La vittoria di Meloni sarebbe una vittoria “per le donne”?
Qualsiasi cosa significhi: alcune sostengono di sì, almeno in parte, per molte altre la domanda non ha alcun senso
di Giulia Siviero
Da diversi giorni sui giornali italiani si parla del significato che potrebbe avere in Italia “per tutte le donne” e “per il femminismo” (qualsiasi cosa significhino queste espressioni) la nomina a presidente del Consiglio di Giorgia Meloni o il suo attuale protagonismo politico: una donna che è anche leader del partito di estrema destra Fratelli d’Italia.
Per alcune giornaliste e pensatrici è necessario anche solo porsi questa semplice domanda («Perché proprio la destra maschilista e misogina esprima l’unica candidata con potenziale di successo, è una buona domanda, rilevante non solo per la cronaca», ha scritto ad esempio Concita De Gregorio su Repubblica). Altre si sono spinte ad attribuire la definizione di “femminista” a Meloni, indipendentemente dalla sua storia politica, da ciò che pensa e dice di voler fare (valutazione assai controversa). Per molte femministe, infine, la questione posta – una vittoria di Meloni è un bene “per il femminismo” o “per le donne”? – non solo ha una risposta negativa, ma non ha nemmeno alcun senso: il fatto che Meloni abbia un utero non rappresenta un valore in sé, e il suo sesso non conta più del suo essere una persona che ha una determinata storia politica e un certo posizionamento, da sempre molto lontani da temi femministi.
A partire da questa prima domanda, se ci sarebbe un guadagno femminile-femminista dall’eventuale vittoria di Meloni, la discussione si è allargata: quale sarebbe questo guadagno? E perché in Italia, ma anche nel mondo, sono proprio dei partiti di destra e di estrema destra, tradizionalmente molto lontani e spesso contrari alle lotte femministe, ad aver dato spazio alle donne?
Va comunque precisato che non si tratta di questioni nuove e che il femminismo italiano ci ha pensato e lavorato già negli anni Ottanta.
Premessa
Nell’intera storia repubblicana nessuna donna è mai stata presidente della Repubblica né presidente del Consiglio. Per avere un’idea dello squilibrio: se da qui alla fine del secolo ci fossero soltanto donne presidenti della Repubblica, la situazione sarebbe appena in parità.
La carica di presidente della Camera è stata ricoperta da una donna solo in cinque legislature (con Nilde Iotti, Irene Pivetti e Laura Boldrini), mentre una sola donna fin qui è stata presidente del Senato (Maria Elisabetta Alberti Casellati, dal 2018). Nessuna donna, in Italia, ha mai guidato commissioni parlamentari che si occupano di economia e finanza. Nelle commissioni parlamentari di inchiesta – che possono svolgere un ruolo importante su questioni di forte interesse pubblico e che hanno gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell’autorità giudiziaria– su un totale di 99 presidenti le donne sono state 11.
Perché una donna venisse nominata ministra si dovette aspettare il 1976, con Tina Anselmi. Su oltre 1.500 ministeri dei 67 governi della Repubblica, le donne ne hanno ottenuti 100 (governo Draghi compreso). E di questi cento, la metà sono stati incarichi senza portafoglio, cioè quelli con molto meno potere di gestione amministrativa. Alle donne sono stati affidati incarichi prevalentemente nei settori sociali, della sanità e dell’istruzione, a loro stereotipicamente associati. Nessuna donna in Italia è mai stata ministra dell’Economia e delle Finanze.
Se Giorgia Meloni vincesse le elezioni e venisse nominata presidente del Consiglio, insomma, per l’Italia sarebbe una grossa notizia. Buona o cattiva per chi, resta da vedere.
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Com’è nata la discussione
La discussione intorno al significato che l’eventuale nomina di Meloni alla guida del prossimo governo potrebbe avere è nata da un lungo documento pubblicato circa due settimane fa su Change.org, la piattaforma che raccoglie petizioni online.
Il documento si intitola “Orizzonte politico comune a donne di tutti i partiti”, è firmato da una ventina di associazioni di donne italiane e straniere e in questi giorni è stato raccontato e difeso sui giornali da Marina Terragni, giornalista e esponente di quello che spesso viene definito “femminismo trans-escludente” (da cui la sigla TERF): quel femminismo che considera (semplificando) che ci sia una corrispondenza tra sesso e genere, che una donna si definisca dunque in base al suo sesso biologico. E partendo da questa premessa ha preso posizioni politiche spesso corrispondenti o compatibili con quelle delle destre e contro le rivendicazioni delle persone trans e di parte dei movimenti LGBTQ+ (l’esempio più recente è rappresentato dal disegno di legge Zan).
