• Mondo
  • Martedì 30 agosto 2022

È morto Michail Gorbaciov

L'ultimo presidente dell'Unione Sovietica e artefice della perestrojka aveva 91 anni

Michail Gorbaciov nel 2016 (AP Photo/Ivan Sekretarev, LaPresse)
Michail Gorbaciov nel 2016 (AP Photo/Ivan Sekretarev, LaPresse)
Caricamento player

È morto a Mosca Michail Gorbaciov, l’ultimo presidente dell’Unione Sovietica e uno dei leader politici più influenti della Seconda metà del Novecento: le sue scelte politiche contribuirono alla fine della Guerra Fredda e alla dissoluzione dell’URSS. Aveva 91 anni e secondo le agenzie di stampa statali russe, che ne hanno annunciato la morte, era malato gravemente da tempo.

Gorbaciov bacia Erich Honecker, presidente della Germania Est, a Berlino, il 6 ottobre 1989 (AP Photo/Boris Yurchenko, LaPresse)

Gorbaciov nacque il 2 marzo 1931 a Privolnoye, un villaggio di campagna nel Caucaso del Nord. La sua famiglia era molto povera, benché suo nonno fosse a capo di un kolchoz, una fattoria collettiva. Dopo la Seconda guerra mondiale l’Unione Sovietica affrontò un periodo di carestia, ma un anno ci fu un raccolto particolarmente abbondante: in quell’occasione il padre di Gorbaciov e lui stesso – che già aiutava nel lavoro agricolo – ricevettero una medaglia dal regime, che allora era guidato da Josif Stalin.

Grazie ai voti eccellenti che prendeva a scuola e al riconoscimento ricevuto dal regime, il giovane Gorbaciov riuscì a entrare nella migliore università della Russia, la Statale di Mosca. Studiò legge, laureandosi con il massimo dei voti e riuscendo presto a colmare il divario che lo separava dagli studenti di città. Tuttavia, al lavoro nelle procure preferì la carriera politica, entrando nella Lega della gioventù comunista – la Komsomol – e scalando velocemente i ranghi nell’amministrazione locale della regione di Stavropol, di cui era originario. Nel giro di dieci anni diventò capo della sezione locale del partito, che significava essere a capo dell’intera regione. Aveva 39 anni.

In questo ruolo ottenne alcuni successi che ebbero risonanza nazionale, come l’inaugurazione del canale di Stavropol, all’inizio degli anni Settanta. Nel giro dei dieci anni successivi si guadagnò la fiducia del leader sovietico di allora, Leonid Brezhnev, elogiandolo spesso nei suoi discorsi pubblici. Nel 1978 Gorbaciov venne nominato Segretario del Comitato Centrale del partito.

– Leggi anche: La storia del murale di Berlino in cui Breznev bacia Honecker

Dopo la morte di Brezhnev, ci fu quello che venne poi definito l’«interregno» di Andropov e Cernenko, due leader molto anziani e che morirono pochi mesi dopo essere diventati Segretari del Partito Comunista, la massima carica sovietica. Quando nel 1985 morì Cernenko, a fare il nome di Gorbaciov fu Andrei Gromyko, funzionario di lungo corso ed “eterno” ministro degli Esteri dal 1957 in poi. Inaspettatamente, il Politburo, cioè la massima assemblea sovietica, lo appoggiò e Gorbaciov venne eletto all’unanimità capo dell’Unione Sovietica, il più giovane della storia. Aveva 54 anni.

L’Unione Sovietica arrivava da un ventennio di immobilismo e conservatorismo politico. Il potere era gestito da una burocrazia ministeriale diventata negli anni enorme e inefficiente, e da una struttura di partito che aveva da tempo perso dinamismo e che non riusciva più a dare impulso all’economia. Le tensioni interne nelle varie repubbliche socialiste, che chiedevano maggiore indipendenza, erano sempre maggiori, e c’erano estesi problemi sociali come l’alcolismo, che aveva raggiunto dimensioni preoccupanti.

