Carla Lonzi, differente

Morì 40 anni fa una delle iniziatrici del femminismo italiano, che scardinò l'idea dell'uguaglianza formale tra sessi

di Giulia Siviero

Il 2 agosto di quarant’anni fa morì Carla Lonzi. Fu una critica d’arte, una scrittrice e una poeta. Ma fu, soprattutto, una delle iniziatrici del femminismo italiano che ebbe, rispetto ai femminismi che si affermavano nel mondo nella seconda metà degli anni Sessanta, una sua originalità e una sua autonomia. «C’è in Lonzi la radice del femminismo italiano» ha scritto la giornalista e filosofa Ida Dominijanni in un articolo per Il Manifesto di qualche anno fa: «Lonzi non era filosofa, ma lo sapeva fare: estraeva concetti, duraturi, dall’esperienza, contingente».

Il femminismo che Lonzi inaugurò non aveva come obiettivo di lotta l’uguaglianza formale tra uomini e donne, ma l’affermazione della differenza: una differenza costitutiva che, scriveva ancora Dominijanni, «non trova e non cerca un superamento né nel progetto egualitario di assimilazione delle donne a un mondo pensato da altri né in un progetto rivoluzionario di ribaltamento del rapporto di dominio tra i sessi». Quello che Lonzi portò fu un cambio di prospettiva radicale, fu il gesto imprevisto di porsi fuori dalla cultura, dalle istituzioni e da un certo femminismo. E fu, come Lonzi stessa scrisse, «uno sconquasso» e anche «una festa».

Un po’ di contesto: l’originalità del femminismo italiano
L’originalità del femminismo italiano è stata ben sintetizzata in un breve scritto della filosofa femminista Luisa Muraro, una delle fondatrici della Libreria delle donne di Milano e di Diotima, comunità filosofica femminista nata nel 1983 e tuttora attiva all’Università di Verona.

Dopo la cosiddetta prima ondata del femminismo (che andò dal 1850 circa fino alla Prima guerra mondiale e che ebbe come obiettivo la conquista di pari diritti secondo la legge), il femminismo della seconda ondata nacque e si sviluppò «in un momento storico caratterizzato da un intensificarsi degli scambi internazionali, scambi animati dalla ricerca di culture alternative (a quella occidentale), dalle passioni politiche (movimento contro la guerra nel Vietnam) e dalla ribellione giovanile verso l’ordine costituito (il Sessantotto)», dice Muraro.

Il movimento delle donne si formò dunque non in seguito, ma sullo stesso slancio di quei movimenti, prendendo però le distanze dalle loro ideologie, dal loro linguaggio e dalle loro pratiche: «Separarsi dalla politica degli uomini per formare gruppi di sole donne fu ovunque il gesto inaugurale della seconda ondata femminista. Non fu un gesto contro gli uomini, sebbene così fosse inteso dai più, ma fu un atto di indipendenza nei loro confronti e un esodo dall’ordine simbolico patriarcale».

Il movimento non aveva organizzazione, si espanse per contatti e per contagio: «Fin dagli inizi – che le storiche fanno risalire al 1966, l’anno delle prime rivolte studentesche negli Stati Uniti – le idee, le notizie e le pratiche hanno circolato da un paese all’altro, tradotte, copiate, modificate, reinventate, grazie ai viaggi, alle amicizie, agli amori, ai convegni, alle pubblicazioni, in un rapporto di osmosi che cancellava i confini e molte differenze, ma che non impedì il formarsi di nuove differenze che vivacizzarono il campo femminista, non senza polemiche e conflitti talvolta aspri» dice Muraro. In Europa, la divisione principale può essere nominata come “femminismo della parità” da una parte, e “femminismo della differenza” dall’altra.

Nel femminismo della parità o “femminismo di stato” (che deriva direttamente da quello della prima ondata, quello emancipazionista dell’Ottocento) ogni segno di differenza sessuale viene considerato discriminatorio. Continuò dunque – e continua ancora oggi – a portare avanti una richiesta di uguaglianza giuridica, politica, economica delle donne. E, di fatto, la spartizione del potere tra donne e uomini.

Il femminismo della differenza (detto anche femminismo autonomo, o femminismo radicale) contestava invece questo meccanismo, sostenendo che la parità come principio formale avesse funzionato cancellando la differenza femminile senza risolvere, tra l’altro, le discriminazioni che avevano continuato e continuavano ad agire negli spazi della vita, del lavoro e così via. La politica dei diritti presuppone poi sempre l’esistenza un potere che può farli valere e che può decidere, a un certo punto, che non valgono più.