Utilizzando alcune frasi di Carla Lonzi, una delle iniziatrici del femminismo italiano, e seguendo l’andamento del suo Manifesto di Rivolta Femminile, il documento sostenuto da Terragni parte dal presupposto «che troppi uomini stolti governano il mondo» e che «la vita è diventata invivibile». A partire da qui viene chiesto che le elettrici e le attiviste di ogni parte politica facciano «corpo unico nel delineare un orizzonte», in quanto donne e portatrici, dunque, di una comune esperienza di vita e di mondo.
Il documento prosegue con alcuni punti programmatici che secondo Terragni tengono unite tutte le donne, quelle di destra o quelle di sinistra.
Tra le altre cose si parla della necessità di mettere al centro, di «ogni programma politico, per il bene di tutte e tutti», la maternità e il lavoro di cura; in «nome dell’inviolabilità del corpo femminile» si chiede di far diventare un reato universale la gestazione per altri (che nel documento è nominata come «utero in affitto»); si prende posizione contro la prostituzione (uno «stupro a pagamento») e si parla dell’ideologia «misogina e mercantile dell’identità di genere» dicendo che «è solo la nuova faccia glitterata del patriarcato che non vuole morire e che per sopravvivere ha bisogno di cancellare le donne perfino nel linguaggio».
Il documento di Terragni (da qui in poi lo chiameremo così, per brevità) prende infine posizione contro la «farmacologizzazione e la manipolazione chirurgica dei corpi di bambine e bambini dal comportamento non conforme agli stereotipi di genere», precisando che questa “farmacologizzazione” è l’aspetto «più straziante della gender ideology», cioè della cosiddetta “ideologia di genere”, un’espressione costruita dal Vaticano a partire dall’inizio degli anni Duemila e usata dai movimenti conservatori per opporsi ai movimenti femministi e LGBTQ+, alle lotte e alle teorie che tali movimenti hanno elaborato e prodotto.
Il documento si conclude con un appello a resistere «al fatalismo del progetto transumano o post-umano» che pretenderebbe, secondo le firmatarie, di cancellare le differenze tra uomini e donne. E aggiunge che presto saranno indicate le candidature che rientrano in questo loro orizzonte.
Il testo pubblicato da Terragni è stato ripreso a metà agosto su Repubblica da Natalia Aspesi in un articolo intitolato “La falsa illusione delle femministe che votano Meloni solo perché donna”.
L’appello per un fronte comune della politica femminile, dice Aspesi, è una proposta «ingenua». Dando per scontato che l’obiettivo del femminismo sia di far arrivare le donne ai vertici, Aspesi dice che finalmente «una di noi, cioè una donna-donna» ha la possibilità «di diventare la protagonista di un evento storico che il femminismo persegue da quando c’è»: e cioè far arrivare alla guida del governo italiano un capo che «essendo femmina rappresenti il massimo della democrazia, della parità, dei diritti, delle inclusioni, degli aiuti, di ogni forma di libertà».
Rispetto al documento di Terragni, Aspesi contesta però il fatto che le donne possano «costituire un solo popolo» solo in quanto donne e il fatto che essere una donna sia più importante della visione ideologica personale. Pone infine la questione a cui secondo lei il documento di Terragni alla fine porta: si può votare o si dovrebbe sostenere Giorgia Meloni solo perché è una donna, oppure no?
Terragni ha a sua volta replicato a Aspesi accusandola di non aver compreso il documento. Precisando di non aver mai nominato nel testo Giorgia Meloni, ha detto che l’eventuale elezione della leader di Fratelli d’Italia, cioè di una donna di destra, sarebbe una significativa novità storica e qualcosa «con cui fare i conti». Ma ha anche dimostrato un’apertura nei suoi confronti: Terragni non ha escluso cioè che Meloni possa riuscire, in quanto donna, «a portare una qualche differenza femminile».
Non solo. Per Terragni è anche possibile che Meloni riesca a intervenire su determinati temi, cari a lei e alle associazioni firmatarie del documento e su cui in effetti Meloni è perfettamente allineata: no all’identità di genere, no al sex work, no alla gestazione per altri, centralità della maternità.
