Cosa non è il “farmaco gender”

Il medicinale di cui si discute non vuole "far cambiare sesso ai bambini", ma serve a fermare temporaneamente lo sviluppo della pubertà in chi non si riconosce nel proprio corpo

di Giulia Siviero

(Mark Makela/Getty Images)
(Mark Makela/Getty Images)

Lo scorso 25 febbraio l’Agenzia italiana del farmaco (AIFA) ha stabilito l’estensione della prescrivibilità e della rimborsabilità di un farmaco utilizzato contro il tumore al seno e alla prostata, ma anche – in modalità diverse dalle indicazioni iniziali, cioè off label – per il trattamento della disforia di genere negli e nelle adolescenti: d’ora in poi, in alcuni casi, questo farmaco sarà dunque a carico del Servizio Sanitario Nazionale. Il farmaco – che appartiene alla famiglia dei bloccanti ipotalamici, GnRH – contiene triptorelina, una molecola che agisce sul sistema endocrino e sospende l’arrivo della pubertà (cioè la transizione dall’infanzia all’età adulta che porta al conseguimento della maturazione sessuale) consentendo di estendere lo spazio temporale di riflessione su di sé negli e nelle adolescenti il cui sviluppo si sta manifestando in modo doloroso e incongruente con la propria identità di genere: quando si presenta, cioè, la cosiddetta “disforia di genere”.

In questo periodo storico, durante il quale la propaganda contro le donne e le persone non eterosessuali trova ampio spazio e sostegno anche a livello politico, la triptorelina è stata immediatamente definita un “farmaco gender”: dalle associazioni cattoliche conservatrici, da molti giornali di destra e dai sostenitori della cosiddetta “ideologia del gender”, che non esiste e associa strumentalmente gli studi di genere a una pericolosa teoria volta a cancellare la differenza sessuale. È stato detto e scritto, dunque, che la triptorelina sia un farmaco per far cambiare sesso ai bambini, per “fabbricare trans”, che venga usato per «bombardarli» e per fare una cosa a cui non erano arrivati «neppure i nazisti del Dott. Mengele» (queste ultime frasi sono del senatore leghista Simone Pillon). Sulla vicenda è intervenuto anche il presidente della commissione Sanità del Senato, Pierpaolo Sileri del Movimento 5 Stelle, che ha deciso di avviare un’indagine conoscitiva e una serie di audizioni sull’uso e sul funzionamento di quella molecola.

Perché ne parliamo
Nell’aprile del 2018 l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) ha chiesto al
Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB) un parere in merito all’eticità sull’uso della triptorelina per il trattamento di adolescenti con disforia di genere, a seguito della richiesta di alcune società scientifiche.

Nel luglio del 2018 il CNB ha pubblicato un documento concludendo che fosse opportuno giustificare l’utilizzo di tale farmaco «ispirandosi ad un approccio di prudenza, in situazioni accuratamente selezionate da valutare caso per caso» e tenendo conto di una serie di raccomandazioni: che la diagnosi e la proposta di trattamento provengano da una équipe multidisciplinare e specialistica, che il trattamento sia limitato a casi dove gli altri interventi psichiatrici e psicoterapeutici siano risultati inefficaci, che il trattamento preveda un consenso espresso in modo libero e volontario e con la consapevolezza delle informazioni ricevute. Soddisfatte queste condizioni, ha dato la propria approvazione.

Nel febbraio del 2019 l’AIFA ha inserito quindi la triptorelina nell’elenco dei medicinali erogabili a totale carico del Servizio Sanitario Nazionale, suscitando molte critiche soprattutto da parte dei cattolici più conservatori.

Che cos’è la disforia di genere
L’identità sessuale, oggi, viene definita in base a tre parametri: sesso, genere e orientamento sessuale. Il primo corrisponde al corpo sessuato (maschio-femmina), il secondo al senso di sé (al sentimento di appartenenza, all’identificarsi come uomo o donna a seconda di ciò che il mondo intorno riconosce come proprio dell’uomo e della donna), mentre il terzo riguarda la direzione dei propri desideri (eterosessuali-omosessuali, che possono sommarsi nella bisessualità).

Il sistema sesso-genere-orientamento sessuale (usato oggi in tutto il mondo dalla maggior parte degli psichiatri, degli psicologi, dei sessuologi e dei sistemi giuridici) è però solo una griglia interpretativa e imperfetta della realtà, basata su rigide alternative binarie: la realtà stessa è ben più complessa e ricca di esperienze in cui i tre parametri non sono, come dire, “coerenti” tra loro. Come spiega Lorenzo Bernini, direttore del Centro di ricerca PoliTeSse – Politiche e Teorie della Sessualità, dell’Università di Verona, uno dei pochi espressamente dedicati agli Studi di genere e femministi e alle teorie queer in Italia – per molto tempo questa “non coerenza” ha funzionato per riconoscere «solo ad alcune categorie di persone l’appartenenza a un’umanità “sana”, “normale”, “piena”».

