, ma stando ai resoconti tutti finirono per farlo.

I soccorritori, intanto, stavano avendo grandi problemi: perché prima di cadere l’aereo si era allontanato di decine di chilometri dalla rotta prevista, e poi perché era pressoché impossibile trovare, nella neve e nel ghiaccio, una fusoliera bianca.

Dopo due settimane, le persone ancora in vita erano ventisette, ma otto di loro, compreso Perez, morirono a fine ottobre quando una valanga colpì quel che restava dell’aereo, rendendo ancora più proibitivo il tentativo di sopravvivenza dei superstiti. Nella valanga morì anche Liliana Navarro, l’ultima donna rimasta nel gruppo e la moglie del trentaquattrenne Javier Methol, il più anziano tra i restanti superstiti.

Altre due persone morirono nelle settimane successive e l’11 dicembre, a sessanta giorni dall’incidente, il gruppo di sopravvissuti arrivò a ridursi a sedici persone. Intanto le autorità avevano ormai sospeso le ricerche aeree, e i superstiti vennero a conoscenza della cosa perché nel frattempo erano riusciti a rimettere in funzione una radio.

Sapendo che nessuno li stava più cercando, dopo la valanga e consapevoli del fatto che col passare del tempo il clima si sarebbe fatto meno rigido, i superstiti organizzarono alcune missioni di esplorazione nelle vicinanze, rese però difficilissime dalla molta neve, dal grande freddo e dal fatto che molti tra loro fossero feriti o malati, e tutti sempre più debilitati. Provarono anche, senza però riuscirci, a riparare una radiotrasmittente.

Tre membri furono scelti infine per tentare la missione decisiva: una marcia di più giorni verso la direzione dove i superstiti pensavano ci potesse essere qualcuno. Dopo un paio di giorni, vedendo che la marcia sarebbe durata ben più del previsto, i tre si accordarono, così da far durare di più le provviste, affinché uno tornasse indietro. A tentare la marcia restarono quindi Nando Parrado, ventiduenne rugbista e studente di agronomia che dopo l’incidente aveva visto morire madre e sorella e che nei primi giorni dopo lo schianto era stato dato per spacciato, e il diciannovenne Roberto Canessa, anche lui rugbista e uno dei due studenti di medicina a bordo.

Insieme, Parrado e Canessa scalarono – e furono probabilmente i primi a farlo – una montagna di 4.650 metri e in dieci giorni percorsero oltre sessanta chilometri. Avevano attrezzature scarsissime e indumenti improvvisati, alcuni dei quali recuperati, diversi giorni prima, quando in una esplorazione i superstiti avevano trovato la coda dell’aereo, alcuni cadaveri e qualche valigia. Non avevano mappe, non avevano una bussola e gran parte di quel che credevano di sapere sulla loro posizione e direzione era sbagliato.

Litigarono anche su quella che Canessa credeva potesse essere una strada e che Parrado sosteneva invece non lo fosse. Lo era, una strada, e se l’avessero presa avrebbero quasi di certo trovato prima qualche soccorritore, ma andarono invece in un’altra direzione. Arrivarono comunque in una vallata e, seguendo il fiume che ci scorreva, trovarono infine mucche al pascolo e dopo un paio di giorni qualcuno che li soccorse.

Un poliziotto cileno e Canessa, a cavallo, il 23 dicembre 1972 (AP Photo)

Parrado e Canessa, che era arrivato a pesare 44 chili, erano arrivati in Cile. Dopo i primi soccorsi, arrivarono anche alcuni militari cileni, i quali fecero poi arrivare un elicottero. Parrado si offrì di salirci e, ripercorrendo in volo e in senso inverso la strada fatta a piedi con Canessa, condusse i soccorritori al luogo in cui c’era la fusoliera con i superstiti. Alcuni furono portati in salvo il 22 dicembre, altri il 23 dopo una notte che alcuni soccorritori scelsero di trascorrere al loro fianco. Erano passati 72 giorni dal giorno dell’incidente.

La storia dei superstiti fu ovviamente al centro di grandi attenzioni internazionali, e sebbene inizialmente i sedici sopravvissuti evitarono di parlarne, in poco tempo arrivarono i primi articoli sul fatto che per sopravvivere avevano fatto ricorso al cannibalismo: circolarono anche le immagini di quel che restava di alcuni cadaveri.

In realtà, come specificò Canessa alcuni anni fa, lui e altri preferivano parlare di antropofagia, perché l’espressione cannibalismo è spesso usata per casi in cui si uccide per mangiare, cosa che dissero di non aver mai fatto. Raccontarono inoltre di aver evitato di mangiare carne dai cadaveri di parenti stretti di persone sopravvissute.

Canessa, durante una messa, il 23 dicembre 1972 (AP Photo)

Disse successivamente Canessa: «Le persone dicono “sei sopravvissuto mangiando altre persone”. Ma per me non fu la cosa più difficile. Penso che riuscimmo a sopravvivere perché eravamo una squadra e perché riuscimmo a andarcene da quel ghiacciaio. La notte dopo la valanga, quando sentivamo la montagna muoversi ed eravamo terrorizzati di essere sepolti vivi nella neve, fu peggiore del tormento dovuto al mangiare carne umana».

I superstiti a messa, il 23 dicembre 1972 (AP Photo)

I sopravvissuti parlarono per la prima volta dell’antropofagia in una conferenza stampa organizzata il 28 dicembre e già nel 1974 lo scrittore britannico Piers Paul Read pubblicò un libro sulla vicenda, scritto dopo lunghe interviste ai sopravvissuti. Il libro, che nella sua prima versione italiana è intitolato Tabù e che tratta apertamente quel che portò alla decisione dell’antropofagia e quel che essa comportò, è considerato un crudo e oggettivo resoconto della vicenda, ed è alla base del film Alive – Sopravvissuti, del 1993.

Negli anni diversi altri sopravvissuti – a cominciare da Parrado e Canessa, diventati poi pilota automobilistico l’uno e cardiologo pediatrico l’altro – hanno scritto altri libri e partecipato a ricostruzioni e documentari. Tra questi fu particolarmente apprezzato Stranded: I’ve Come from a Plane that Crashed on the Mountains del 2007.

Dal 2013 a Montevideo c’è un museo dedicato alla vicenda e da alcuni anni vengono organizzate camminate verso la vetta raggiunta e superata da Canessa e Parrado — che quest’ultimo scelse di chiamare Cerro Seler in omaggio a suo padre Seler Parrado — e verso il ghiacciaio dove precipitò l’aereo, da allora noto come Glaciar de las Lágrimas.

L’Old Christians Club continua a essere una delle squadre più titolate del rugby uruguaiano. Già nel 1973 vinse il campionato, e da allora ne ha vinti altri diciassette, il più recente dei quali nel 2019.

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