E quando a Terragni è stato fatto notare che i suoi posizionamenti su alcune questioni coincidono, appunto, con quelli di Giorgia Meloni, lei ha risposto: «Ne prendiamo atto. In ogni caso, alcune fra noi pensano di poter interloquire principalmente con il Partito Democratico, altre non più, altre ancora stanno dalla parte di Meloni. Però se lei diventasse premier e avesse bisogno di noi su qualunque tema, se volesse un contributo, ecco secondo me è assolutamente impensabile dire di no solo perché non è di sinistra».
Nella discussione nata dallo scambio tra Aspesi e Terragni, alcune delle posizioni di quest’ultima sono state riprese sulla Stampa dalla storica Lucetta Scaraffia che nel suo intervento ha aggiunto un pezzo non indifferente. Chiedendosi se la vittoria di Meloni si possa considerare una vittoria del femminismo, Scaraffia risponde di sì, se si fa riferimento al femminismo emancipazionista: quello che ha portato le donne a ottenere vari diritti e ruoli nello spazio pubblico.
In questo senso, dice Scaraffia, «Meloni è femminista e lo è anche in un certo senso per le sue scelte di vita privata, ben lontane dal mito della famiglia tradizionale». Negarlo significa, per Scaraffia, restare ancorate a una visione ideologica e di sinistra del femminismo e significa non essere dalla parte dell’emancipazione femminile.
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I femminismi (al plurale)
Ci sono diverse questioni che attraversano gli interventi di Terragni, Aspesi e Scaraffia: che vengono date per scontate e che vanno contestualizzate e tenute a mente. Hanno innanzitutto a che fare con i femminismi, al plurale, a cui nei loro testi viene fatto implicito o esplicito riferimento.
Il femminismo, infatti, non è monolitico. Non è un atteggiamento psicologico basato su alcune convinzioni, ma è un movimento che ha una nascita (la cui data è oggetto di discussione), più di due secoli di storia e dei soggetti che lo hanno inaugurato e portato avanti. Le protagoniste di questa storia non sono un soggetto politico permanente inserito in un contesto sempre uguale.
Ma (semplificando) si può dire che il femminismo è nato da una semplice e concreta constatazione: che appartenere al sesso femminile, nascere donne invece che uomini, significa trovarsi al mondo in una posizione di svantaggio, di esclusione o di differenza. I femminismi si sono dunque prodotti nel corso della storia a partire dai processi di esclusione a cui le donne sono state sottoposte. Come a dire che uno è il punto di partenza, le donne, che decidono di prendere parola e di mettere in discussione, per modificarla, una certa relazione di potere.
Nel corso del tempo e dei luoghi geografici in cui si è sviluppato, il femminismo ha avuto modi, pratiche, parole, alleanze con altri movimenti e itinerari e sempre differenti tra loro, persino conflittuali, molto articolati e complessi tanto che si preferisce parlare di femminismi al plurale, per darne conto in modo più corretto.
Va poi detto che storicamente i femminismi sono legati alla storia politica della sinistra e che nei movimenti femministi teoria e pratica sono sempre andate insieme alimentandosi a vicenda: accostandosi, traendo forza e occasioni anche da saperi diversi e da altri movimenti storici, alleandosi con questi, ma senza confondersi.
In Europa, la divisione principale tra femminismi può essere nominata come “femminismo della parità” da una parte, e “femminismo della differenza” dall’altra.
Il cosiddetto “femminismo della parità” (o “femminismo di stato”) deriva dalla prima ondata del movimento delle donne, quello emancipazionista dell’Ottocento, un processo di emancipazione femminile inteso cioè come lotta per l’uguaglianza e per l’inclusione portata avanti in nome dell’universalità e dei diritti.
Il femminismo della parità è quello che nella politica istituzionale ha trovato maggiore spazio: ha interpretato e continua a interpretare il movimento delle donne nel senso di una richiesta femminile di maggiore parità e uguaglianza, si basa sulle quote e sulle pari opportunità, sulla spartizione del potere e delle carriere. Ed è un femminismo che non ha in alcun modo messo in discussione le forme o i dispositivi della politica tradizionale, costruita e gestita secondo paradigmi maschili. Cosa che invece ha fatto il “femminismo della differenza”.
