Luigi Di Maio non sarà nel prossimo parlamento

Cinque anni fa era il leader del maggiore partito del paese, oggi ha perso all'uninominale e il suo partito è sotto all'un per cento

(Roberto Monaldo/LaPresse)
(Roberto Monaldo/LaPresse)
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Il collegio uninominale alla Camera di Napoli Fuorigrotta sarà vinto dall’ex ministro Sergio Costa, del Movimento 5 Stelle: significa che Luigi Di Maio non sarà rieletto in parlamento, dopo dieci anni da deputato e quasi cinque da ministro, prima del Lavoro e dello Sviluppo economico nel primo governo Conte, poi degli Esteri nel secondo governo Conte e nel governo Draghi.

Di Maio è già certo di non entrare in parlamento perché la sua lista, Impegno Civico, nella coalizione di centrosinistra, non ha raggiunto la quota necessaria a farlo: cioè il 3 per cento che serve per ottenere seggi nei collegi plurinominali. Impegno Civico è anzi rimasto nettamente sotto l’1 per cento, e quindi i suoi voti non si sommeranno nemmeno a quelli del resto della coalizione.

È un risultato molto sorprendente e piuttosto netto, visto che Costa ha ottenuto poco meno del 40 per cento: oltre 15 punti sopra il 24,5 per cento di Di Maio. Solo nel 2018 Di Maio era stato eletto nel collegio di Acerra, sempre in Campania, con il 63,4 per cento dei voti: d’altra parte in quel momento era uno dei politici italiani di maggiore popolarità e capo politico del Movimento 5 Stelle, che a quelle elezioni si impose largamente come primo partito nel paese, e che avrebbe poi fatto parte di tutti i tre governi che si sarebbero succeduti nella legislatura.

Da quelle elezioni, di cui Di Maio era stato di fatto il grande vincitore, sono cambiate nel frattempo molte cose. La prima esperienza di governo del Movimento 5 Stelle aveva portato una progressiva diminuzione dei consensi intorno al partito, che era andato male in tutti gli appuntamenti elettorali dopo le politiche del 2018, sia locali che non: alle elezioni europee del 2019 i consensi si erano praticamente dimezzati, rispetto a un anno prima.

Dopo la caduta del primo governo Conte, ad agosto del 2019, Di Maio decise da capo del Movimento di allearsi con il Partito Democratico e di continuare a stare al governo: una circostanza che contribuì a diminuirne la popolarità, dopo che per anni lui e altri esponenti del partito avevano incentrato una parte importante della propria identità sulla garanzia che non avrebbero fatto alleanze con altre forze politiche, pur di stare al governo (quelli che venivano definiti “inciuci”). In breve tempo invece il Movimento era addirittura passato da un’alleanza con la Lega a una con il Partito Democratico, due partiti dalle idee molto distanti e di schieramenti politici opposti. Il PD, nelle parole dello stesso Di Maio, era il partito «che in Emilia-Romagna toglieva i bambini alle famiglie con l’elettroshock per venderseli», come aveva detto in riferimento al noto caso di cronaca di Bibbiano.

Con la popolarità del Movimento ai minimi storici, e dopo aver ottenuto risultati deludenti anche alle elezioni regionali in Umbria – in cui aveva tentato di instaurare un’alleanza con il PD anche a livello locale, rivelatasi fallimentare – all’inizio del 2020 Di Maio decise un po’ a sorpresa di dimettersi da capo del partito. Nel mentre aveva dovuto gestire anche un certo dissenso interno, con il gruppo parlamentare del Movimento che continuava a subire defezioni.

Da quel momento la sua posizione nel Movimento 5 Stelle si è progressivamente indebolita, complice anche la formazione all’interno del partito di due correnti: una più radicale e vicina al Movimento delle origini, rappresentata soprattutto da Alessandro Di Battista e da Davide Casaleggio, presidente dell’Associazione Rousseau; l’altra più governista e disposta a “istituzionalizzarsi”, guidata proprio da Di Maio.

La corrente radicale criticava la trasformazione del Movimento in un partito più simile agli altri, disposto a fare alleanze e a scendere a compromessi per ragioni politiche: in quel periodo Di Battista aveva definito l’alleanza con il PD «la morte nera» e aveva detto che in questo modo il Movimento rischiava di diventare come il partito di Clemente Mastella, «buono più per la gestione di poltrone e di carriere».