«Il femminismo autonomo ha messo al centro della discussione non il concetto di parità ma quello di differenza: non negando la parità dei diritti, ha lavorato sulla differenza femminile, sulla presa di coscienza della differenza dell’essere donna. Il femminismo italiano ha questa caratteristica. Ha teorizzato la differenza e ha criticato l’emancipazione», dice Muraro. Il femminismo radicale non ha messo al centro delle proprie lotte la sfera del lavoro produttivo e dei diritti civili e giuridici ma, andando alla radice della subordinazione delle donne, quella del lavoro riproduttivo e della sessualità, per sovvertire tutto. Carla Lonzi ne fu l’iniziatrice.

«La donna non va definita in rapporto all’uomo»
Nella primavera del 1970 tre donne si incontrarono per giorni e giorni a Roma: l’artista Carla Accardi, la giornalista Elvira Banotti (tra le prime a contestare Indro Montanelli quando si vantò, soldato in Etiopia negli anni Trenta, di aver comprato e avuto relazioni sessuali con una ragazzina eritrea di 12 anni) e Carla Lonzi. I loro scambi si concretizzarono, nel luglio di quell’anno, con la formazione del gruppo di Rivolta Femminile, l’affissione sui muri di Roma di un Manifesto e la pubblicazione e la fondazione, per garantirsi una totale autonomia editoriale ed economica, della casa editrice “Scritti di Rivolta Femminile”.

A partire da quel primo gruppo romano ne vennero fondati altri, a Milano e in molte altre città. E tutti nacquero attorno alle pratiche, nominate nel Manifesto, del separatismo e dell’autocoscienza: del partire dalle relazioni tra donne, del partire da sé e del fare pensiero di questa esperienza.

Fu Lonzi a scrivere il Manifesto. Come ha spiegato lo storico della filosofia Franco Restaino nel suo contributo al libro Le avanguardie filosofiche in Italia nel XX secolo, a quel tempo Lonzi non faceva parte «della generazione più giovane della militanza femminista, ma aveva dietro di sé un’attività di studiosa affermata nel campo della critica d’arte».

Lonzi era nata a Firenze il 6 marzo del 1931. Era la primogenita di due sorelle e due fratelli. Si laureò nel 1956 con una tesi in storia dell’arte intitolata “Rapporti tra la scena e le arti figurative dalla fine dell’Ottocento” discussa con Roberto Longhi. Nel 1959 ebbe un figlio, visse in Toscana, e dedicò la maggior parte del suo tempo a scrivere poesie e a collaborare a riviste e a programmi sull’arte.

Dopo l’incontro con gli artisti Carla Accardi e Pietro Consagra, con il quale ebbe una lunga relazione, il suo lavoro si concentrò sugli artisti contemporanei. Curò diverse mostre dei più importanti esponenti delle avanguardie di quegli anni. Nel 1969 pubblicò Autoritratto, libro composto dal montaggio dei suoi colloqui con quattordici artisti registrati negli anni Sessanta. Fu l’opera più importante di Lonzi critica d’arte, fu un testo molto originale e fu anche il suo testo di congedo da quella professione, di un cambiamento di vita netto e radicale. Da lì in poi, e per tutta la vita, Lonzi si dedicò alla pratica femminista.

Gli scritti teorici di rivendicazione femminista di Lonzi non sono molti e risalgono agli anni 1970-1972. Sono contenuti nel volume intitolato Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale. Il titolo del libro fa riferimento ai due saggi più conosciuti dell’autrice e si apre con il Manifesto di Rivolta Femminile «che contiene in nuce i motivi di fondo del pensiero di Carla Lonzi, che potrebbe riassumersi con la frase “per la differenza, contro l’uguaglianza”», scrive Restaino.

Il Manifesto inizia con una citazione di Olympe de Gouges (autrice teatrale che nella Francia rivoluzionaria del 1791 aveva proposto di estendere alle donne i diritti universali: venne arrestata e finì sulla ghigliottina) e si conclude con un annuncio: «Comunichiamo solo con donne». Tra l’inizio e la fine si trovano sessantacinque frasi brevi e lapidarie contro i concetti di verginità, castità e fedeltà. Contro quelli di famiglia, maternità, lavoro domestico non retribuito e matrimonio. Contro tutte le ideologie, la Chiesa, la psicanalisi, le tradizioni filosofiche su cui la società occidentale si era fondata, e il femminismo della rivendicazione dei diritti. Ma la cornice generale nella quale tutti questi temi si fanno spazio era una profonda critica al concetto di uguaglianza:

La donna non va definita in rapporto all’uomo.

Su questa coscienza si fondano tanto la nostra lotta quanto la nostra libertà.

L’uomo non è il modello a cui adeguare il processo della scoperta di sé da parte della donna.