Partendo dall’assunto che l’uguaglianza sia qualcosa di ovvio, il “femminismo della differenza” afferma che le donne non aspirino a diventare come gli uomini o ad avere quello che hanno loro, ma che desiderino vivere in nome della loro differenza. Uomini e donne, pur nella parità dei diritti, sono differenti nel modo in cui interpretano la realtà e ne fanno esperienza, e questo a partire dal diverso modo di vivere il proprio corpo come corpo sessuato. In questa visione, il corpo materno ha assunto una grande importanza.
Fin dagli anni Settanta questo femminismo ha contestato il meccanismo paritario, sostenendo che la parità come principio formale abbia funzionato cancellando la differenza femminile. E ha lavorato sulla presa di coscienza della differenza dell’essere donna con esiti che hanno avuto, storicamente, importanti riconoscimenti anche al di fuori dell’Italia.
I paradossi del femminismo paritario
Assumere, come fa il femminismo paritario, come propria principale misura la quantità, la rivendicazione di pari diritti e l’occupazione dei vertici può portare a esiti paradossali che, nella discussione in corso, sono di fatto emersi.
Il primo paradosso potrebbe essere riassunto nella frase “donna purché donna”: il fatto cioè che sia una donna a occupare quel vertice assume di per sé, e indipendentemente da chi sia, una certa importanza. In questa visione, mentre agli uomini viene riservata la possibilità di essere delle persone (con una storia, un pensiero e così via) alle donne spetta automaticamente il dovere di rappresentare il genere femminile. Ciò che conta è innanzitutto il sesso, la “donnità”, una cosa che dovrebbe rendere orgogliose tutte se una qualsiasi, anche una sola tra tutte, ce la fa.
Se è vero che il ruolo simbolico di una donna al potere non va sottovalutato, il genere non offre comunque alcuna garanzia che quella donna farà una politica delle donne o sarà portatrice di un pensiero e di una pratica che potrà cambiare qualcosa per molte o l’immaginario di tutte. Non basta essere femmine per essere femministe. Questo trasforma inoltre il femminismo in un feticcio, in un’astrazione, in un’etichetta che può essere cucita addosso a chiunque dall’esterno e solo per il fatto di essere una donna che ha ottenuto un successo personale. È questo paradosso che porta a dire che «Meloni è femminista», e senza tra l’altro il suo consenso.
Intervenendo in questo recente dibattito, Michela Murgia ha sottolineato come ogni volta che si incontra una donna potente, quello che è necessario domandarsi è quale modello di potere sta esercitando: che sia di destra o di sinistra, «se usa la sua libertà per ridurre o lasciare minima quella altrui, questo non è femminista, se chiama meritocrazia il sistema che salvaguarda il suo privilegio di partenza e nega i diritti di altre persone, questo non è molto femminista». È quindi inutile chiedersi, conclude Murgia, se Giorgia Meloni sia femminista o non lo sia solo perché è una donna a capo di un partito.
Il secondo paradosso a cui conduce il femminismo della parità è che spesso si è rivelato funzionale ai meccanismi (maschili) della politica tradizionale.
La quantità, le “quote” intese non come mezzo (cioè come strumento per dare spazio alle politiche per le donne) ma come fine (cioè come obiettivo auto-conclusivo), sono state utilizzate in modo trasversale da tutti i partiti come un trucco e come un paravento. E infatti il contesto quantitativamente più equilibrato non si è tradotto, oggi, in un aumento del potere delle donne in politica, né in una politica femminista.
Donne e madri
A far leva sui paradossi del femminismo paritario (riassumibili nella frase “una a caso per tutte, tutte per una a caso”) sono proprio le leader della destra.
Marine Le Pen, a capo del principale partito dell’estrema destra francese, in campagna elettorale ha utilizzato diverse espressioni della tradizione femminista, ha parlato più volte dei diritti delle donne e ha giocato spesso la carta generica del suo essere donna: per rafforzare gli stereotipi di genere (quelli per cui la donna è principalmente una madre e, in Francia, un simbolo nazionale di difesa della patria), per difendere la cosiddetta “famiglia tradizionale”, per opporsi all’aborto, ai diritti delle persone LGBTQ+, per denunciare il sessismo e la violenza di genere solo quando a esserne responsabili erano delle persone di origine straniera.
Come Le Pen anche Meloni, nel famoso discorso di piazza San Giovanni dell’ottobre 2019, ha detto di essere «una donna» e «una madre». Come Le Pen anche nella storia politica e nei programmi politici di Meloni il femminismo non trova alcuno spazio, anzi. E come Le Pen anche Meloni ha utilizzato strumentalmente la violenza contro le donne per fondare le proprie politiche contro le persone migranti.