La distanza tra queste due correnti si marcò più chiaramente nel momento della formazione del governo Draghi, all’inizio del 2021: durante il voto di fiducia 31 parlamentari non seguirono l’indicazione del partito (voluta dalla corrente “governista”) di accordare la fiducia e furono espulsi dal Movimento. Di Maio nel frattempo era diventato agli occhi di tutti il volto più istituzionale e moderato del M5S, uno dei principali mediatori con il PD e per molti versi simbolo del trasformismo del partito nell’ultima legislatura. Secondo molti colleghi di altri partiti aveva peraltro messo in mostra ottime capacità diplomatiche e personali, per molti versi fondamentali in politica.

Qualche mese dopo fu scelto come nuovo capo politico del partito Giuseppe Conte, che godeva di un’ampia popolarità guadagnata durante il periodo alla presidenza del Consiglio, in particolare nei mesi più duri della pandemia. La sua leadership fu sostanzialmente contestata fin da subito da Di Maio, ma lo scontro si fece più concreto durante le trattative per l’elezione del presidente della Repubblica, a gennaio di quest’anno: sembra che in quei giorni Di Maio avesse lavorato attivamente per evitare una candidatura al Quirinale di Elisabetta Belloni, che era stata proposta proprio da Conte.

Nei giorni successivi all’elezione i due si erano comportati sostanzialmente come due rivali, parlando separatamente ai giornalisti, attaccandosi direttamente e attribuendo l’uno all’altro le responsabilità della crisi che stava vivendo il partito.

L’ultima parte dello scontro si era consumata pochi mesi fa, lo scorso giugno, e aveva riguardato l’eventualità di inviare armi all’Ucraina per difendersi dall’invasione russa: Conte e un gruppo di senatori del partito avevano chiesto a Draghi di sospendere l’invio di armi per evitare quella che veniva definita una possibile “escalation” del conflitto; Di Maio, che era ministro degli Esteri, era invece molto allineato alla posizione del governo insieme ad altri esponenti a lui vicini, e aveva molto criticato quella richiesta.

Dopo giorni di tensioni, Di Maio aveva infine annunciato che avrebbe lasciato il Movimento 5 Stelle insieme ad alcune decine di deputati e senatori: in quell’occasione aveva dichiarato che «il M5S aveva il dovere di sostenere il lavoro diplomatico di tutto il governo ed evitare ambiguità, ma così non è stato». Si era anche detto orgoglioso «di essere fortemente atlantista e europeista», una posizione molto distante da altre dichiarazioni che aveva fatto negli anni precedenti e che gli aveva attirato diverse accuse di trasformismo. Lo avevano seguito nel suo nuovo gruppo 50 deputati e 11 senatori, una delegazione consistente.

Dopo la caduta del governo Draghi, a fine luglio Di Maio aveva annunciato la fondazione di un nuovo partito, Impegno Civico, insieme a Bruno Tabacci, storico leader di centro e attuale sottosegretario alla presidenza del Consiglio, espressione di una politica datata che Di Maio aveva a lungo contestato. La campagna elettorale però era stata tutt’altro che brillante e decisamente sottotono: Di Maio e Tabacci sono praticamente spariti all’interno della coalizione di centrosinistra e non avevano fatto proposte in grado di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica, in quella che è sembrata una strategia almeno in parte voluta di profilo basso e moderato.

La campagna elettorale di Di Maio si era fatta notare solo nell’ultima settimana, quando aveva fatto un piccolo tour elettorale a Napoli, e quindi nelle zone del collegio in cui si sarebbe candidato: si era però parlato quasi esclusivamente di un suo pranzo in una trattoria della città, in cui si era cimentato nell’imitazione di una celebre scena di ballo del film Dirty Dancing, che però era stata anche molto criticata perché giudicata poco adatta al suo ruolo istituzionale di ministro degli Esteri.

Nonostante tutto, sembrava comunque che Di Maio potesse vincere nel suo collegio a Napoli, una città in cui mantiene ancora grande popolarità e in cui aveva vinto con enorme distacco meno di cinque anni fa. Il risultato è stato invece molto deludente e al di sotto di qualunque aspettativa più negativa. Oggi Di Maio è ancora ministro degli Esteri, ma nei fatti la sua carriera politica non sembra avere molto futuro: è leader di un partito che raccoglie meno dell’un per cento dei consensi e non farà parte del prossimo parlamento.