I problemi, insomma, erano molti, e Gorbaciov tentò di affrontarli con un esteso piano di riforme sintetizzabili in tre parole d’ordine: glasnostperestrojkauskorenie. La prima – traducibile con “pubblicità” o “trasparenza” – indicava la volontà di ammettere, dopo decenni in cui il regime aveva edulcorato la realtà, la presenza di gravi problemi strutturali che andavano risolti. Viene associata anche al graduale tentativo di Gorbaciov di rendere la gestione delle informazioni più democratica e meno opaca, concedendo maggiore libertà di espressione. Perestrojka, che significa grossomodo “ricostruzione”, si riferiva all’enorme piano di riforme economiche di Gorbaciov, che avevano l’obiettivo di modernizzare il sistema economico sovietico introducendo elementi dell’economia di mercato e lasciando più autonomia alle imprese. La terza parola, presto dimenticata, indicava l’esigenza di accelerare la produzione per recuperare il blocco Occidentale.

Sia la glasnost che la perestrojka ebbero effetti collaterali inaspettati e catastrofici per il regime. Da un lato l’apertura a una maggiore libertà di espressione causò un ulteriore aumento della spinta centrifuga in tutte le repubbliche socialiste, in particolare nel Baltico. Dall’altro le riforme calate dall’alto non fecero altro che aggravare la crisi economica, lasciando il sistema sovietico a metà strada tra un’economia pianificata e un’economia di mercato. Come scrisse lo storico Nicolas Werth, «pur rompendo i meccanismi dell’economia pianificata istituita, essenzialmente, negli anni Trenta, la perestrojka non seppe definire chiaramente nuove regole del gioco, né proporre ai lavoratori nuove motivazioni».

Tra il 1990 e il 1991 la crisi politica ed economica arrivò a un punto di non ritorno. Alcune repubbliche socialiste come la Georgia e le repubbliche baltiche dichiararono la propria sovranità, mentre dentro la Russia si stava costruendo un potere parallelo a quello sovietico, guidato dal presidente eletto Boris Eltsin. Contro questo potere, e contro Gorbaciov stesso, i vertici dello stato sovietico tentarono un colpo di stato nell’agosto del 1991, istituendo lo stato di emergenza. Era il loro estremo tentativo di mantenere il potere, ma il colpo di stato fallì soprattutto per l’opposizione popolare e per la mancanza di un vero appoggio da parte dell’esercito. La sua maggiore conseguenza fu quella di decretare la fine politica di Gorbaciov e di accelerare inesorabilmente il processo di disgregazione dell’Unione Sovietica, sfruttato da Yeltsin che prese il potere nella neonata Federazione Russa.

«Per capire che giudizio dare sulla figura di Gorbaciov, bisogna tenere presente che la valutazione occidentale della sua epoca è molto diversa da quella che si ha nei paesi dell’ex Unione Sovietica», spiega Marcello Flores, storico esperto di comunismo, di genocidi e di diritti umani. «Gorbaciov sapeva fare politica, era affabile e aveva buoni rapporti internazionali, perciò i leader occidentali vedevano di buon occhio le sue riforme. Ma i risultati in patria non furono molto positivi».

Gorbaciov insieme all’allora presidente degli Stati Uniti George H. W. Bush alla Casa Bianca, il primo giugno 1990 (AP Photo/Ron Edmonds, LaPresse)

Secondo Flores, Gorbaciov non capì fino in fondo quello che stava avvenendo nelle repubbliche socialiste. L’ideologia comunista e federalista non aveva più presa sui popoli dell’Europa orientale, perciò «i leader locali dovettero trovare un nuovo schema per non perdere il potere, un nuovo patto con i cittadini, basato non più sull’ideologia comunista ma sul nazionalismo». Un altro punto debole di Gorbaciov erano le sue posizioni moderate, “centriste”. «Gorbaciov fu preso in mezzo da chi voleva un ritorno alla vecchia repressione dura del partito e chi invece voleva riforme e aperture più radicali».

Andrea Graziosi, docente di storia contemporanea all’Università di Napoli ed esperto di Unione Sovietica, ritiene che si debba distinguere il giudizio storico sull’uomo da quello sul politico. «Le intenzioni di Gorbaciov erano buone», dice Graziosi. «E sicuramente il giudizio storico è in parte positivo perché rifiutò l’uso della violenza, il che è già un gran risultato. Pensiamo a quello che successe con le guerre in Jugoslavia, solo per fare un esempio. Però il giudizio sulle riforme non è altrettanto positivo, perché Gorbaciov non aveva capito che era il sistema socialista a non funzionare. Andava cambiato per intero, come fece Deng Xiaoping in Cina che fece delle riforme profonde e radicali, molte delle quali ciniche e assolutamente non condivisibili, ma che portarono allo sviluppo economico cinese che conosciamo».