Ben lontane dal mettere in discussione il sistema esistente, le donne che sono arrivate ad avere un peso l’hanno fatto molto spesso adeguandosi perfettamente a metodi, modalità e dinamiche dell’unico modello di potere che avevano a disposizione, quello maschile. E ci sono riuscite, soprattutto, all’interno dei movimenti conservatori. «La questione del protagonismo premiato a destra e non a sinistra risale all’inizio degli anni Novanta» dice la filosofa Ida Dominijanni.
Dominijanni spiega che a suo modo («cioè molto malamente») la destra ha saputo rispondere alla richiesta di protagonismo femminile: «Pensiamo al modo perverso in cui Berlusconi ha “valorizzato” le donne mettendole al centro dello scambio fra sesso e potere. O al modo in cui la Lega e Fratelli d’Italia hanno ritirato fuori i valori tradizionali della maternità e della famiglia».
Il protagonismo femminile, a destra, è stato interpretato in senso individualistico e auto-imprenditoriale. Mentre le donne della sinistra ufficiale, spiega sempre Dominijanni, nonostante avessero alle spalle una tradizione di lotte femminili collettive, «sono rimaste ferme all’ideologia della parità, cioè della neutralità e dell’indifferenziazione rispetto agli uomini, senza produrre pratiche significative».
«Giorgia Meloni sta al femminismo come un pesce su una bicicletta»
Il femminismo della differenza ha avuto un ruolo fondamentale nel criticare e nel mostrare i paradossi del femminismo paritario. Ma a partire da alcune sue più recenti analisi, qualche pensatrice e attivista che vi fa riferimento ha portato avanti posizioni, battaglie e linguaggi compatibili con quelle delle destre (come la stessa Terragni ha constatato) o comunque totalmente funzionali al progetto politico delle destre (ai convegni della destra o dei movimenti antiabortisti e anti-gender questo femminismo viene continuamente citato e rivendicato).
Intervenendo nell’attuale dibattito, è la filosofa Rosi Braidotti, in un articolo su Repubblica, che ha dato conto sia dei paradossi del femminismo della parità che della problematicità di alcune posizioni a cui ha portato il femminismo della differenza. Suggerendo, infine, di far entrare nel ragionamento un’altra domanda: in questo preciso momento storico, un momento in cui le idee su famiglia, sessualità, uguaglianza e genere sono diventate un terreno di scontro internazionale e su cui le destre si sono mobilitate parecchio, qual è la voce del femminismo che può diventare più efficace e indicare una direzione?
Braidotti non mette al centro del suo discorso né la parità, né l’anatomia dei corpi, né soprattutto il concetto di maternità.
Ricorda che il femminismo vuole modificare i rapporti di potere e non vuole solo parificarli e che, dunque, è innanzitutto un movimento «trasformativo, non solo egalitario». Facendo appello a un terzo femminismo rispetto a quelli nominati fin qui, il femminismo intersezionale che lei stessa pratica (un femminismo che tiene conto delle diverse oppressioni che si intersecano con quelle legate al genere, come ad esempio l’omofobia, il classismo, il razzismo, e che pensa che le lotte femministe non possano prescindere da altre lotte e dunque dalle alleanze con altre e altri) spiega che ciò che accomuna «sono i valori condivisi, non l’anatomia o la somiglianza biologica».
E dice che molte femministe, a partire da Carla Lonzi, hanno criticato la maternità intesa come essenza dell’identità femminile, criticando a sua volta Terragni soprattutto per l’affinità dimostrata con Meloni proprio su questo tema: è proprio il fascismo ad aver fatto della madre «un monumento simbolico e reale».
«Questa visione quasi metafisica della madre simbolica come colonna della civiltà fa parte della storia e della cultura del femminismo italiano, ma non è né la sola voce di questo movimento né, a mio avviso, la più utile nel momento che stiamo attraversando. E non è utile proprio perché collude con la visione tradizionale, discriminatoria ed eterosessista della destra».
In conclusione, dicendo che «Giorgia Meloni sta al femminismo come un pesce su una bicicletta: affannata, in bilico e fuori luogo», Braidotti rivendica la matrice antifascista del femminismo europeo e dice che lei, Giorgia Meloni, non la voterà di certo.
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