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  • Venerdì 23 settembre 2022

C’è una grossa crisi per le pere italiane

A Ferrara, la provincia dove se ne coltivano di più, stanno sradicando migliaia di alberi perché i frutteti non sono più redditizi

pere
(Dan Gold/Unsplash)
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Quando cominciò a coltivare pere a Portomaggiore, in provincia di Ferrara, Gianluca Vertuani non pensava che entro tredici anni sarebbe stato costretto a sradicare migliaia di alberi. Nelle ultime settimane lui e i suoi soci ne stanno espiantando a migliaia, cresciuti negli otto ettari della sua azienda agricola. «Fino a dieci anni fa si riusciva a sopravvivere, oggi non più», dice con una certa rassegnazione. Il prossimo anno Vertuani, che è anche presidente di Confagricoltura Ferrara, non sa ancora cosa coltiverà: forse grano, forse mais.

Il suo non è un caso isolato nel Ferrarese, la provincia dove storicamente è concentrata la produzione italiana di pere, in particolare di una varietà pregiata chiamata Abate Fetel, nota come la “regina delle pere”. Moltissimi altri agricoltori, qui come in altre province, hanno deciso di sradicare gli alberi perché questo tipo di coltivazione non è più redditizia come in passato per via di tanti problemi avuti negli ultimi anni. C’entra il cambiamento climatico che ha aumentato la frequenza di eventi meteorologici estremi, ma anche la crescita del prezzo dell’energia e la scarsa competitività delle pere sul mercato.

La produzione di pere italiane è in calo da anni. I dati elaborati dal centro studi Divulga dicono che nel 2021 ne sono stati raccolti 400 milioni di chili, il 48 per cento in meno rispetto al 2017. Nello stesso periodo di tempo le aree di coltivazione si sono ridotte del 15 per cento. Le regioni dove si producono più pere sono l’Emilia-Romagna, da dove proviene il 66% delle pere italiane, il Veneto (11,5%) e la Sicilia (6,7%).

L’Emilia-Romagna è una regione molto adatta alla coltivazione di questo frutto perché la pianta della pera è in grado di adattarsi soprattutto alle zone con un clima temperato e ai terreni con poco calcare. La presenza di così tanti frutteti in provincia di Ferrara, tuttavia, non ha soltanto una ragione climatica: nel Novecento diversi agricoltori ferraresi decisero di puntare sulle pere e iniziò così una tradizione che dura da almeno tre generazioni. Negli anni sono cambiate le varietà e i metodi per coltivarle, ma fino ad almeno cinque anni fa la produzione di pere era stata significativa, pur essendo un frutto meno redditizio di altri.

I primi segnali delle difficoltà che oggi sono evidenti risalgono al biennio tra il 2014 e il 2016, quando le pere italiane iniziarono a perdere competitività rispetto a quelle importate dall’estero, soprattutto dalla Cina e dal Nord Europa. Molte aziende italiane furono costrette a limitare gli investimenti nella ricerca, indispensabili per migliorare il prodotto e le coltivazioni, per sopravvivere e pagare i fornitori. Il risultato è che gli spazi di mercato conquistati in decenni di lavoro furono presto occupati da altri paesi. «C’è stata una crisi di valorizzazione: i prezzi di vendita si sono abbassati», spiega Vertuani. «Abbiamo continuato a lavorare mantenendo un buon livello di produzione, ma la remunerazione non era più adeguata come in passato».

Inoltre a partire dal 2019 si sono succeduti, ogni anno, problemi che hanno condizionato pesantemente la qualità delle coltivazioni e quindi la resa finale.

Sono aumentati i casi di maculatura bruna, un’infestazione causata dal fungo parassita chiamato Stemphylium vesicarium. La malattia si riconosce perché provoca sintomi evidenti come la presenza di macchie scure sulle foglie, sui rami e sulla buccia delle pere. Le tossine del fungo causano una progressiva necrosi dei tessuti della pera, rendendola di fatto invendibile. «È una malattia nota da 30 anni», spiega Carlo Alberto Roncarati, agricoltore, già presidente della Camera di commercio di Ferrara, proprietario di un’azienda agricola che si estende per quaranta ettari (circa 100mila alberi). «Fino a pochi anni fa riuscivamo a tenerla sotto controllo con presidi sanitari. Oggi la ricerca non investe più in un settore così residuale, quindi siamo costretti a usare gli stessi prodotti, con vecchie molecole, a cui il fungo ha imparato a resistere».