Nella quinta edizione del DSM, il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali dell’American Psychiatric Association, il più usato nel mondo, la condizione trans, prima indicata come “disturbo dell’identità di genere”, ha preso il nome di “disforia di genere”: si dice cioè che «il non identificarsi nel genere assegnato alla nascita non è di per sé un disturbo mentale». Per il DSM la condizione trans è insomma diventata, continua Bernini, «un’affezione psichiatrica meno grave, che non investe l’identità del soggetto, ma il suo umore: un disagio accompagnato da depressione, causato dalla mancata corrispondenza tra identità e biologia che di per sé non è considerata patologica».

La triptorelina e il cambio di sesso
Le tecniche per rendere il corpo di un sesso fenotipicamente somigliante a quello di un altro (e procedere con una transizione) sono molte e possono essere più o meno invasive. Ma la triptorelina e gli altri farmaci bloccanti non hanno nulla a che fare col cambio del sesso: intervengono per fermare, momentaneamente e in modo reversibile, la secrezione delle gonadotoprine e degli ormoni sessuali, e ritardare dunque – in modo reversibile – l’arrivo della pubertà e dei cambiamenti fisici che essa comporta.

Negli o nelle adolescenti con un corpo biologico femminile la triptorelina ferma lo sviluppo delle mestruazioni e la crescita del seno, nelle o negli adolescenti con un corpo biologico maschile ferma la crescita dei peli, lo sviluppo dei testicoli e l’abbassamento della voce. I dati citati più recenti dicono che il fenomeno della disforia di genere, sebbene ridotto numericamente, è in crescita. Si parla comunque di una prevalenza dello 0,002-0,005 per cento, cioè di 2-5 casi su 100 mila. Infine: un trattamento con triptorelina costa più di 2 mila euro l’anno.

Di cosa parliamo, dunque?
Paolo Valerio, ordinario di psicologia clinica all’Università Federico II di Napoli e presidente di ONIG, l’Osservatorio Nazionale sull’Identità di Genere, ci ha spiegato «che il farmaco consente di non patire un corpo che continua a svilupparsi in una direzione non desiderata, un corpo il cui sviluppo puberale crea sofferenza perché c’è un’incongruenza percepita tra sesso biologico e identità di genere». Come ha scritto nel suo documento il Comitato Nazionale di Bioetica, «la condizione di disforia di genere può accompagnarsi a patologie psicologiche e psichiatriche di tipo internalizzante, spesso correlate a stigma e discriminazione sociale: disturbi dell’emotività, ansia elevata, anoressia, autolesionismo, tendenza al suicidio, autismo, psicosi, dimorfismo corporeo, drop-out (abbandono, ndr) scolastico elevato».

Al centro della decisione del CNB e di chi inizi ad affrontare questa questione dovrebbe dunque esserci, innanzitutto, la tutela della salute psicofisica del o della minore. Valerio: «La letteratura scientifica descrive la popolazione di adolescenti transgender come più a rischio rispetto ai pari della popolazione generale, presentandosi con più alti livelli di depressione, ansia e rischio suicidario. Tali vissuti tendono a esordire o a intensificarsi proprio con lo sviluppo puberale. Il razionale dell’uso dei farmaci bloccanti la pubertà è, quindi, di estendere lo spazio temporale di riflessione su di sé senza che l’adolescente debba sperimentare il disagio di cambiamenti fisici incongruenti con la propria identità di genere».

L’intervento è poi preso in considerazione, già oggi in Italia, in casi accuratamente selezionati secondo le linee guida internazionali: in seguito a esplicita richiesta della famiglia e del minorenne, dopo una approfondita valutazione diagnostica e osservazione clinica da parte dell’équipe psicologica, dopo una approfondita valutazione medica, dopo un percorso di informazione dei genitori e del o della minorenne sugli effetti conosciuti e sconosciuti dei bloccanti, dopo l’acquisizione del consenso informato firmato da entrambi i genitori e di assenso/consenso del o della minorenne. Si tratta, insomma, di un farmaco che finora, dice Valerio, «è stato utilizzato in Italia in certe situazioni in cui era utile per la salute e la vita delle persone. Non è un farmaco che viene dato con leggerezza senza una presa in carico molto approfondita». E ancora: «Non bisogna fare crociate: se c’è una soluzione che in alcune situazioni specifiche e personalizzate può rendere la persona più serena va utilizzata. È certamente necessario essere cauti, ma senza assumere posizioni pregiudizievoli che poi portano direttamente a uno stigma».

Come ha spiegato Maurizio Mori, presidente della Consulta di Bioetica e componente del Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB), «la vera ragione che sta alla base dell’opposizione al farmaco» è quella «ideologica circa il binarismo sessuale», proprio come dimostrano in modo esplicito le critiche di uno studioso del Centro Livatino, per il quale il CNB «avrebbe rinunciato a combattere la mentalità oggi diffusa che stenta a accettare la sessualità così come iscritta nella legge naturale» (il Centro Livatino è un’associazione di giuristi che studia «temi riguardanti il diritto alla vita, la famiglia e la libertà religiosa in un’ottica di coerenza col diritto naturale»).

