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  • Sabato 1 ottobre 2022

L’indipendentismo in Catalogna cinque anni dopo il referendum

Gli indipendentisti sono ancora forti e governano la regione spagnola, ma il movimento è diviso e ha perso parte della sua spinta

(Dan Kitwood/Getty Images)
(Dan Kitwood/Getty Images)
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Cinque anni fa, il 1° ottobre del 2017, si tenne in Catalogna un contestato e illegale referendum per l’indipendenza dalla Spagna, che aprì una delle più gravi crisi costituzionali della storia politica spagnola e che, ancora oggi, è una delle questioni più rilevanti e controverse non soltanto in Catalogna, ma in tutto il paese. A cinque anni di distanza molte cose sono cambiate: tutti i protagonisti di quegli eventi, sia dalla parte spagnola sia dalla parte degli indipendentisti catalani, non ricoprono più incarichi di rilievo, e all’atteggiamento oltranzista di cinque anni fa si sono sostituiti tentativi di negoziato, benché incompiuti e per ora piuttosto timidi.

In questo contesto il numero dei catalani favorevoli all’indipendenza è sceso costantemente, e ancor meno sono quelli favorevoli alle tattiche conflittuali usate dalla leadership indipendentista cinque anni fa. Questo sta creando divisioni anche nel governo locale catalano, dominato da partiti indipendentisti che tuttavia hanno obiettivi e modi di raggiungerli molto differenti tra loro.

Cinque anni fa
Il referendum del 1° ottobre 2017 in Catalogna fu il culmine di un lungo scontro tra il governo spagnolo e i partiti indipendentisti catalani, che era cominciato vari anni prima ma degenerò rapidamente quando nel 2016 Carles Puigdemont, un ex giornalista di centrodestra, fu nominato presidente della Generalidad catalana, cioè capo del governo della regione, con l’obiettivo esplicito di indire un referendum per l’indipendenza della Catalogna. Lo fece un anno dopo: nel settembre del 2017 il parlamento catalano approvò una legge per indire un referendum vincolante sull’indipendenza. Il quesito referendario era: «Volete che la Catalogna sia uno stato indipendente nella forma di una repubblica?».

Secondo la legge approvata dagli indipendentisti, era sufficiente che il numero dei sì fosse maggiore di quello dei no per rendere obbligatoria la dichiarazione di indipendenza, e non era previsto un quorum. Il referendum fu immediatamente considerato illegale dalle autorità spagnole, e non fu riconosciuto dalla comunità internazionale.

Il giorno del referendum, il 1° ottobre, fu confuso e caratterizzato dalle violenze della Guardia Civil, un corpo della polizia spagnola, che fece chiudere molti seggi anche irrompendo con la forza nelle scuole dove erano stati allestiti: le immagini della polizia che manganellava i civili generarono grossa indignazione in tutto il mondo.

Alla fine della giornata, i risultati del referendum furono schiaccianti: i sì erano il 90,1 per cento e i no il 7,8 per cento. Ma l’affluenza era stata appena del 43 per cento, a riprova di un dato quasi sempre confermato dai sondaggi, e cioè che la maggior parte dei catalani è contraria o quanto meno scettica nei confronti della secessione dalla Spagna.

Un’urna elettorale portata dagli organizzatori del referendum nelle prime ore del 1° ottobre 2017 (Dan Kitwood/Getty Images)

Le settimane successive furono tese e complicate. Puigdemont esitò a lungo prima di dichiarare l’indipendenza, e quando lo fece, il 10 ottobre, usò una formula astrusa che creò ulteriore confusione. Alla fine, dopo vari giorni di scontri e trattative tesissime, sia con il governo spagnolo sia all’interno del movimento indipendentista, il 27 ottobre il parlamento catalano dichiarò unilateralmente l’indipendenza, dopo una votazione molto risicata (72 deputati a favore su un’assemblea di 135) che creò grosse contestazioni.

A quel punto, il primo ministro spagnolo Mariano Rajoy mise in atto l’articolo 155 della Costituzione, che dà al governo poteri eccezionali nel caso in cui una comunità autonoma (cioè una regione nel sistema spagnolo) vada contro la Costituzione o danneggi gli interessi della Spagna nel suo insieme. Sciolse il governo e il parlamento catalani e indisse nuove elezioni regionali per il dicembre di quell’anno.

Carles Puigdemont a Barcellona nel 2017 (David Ramos/Getty Images)

Nel frattempo erano partite delle inchieste giudiziarie contro i principali leader dell’indipendentismo, con accuse tra le altre di sedizione e ribellione. Il 29 ottobre Puidgemont lasciò Barcellona nella notte e fuggì in Belgio assieme a vari suoi colleghi e collaboratori: si trova ancora all’estero. Altri leader indipendentisti rimasero invece in Catalogna e furono arrestati e processati, ricevendo importanti condanne al carcere: sono stati liberati soltanto l’anno scorso, dopo che il governo di Pedro Sánchez, che è succeduto a Rajoy, ha concesso loro la grazia.