Un’altra conseguenza del calo degli investimenti destinati alla ricerca riguarda la conservazione delle pere. Fino al 2017, anno in cui venne messo al bando dall’Unione Europea, veniva utilizzato un antiossidante, l’etossichina, che permetteva di conservare le caratteristiche del frutto fino ai consumatori. Oggi si utilizzano composti chimici alternativi, che non garantiscono gli stessi risultati: di fatto il processo di maturazione viene rallentato al punto da rendere i frutti più duri, meno gustosi e quindi meno adatti al mercato.

Nel 2019 le coltivazioni furono danneggiate da un’infestazione della cimice asiatica (Halyomorpha halys), un insetto originario dell’Asia orientale: le sue punture compromettono in modo irrimediabile le pere fino a farle marcire. Finora le difese contro la cimice asiatica, come l’introduzione di altri insetti per combatterla, prodotti chimici e il posizionamento di reti anti insetti, non sono state molto efficaci.

Sia nel 2020 che nel 2021 ci furono poi gelate primaverili che causarono notevoli danni a tutti i produttori di frutta italiani. Le gelate arrivarono dopo settimane in cui le temperature erano state sopra la media stagionale e avevano accelerato la fase vegetativa degli alberi. Con l’arrivo del freddo, lo sbalzo termico causò danni molto gravi a piante che erano già fiorite, e quindi erano più vulnerabili. Andò persa una quota rilevante delle coltivazioni soprattutto nelle regioni del Nord, in Veneto, Emilia-Romagna e Piemonte.

Il problema non è la gelata in sé, ma l’effetto che ha sulle piante a seconda della fase fenologica, cioè lo stadio del ciclo vitale in cui si trovano. Se è pieno inverno, e non ci sono gemme, la gelata deve essere davvero estrema per fare danni. Se invece ci sono organi sensibili al freddo come i fiori o i frutticini, la gelata può causare un danno irreversibile per quella stagione. Ora fa caldo prima che in passato, una condizione favorita dal cambiamento climatico: per questo le piante fioriscono prima e sono più vulnerabili alle gelate tardive, quelle che avvengono all’inizio della primavera.

(Jonathan Mast/Unsplash)

Quest’anno si sono aggiunti i problemi causati dalla siccità e dalle alte temperature nei mesi estivi. Negli ultimi anni molti agricoltori hanno seguito tecniche di coltivazione diffuse ad esempio nei Paesi Bassi: la distribuzione più fitta di alberi nei campi consente di raccogliere le pere più facilmente, ma rende le piante più vulnerabili perché le radici, più superficiali, sono maggiormente esposte alle alte temperature. «Aggiungiamoci l’aumento dei costi per irrigare e quelli dell’energia ed è facile capire perché un agricoltore non ce la fa», dice Roncarati. «Ho investito molto e sono ostinato, ma anche io sto pensando di espiantare una parte dei miei alberi».

La perdita di un patrimonio agricolo e imprenditoriale così rilevante ha grosse conseguenze in un territorio come la provincia di Ferrara, dove si è sviluppato un indotto legato alla filiera delle pere, dalla raccolta al trasporto, di cui fanno parte anche piccole aziende legate all’imballaggio e alla conservazione, che oggi rischiano di rimanere senza lavoro. Negli anni inoltre sono stati costruiti magazzini e realizzati impianti a servizio delle cooperative, spesso con contributi pubblici, oggi sovradimensionati rispetto alla produzione.

Molti agricoltori lamentano una scarsa attenzione da parte delle istituzioni, chiedendo maggiori garanzie statali per i mutui fatti con le banche e tempi più veloci nell’accredito di fondi regionali e statali stanziati per le emergenze. Le aziende di Ferrara sono ancora in attesa dei soldi promessi per far fronte alle gelate del 2020 e del 2021: nel frattempo la produzione e i ricavi sono diminuiti, ma i fornitori sono stati comunque pagati. Senza aiuti economici c’è il rischio che molte aziende falliscano, con la conseguente vendita all’asta dei campi coltivati: è una situazione che porterebbe a una svalutazione generale dei terreni, con danni anche per le altre aziende. «Quelle più piccole sono più esposte, ma nessuno se la passa bene», dice Roncarati. «Ci sono agricoltori che non hanno nemmeno i soldi per espiantare gli alberi».

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