L’ideologia no-gender
Accettare la sessualità come iscritta nella cosiddetta “legge naturale” non è solamente una posizione ben lontana dalla realtà, ma può avere conseguenze paradossali. Ilaria Ruzza, coordinatrice Sat-Pink, il Servizio Accoglienza Trans/Transgender, operativo dal novembre 2011 a Verona e a Padova, ci ha raccontato che un ragazzo preso in carico dal suo centro «è stato sottoposto a un esorcismo, suggerito proprio da una psicologa cattolica». Porpora Marcasciano, presidente del MIT (Movimento identità transessuale) e storica attivista trans, spiega poi che «anche il discorso scientifico fa sempre più riferimento alle varianze di genere: esistono tante sfumature diverse rispetto alla propria identità. Non sono, insomma, le persone trans ad essere malate o contro natura: è malato il sistema. Una persona trans vive in un contesto che è estremamente ostile e in queste situazioni i cosiddetti equilibri psichici verrebbero messi a dura prova per chiunque si trovasse a vivere in un contesto quotidianamente avverso».

Quella dei farmaci bloccanti, prosegue, «è una questione gonfiata all’inverosimile: si parla di numeri molto ridotti e si parla si procedure comunque già molto complesse e supervisionate che vengono avviate dalle famiglie dei e delle minori coinvolti. Insomma, lì dove esiste la questione c’è tutta una regolamentazione che smonterebbe anche i più motivati». Il problema, spiega, è un altro: «In Italia e nel mondo esiste una compagine formata da cattolici e destre conservatrici che ha inventato il fantasma della “teoria gender” che non esiste se non per come la vedono loro. Quest’area di pensiero lancia continui allarmi, e anche sui bloccanti ha montato un sistema ad arte».

Annalisa Zabonati, psicologa responsabile clinica e scientifica del Sat-Pink, concorda: «Il problema è che si dovrebbe parlare di disforia di genere sociale, cioè indotta da condizioni sfavorevoli. Se fossimo in una società includente e non binaria per questi bambini e per queste bambine sarebbe ridotto l’impatto sociale che causa sofferenza» e dunque, probabilmente, anche la necessità di ricorrere a un farmaco bloccante. «Va poi tenuto in considerazione», prosegue, «il fatto che dal punto di vista psicologico il beneficio di un bloccante potrebbe creare anche delle false aspettative, perché il corpo che si ha a un certo punto si ripresenta e più avanti, se verrà riconosciuto il desiderio di proseguire con la transizione, si dovranno assumere degli ormoni. Non si diventerà in termini biologici un maschio o una femmina: è dunque fondamentale portare alla consapevolezza che quel corpo dovrà essere chirurgicamente modificato, a meno che non ci sia l’accettazione di un corpo maschile con una vagina o di un corpo femminilizzato con un pene». Accettazione personale e sociale, o viceversa.

Porpora Marcasciano, che ha 62 anni, ha assunto ormoni per dodici anni, negli anni Ottanta, «quando non esistevano i centri specialistici, ma queste cose si facevano su consiglio delle amiche. Dopodiché ho sospeso tutto e non ho fatto più niente, non ho fatto nemmeno il cambio di sesso, perché non mi è interessato in nessun passaggio della mia vita. Il mondo in cui viviamo porta invece molte persone a volere l’intervento chirurgico proprio per rientrare nel sistema del binarismo perfetto. Che, al di là dei desideri personali, va però superato».

Ognuna e ognuno, aggiunge Bernini, «dovrebbe essere libera e libero di costruire nel tempo il proprio personale percorso di transizione di genere, a seconda dei propri desideri, con tutti i supporti che ritiene necessari. La libertà di scelta delle persone transgender è invece ancora troppo spesso limitata, non soltanto dalle loro risorse economiche (non tutti e non in tutti i paesi gli interventi e le terapie sono a carico del sistema sanitario pubblico), ma anche dai protocolli e dalle leggi che regolano il cambiamento del genere anagrafico».

Tra le priorità del movimento trans, oggi, ci sono le terapie ormonali sostitutive (TOS), il cui uso è molto più diffuso rispetto alla pratica dei bloccanti: questa terapia dura infatti per tutta una vita, con cambi di dosaggi, e si tratta di farmaci che non sono a carico del Servizio Sanitario Nazionale, ma delle persone che ne hanno bisogno (fanno eccezione la regione Toscana e un ospedale di Bologna). Le spese vanno dai 50 euro mensili per le persone Male to Female e dai 20 euro mensili ai 160 euro ogni 100 giorni, per le persone Female to Male. Il paradosso è che in questo momento, conclude Zabonati, «c’è addirittura una crisi di reperibilità di testosterone nelle sue formule più convenienti e le persone trans, ma anche i maschi cisgender con alcune problematiche di tipo gonadico, non li possono acquistare». L’interruzione della loro assunzione può avere conseguenze negative sulla salute psichica e fisica: la TOS è spesso infatti una terapia salvavita, necessaria per garantire un livello sostitutivo di ormoni fondamentali per vari aspetti metabolici.