La donna è l’altro rispetto all’uomo. L’uomo è l’altro rispetto alla donna. L’uguaglianza è un tentativo ideologico per asservire la donna a più alti livelli.

Identificare la donna all’uomo significa annullare l’ultima via di liberazione. Liberarsi per la donna non vuol dire accettare la stessa vita dell’uomo perché è invivibile, ma esprimere il suo senso dell’esistenza.

Nel saggio Sputiamo su Hegel, scritto da Lonzi nello stessa anno del Manifesto, l’obiettivo dell’uguaglianza viene decostruito attraverso le tesi di Hegel, Marx e Freud. L’oppressione della donna, scrive Lonzi, «non si risolve nell’uguaglianza, ma prosegue nell’uguaglianza. Non si risolve nella rivoluzione, ma prosegue nella rivoluzione». E ancora: «L’uguaglianza è quanto si offre ai colonizzati sul piano delle leggi e dei diritti. E quanto si impone sul piano della cultura. È il principio in base al quale l’egemone continua a condizionare il non-egemone. (…) L’uguaglianza tra i sessi è la veste in cui si maschera oggi l’inferiorità della donna».

La differenza, contro l’uguaglianza complice, vuole invece «operare un mutamento globale della civiltà», attraverso pratiche di critica della politica tradizionale e pratiche di conflitto: «Il porsi della donna non implica una partecipazione al potere maschile, ma una messa in questione del concetto di potere».

Sessualità: la donna vaginale e la donna clitoridea
Una volta argomentato, dice Lonzi, che né rivoluzione, né filosofia, né arte, né religione possono godere «della nostra incondizionata fiducia» è al «punto centrale della nostra inferiorizzazione» che è necessario andare: quello sessuale. Lei lo fece attraverso due scritti del 1971: Sessualità femminile e aborto e La donna clitoridea e la donna vaginale.

Erano quelli gli anni delle battaglie per il divorzio, dei processi per il reato di aborto e delle prime grandi manifestazioni femministe di massa: «Ma la mobilitazione per l’aborto produsse anche un mutamento significativo all’interno del femminismo», ha scritto Maria Luisa Boccia, pensatrice della differenza sessuale e studiosa di Lonzi. «Alla proliferazione dei gruppi e alla creazione di una rete di incontri, scambi e comunicazione di esperienze si affiancarono, finendo spesso per sostituirsi alle pratiche originali, le modalità più tradizionali dell’iniziativa politica. Dal corteo, appunto, alla rivendicazione della legge, al rapporto, sia pure conflittuale, con le istituzioni. In questo passaggio dal femminismo al “movimento femminista” Rivolta Femminile non si riconobbe. Anzi prese esplicitamente distanza, sia sul merito dei contenuti, in particolare sull’aborto, sia sulle forme politiche».

Lonzi rifiutava la rivendicazione politica di legalizzazione dell’aborto: «Libera maternità e libera sessualità devono trovare i loro significati all’interno della nostra presa di coscienza: solo così saremo sicure che la libertà di cui si parla è la nostra», scriveva.

Ma perché le donne abortiscono, si chiede Lonzi? «Perché restano incinte». Ma perché restano incinte? «È perché risponde a una loro specifica necessità sessuale che effettuano i rapporti col partner in modo tale da sfidare il concepimento? (…) Noi sappiamo che quando una donna resta incinta, e non lo voleva, ciò non è avvenuto perché lei si è espressa sessualmente, ma perché si è conformata all’atto e al modello sessuale sicuramente prediletti dal maschio patriarcale, anche se questo poteva significare per lei restare incinta e quindi dover ricorrere a una interruzione della gravidanza».

Per Lonzi le donne sono costrette all’aborto perché è stato loro imposto un modello di sessualità centrato sul piacere vaginale e basato unicamente sul piacere maschile. Un piacere che conduce alla procreazione:

«Il concepimento è frutto di una violenza della cultura sessuale maschile sulla donna, che viene poi responsabilizzata di una situazione che invece ha subìto. Negandole la libertà di aborto l’uomo trasforma il suo sopruso in una colpa della donna. Concedendole tale libertà l’uomo la solleva della propria condanna attirandola in una nuova solidarietà».

In questo sistema, spiega Restaino riassumendo Lonzi, sia il concepimento che l’aborto, negato o concesso, appaiono gestiti dall’uomo. Diceva Lonzi: «Sotto questa luce la legalizzazione dell’aborto chiesta al maschio ha un aspetto sinistro poiché la legalizzazione dell’aborto e anche l’aborto libero serviranno a codificare le voluttà della passività come espressione del sesso femminile». L’aborto, insomma, non è la soluzione per una donna libera, ma «per la donna colonizzata dal sistema patriarcale».