Alle elezioni del 21 dicembre 2017, così come alle successive del 2021, hanno nuovamente ottenuto la maggioranza le forze politiche indipendentiste. Attualmente il presidente della Generalidad è Pere Aragonès, esponente di Sinistra repubblicana della Catalogna (ERC, centrosinistra indipendentista), che governa assieme a Junts (centrodestra indipendentista, il partito di Puigdemont) e alla Candidatura popolare unita (CUP, estrema sinistra indipendentista).

Oggi
Quest’anno, nel quinto anniversario del referendum, il 1° ottobre a Barcellona si terranno vari eventi commemorativi: dopo una prima manifestazione nella notte del 30 settembre è previsto nel pomeriggio dell’1 un grosso evento nel centro della città.

Negli anni trascorsi dopo il referendum, tuttavia, il movimento indipendentista si è frammentato, e l’iniziativa politica dei secessionisti ha perso almeno parte della sua spinta. Ciò non significa che le istanze indipendentiste si siano esaurite: sono anzi ancora fortissime in tutta la Catalogna. Ma quel contesto politico che portò nel 2017 al referendum illegale e alla dichiarazione di indipendenza unilaterale è ormai molto lontano.

Le forze politiche attualmente al potere, sia in Spagna sia in Catalogna, stanno cercando faticosamente di instaurare un dialogo sulla questione dell’autonomia della regione.

Da oltre un anno Sánchez e Aragonès hanno iniziato a organizzare incontri periodici (benché infrequenti) tra una delegazione spagnola e una catalana, anche se le posizioni di entrambi rimangono molto distanti: Sánchez non ha intenzione di concedere alla Catalogna l’indipendenza, ma soltanto di trattare su ulteriori livelli di autonomia, mentre Aragonès rimane un convinto indipendentista, che tuttavia non vuole organizzare un referendum secessionista che non sia legale e concordato con il governo.

Questo dialogo è costato politicamente a entrambi: Sánchez è stato molto attaccato dall’opposizione e ha perso consensi a livello nazionale (soprattutto dopo che ha concesso la grazia ai leader catalani in prigione), mentre Aragonès è accusato di essere troppo accondiscendente con il governo spagnolo.

Pere Aragonès, a sinistra, e Pedro Sánchez a maggio di quest’anno (AP Photo/Joan Mateu Parra)

All’interno del movimento indipendentista, in particolare, si è creata una divisione tra chi, come Aragonès, vuole negoziare con il governo spagnolo per ottenere un referendum concordato, e chi invece vorrebbe mantenere le tattiche conflittuali di cinque anni fa e cercare lo scontro diretto e le azioni unilaterali in favore della secessione.

«C’è una parte del movimento indipendentista che non è d’accordo con questo processo negoziale, ma io ritengo sia necessario», ha detto di recente Aragonès al Guardian. «Quando c’è un conflitto in una democrazia, bisogna negoziare. Non c’è alternativa».

Lo scontro tra moderati e oltranzisti all’interno del movimento indipendentista si riflette anche nella politica catalana dove ERC, il partito di Aragonès, e Junts, gli alleati della destra indipendentista, si scontrano da mesi proprio sulla questione delle relazioni con la Spagna, con Junts che prende le parti degli oltranzisti. Questa settimana, dopo giorni particolarmente tesi in cui gli esponenti di Junts avevano detto di volere un voto di fiducia sull’operato del governo, Aragonès ha licenziato il suo vice, Jordi Puigneró, esponente di Junts, che lo accusava di non fare abbastanza per la causa indipendentista.

Junts ha perciò annunciato un confronto interno, previsto per la prossima settimana, in cui discuterà se proseguire a sostenere il governo: il rischio che il governo unitario delle forze indipendentiste entri in crisi è insomma concreto, anche se Aragonès potrebbe decidere di provare a guidare un governo di minoranza, visto anche la difficile situazione economica europea.

In questo contesto, il sostegno per l’indipendentismo catalano è in calo rispetto ai massimi di qualche anno fa: secondo dati del governo catalano, nell’ottobre del 2017, al culmine della crisi per il referendum, i catalani favorevoli alla secessione dalla Spagna erano il 48,7 per cento, con il 43,6 per cento di contrari. Oggi i favorevoli sono il 41 per cento, e i contrari il 52.

Una buona immagine di come l’indipendentismo abbia perso la propria spinta si può vedere dalla manifestazione della cosiddetta Diada, una celebrazione indipendentista che si tiene l’11 settembre (anniversario della caduta di Barcellona durante la Guerra di successione spagnola del 1714) e che da una decina d’anni attira centinaia di migliaia di persone che chiedono l’indipendenza. Quest’anno alla Diada hanno partecipato 150 mila persone (700 mila secondo gli organizzatori): è un numero enorme, ma molto lontano dal milione e mezzo di persone che partecipava alla Diada cinque-dieci anni fa, quando il movimento era molto più forte.

La Diada del 2014, alla quale partecipò oltre un milione di persone (David Ramos/Getty Images)