La via d’uscita, per Lonzi, parte dalla sfera della sessualità. Ciò di cui va presa coscienza, dice, è «che la natura ci ha dotate di un organo sessuale distinto dalla procreazione e che è sulla base di questo che noi troveremo la nostra autonomia (…) e svilupperemo una sessualità che parta dal nostro fisiologico centro del piacere, la clitoride». La donna «gode di una sessualità esterna alla vagina, dunque tale da poter essere affermata senza rischiare il concepimento», una sessualità libera, non vincolata alla procreazione o all’eterosessualità vaginale. Lonzi non si oppone al rapporto eterosessuale, ma pensa che vada ripensato e ri-contrattato tenendo conto del piacere femminile e conquistando una differente sessualità, in cui piacere e procreazione non possano più essere identificati: una sessualità clitoridea.

«Il sesso femminile è la clitoride, il sesso maschile è il pene.

Nell’uomo il meccanismo del piacere è strettamente connesso al meccanismo della riproduzione, nella donna meccanismo di piacere e meccanismo della riproduzione sono comunicanti, ma non coincidono.

Avere imposto alla donna una coincidenza che non esisteva come dato di fatto nella sua fisiologia è stato un gesto di violenza culturale che non ha riscontro in nessun altro tipo di colonizzazione.

La cultura sessuale patriarcale, essendo rigorosamente procreativa, ha creato per la donna un modello di piacere vaginale».

Lo argomenterà chiaramente in La donna clitoridea e la donna vaginale dove Lonzi, in un susseguirsi di brevi paragrafi, descrive in modo molto semplice (e anche attraverso delle illustrazioni) la fisiologia della sessualità femminile, i suoi funzionamenti, i diversi tipi di orgasmo, arrivando infine a descrivere la donna vaginale e la donna clitoridea come due condizioni esistenziali. Che corrispondono, simbolicamente, a quella di una donna non libera e a quella di una donna liberata dal patriarcato, dalle sue oppressioni, dai suoi miti, dalle sue parole d’ordine e dalle sue pretese di passività femminile.

Nella parte finale del saggio Lonzi spiega che la donna clitoridea «non aspira al matriarcato che è una mitica epoca di donne vaginali glorificate. La donna non è la grande-madre, la vagina del mondo, ma la piccola clitoride per la sua liberazione. Essa chiede carezze, non eroismi; vuole dare carezze, non assoluzione e adorazione. La donna è un essere umano sessuato (…) Non è più l’eterosessualità a qualsiasi prezzo, ma l’eterosessualità se non ha prezzo».

A metà degli anni Settanta l’edizione integrale dei primi testi di Lonzi fu tradotta prima in Argentina, e poi in Germania. Lonzi è studiata in tutto il mondo ed è riconosciuta da alcuni storici della filosofia come l’unica avanguardia filosofica italiana del XX secolo.

Nel 1978 pubblicò il diario Taci, anzi parla. Diario di una femminista, pagine in cui, dice Maria Luisa Boccia, «si trovano gli interrogativi, gli ostacoli e le scoperte che una donna deve affrontare, dal momento che non si riconosce più in un’identità femminile precostituita». Il diario fu scritto tra il 1972 e il 1977, gli anni dell’autocoscienza e dell’esperienza di Rivolta Femminile. Tra il 1977 e 1979, oltre ai testi individuali, Lonzi pubblicò due volumi di scritti collettivi: È già politica e La presenza dell’uomo nel femminismo. 

Nel 1980 uscì Vai pure. Dialogo con Pietro Consagra, un chiarimento della loro relazione nel momento in cui il rapporto, quello tra una donna che cerca di porre le basi per il proprio riconoscimento e un uomo che si richiama al già dato delle proprie necessità, divenne inconciliabile. Il libro, personale e politico allo stesso tempo, è la trascrizione di una registrazione avvenuta in quattro giornate. Fu l’ultimo libro pubblicato mentre Lonzi era in vita. In quei mesi si ripresentò un tumore per cui era già stata operata a Boston alla fine degli anni Sessanta. Fu operata di nuovo nel dicembre del 1981 e dopo una lunga convalescenza morì a Milano il 2 agosto del 1982.

Rivolta Femminile pubblicò postumi Scacco ragionato. Poesie dal ’58 al ’63 e Armande sono io!. Nel 2018, grazie alle donazioni del figlio di Carla Lonzi, Battista Lena, è stato creato l’Archivio Carla Lonzi presso la Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea di Roma. I materiali, digitalizzati nel 2020, sono consultabili liberamente.