Come la pandemia è stata raccontata dalle serie TV

Qualcuna ha scelto di mettere l’emergenza al centro della trama, qualcun’altra ne ha parlato marginalmente, qualcun’altra ancora ha deciso di ignorare del tutto il problema

di Francesca Olgiati

Una scena della 17esima stagione di "Grey's Anatomy"
Una scena della 17esima stagione di "Grey's Anatomy"

Le serie TV, come molti altri prodotti culturali, si sono dovute adattare ai cambiamenti dati dalla pandemia e hanno fatto scelte molto diverse per descrivere l’eccezionalità del momento. Alcune sono state pensate e realizzate a pandemia già iniziata, con l’obiettivo di raccontare quello che stava succedendo e le sue conseguenze. Quelle già in corso hanno dovuto decidere come adattare la propria trama: in alcuni casi sono stati inseriti espliciti riferimenti alla pandemia, in altri si è deciso di raccontare un futuro post-pandemico, in altri ancora la pandemia è stata ignorata completamente.

L’industria del cinema si era quasi completamente bloccata nella prima metà del 2020, con le prime grosse restrizioni imposte a causa della prima ondata. Le nuove produzioni previste non erano partite e molte di quelle già programmate erano state interrotte. Molti sceneggiatori avevano cominciato a chiedersi come riprendere il lavoro e che vantaggio avrebbero avuto nell’inserire nelle loro trame un elemento dal futuro così incerto.

Le difficoltà nel raccontare la pandemia sono state per esempio paragonate a quelle incontrate nel trattare un altro grande evento drammatico che ha segnato la storia del mondo di questo secolo: l’attentato terroristico dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle di New York, e le sue ricadute nel racconto di diverse realtà contemporanee che possono essere presenti anche nelle storie televisive e cinematografiche. Lo sceneggiatore e produttore americano Kenya Barris ha sostenuto però come i due eventi siano diversi almeno per alcuni aspetti, tra cui il fatto che la pandemia non sia un evento iniziato e finito, ma lungo e ancora in corso: «È difficile scrivere della partita quando siamo ancora nel primo tempo», ha detto Barris. Altri sceneggiatori hanno parlato di due ulteriori problemi: la perdita di originalità della trama e il rischio che gli spettatori non apprezzino un intrattenimento che ricordi loro situazioni complicate di vita reale come isolamento, quarantena e appuntamenti su Zoom.

Un caso particolare sono le serie TV che non sarebbero esistite senza la pandemia.

A fine giugno 2020 è uscita su Netflix Homemade, una serie italo-cilena composta da 17 cortometraggi realizzati in 17 paesi diversi da altrettanti registi di nazionalità differente e noti a livello internazionale, come Paolo Sorrentino, Pablo Larraín, Ladj Ly, Rachel Morrison, David Mackenzie, Maggie Gyllenhaal. Il principale ideatore della serie è il regista cileno Pablo Larraín, regista del film Una donna fantastica (Una mujer fantástica), vincitore del premio Oscar per il miglior film straniero nel 2018. Larraín ha detto di aver avuto l’idea di provare a capire cosa lui e i suoi colleghi sarebbero stati in grado di creare con le poche risorse a disposizione durante il periodo di isolamento.

Homemade non è stata l’unica. Durante il 2020 sono nate altre serie TV che ruotano intorno ai temi della pandemia: per esempio Love in the time of Corona, Connecting e Social Distance. Gli elementi comuni sono il racconto di un mondo fatto di distanziamento fisico e della difficoltà nel mantenere relazioni basate principalmente su videochiamate.

Per quanto riguarda le produzioni di serie TV già esistenti, il discorso è stato un po’ diverso. Un caso particolare e interessante è stato quello dei medical drama (prodotti incentrati su ospedali o ambienti medici). Molti hanno deciso di integrare la pandemia nelle trame, ma non tutti.

Grey’s Anatomy, probabilmente il medical drama più famoso al mondo degli ultimi 15 anni, è stato il caso più significativo per la scelta di incentrare l’intera 17esima stagione sui problemi dati dal virus. Zoanne Clack, medica e produttrice della serie, ha spiegato l’iniziale preoccupazione per le difficoltà che la cosiddetta covid-fatigue (vivere con il coronavirus ogni giorno e doverlo guardare anche in uno show) avrebbe potuto generare presso il pubblico. Questa scelta è durata una sola stagione; la 18esima si è aperta con la scritta: «In questa stagione Grey’s Anatomy descrive un mondo immaginario post-pandemico che rappresenta la nostra speranza per il futuro». Krista Vernoff, produttrice esecutiva della serie, ha aggiunto che a un certo punto era emersa l’esigenza di tornare a mostrare le facce degli attori e delle attrici.

I produttori di un altro medical drama, The Resident, hanno deciso di gestire la situazione diversamente.

La terza stagione della serie tv, ambientata in un ospedale fittizio di Atlanta, è stata interrotta all’inizio della pandemia prima che venissero girati tutti gli episodi inizialmente previsti. La quarta stagione comincia con un episodio flashback che mostra infermieri e medici alle prese con la pandemia, ma prosegue in un mondo dove l’emergenza è stata superata grazie all’arrivo dei vaccini. Il co-produttore esecutivo e sceneggiatore della serie, Andrew Chapman, ha spiegato così la decisione: «Non possiamo e non vogliamo ignorare il COVID. Quando abbiamo scritto la stagione abbiamo immaginato che al momento della messa in onda le persone sarebbero state estremamente stanche della pandemia. Abbiamo cercato di trovare un modo per onorare gli sforzi del personale sanitario e allo stesso tempo raccontare una storia avvincente».

Come per i medical drama, anche le produzioni delle serie TV incentrate sul mondo dell’informazione e ambientate nella contemporaneità hanno dovuto capire come e se integrare la pandemia nelle trame.

The Morning Show, per esempio, è ambientato in uno studio televisivo e si occupa di temi molto attuali come abusi di potere, molestie sessuali e fake news. Sin dalla prima stagione, la trama era stata adattata ai movimenti me too e agli scandali che stavano coinvolgendo il potente e famoso produttore cinematografico americano Harvey Weinstein. Per mantenere l’idea su cui lo show era basato, i produttori hanno deciso di inserire la pandemia nella trama della seconda stagione. L’attore Desean Terry, che nella serie interpreta il giornalista Daniel Henderson, ha spiegato che l’obiettivo era mostrare come i personaggi della serie stessero affrontando le stesse incertezze del cast nella vita reale e in generale di tutte le persone.

Altre serie TV hanno deciso di fare riferimento più sbrigativamente all’esistenza della pandemia senza però inserirla nella trama. Un caso rappresentativo è And Just Like That, il sequel di Sex and the City.

Nella prima scena, la protagonista Carrie Bradshaw (interpretata da Sarah Jessica Parker) entra in un affollato locale a New York e saluta le sue amiche dicendo: «Vi ricordate quando la legge ci imponeva di stare a due metri di distanza?». Qualche secondo dopo, un’amica riconosce Carrie e le ricorda il momento in cui non potevano salutarsi con gli abbracci ma solo con i gomiti. Nel corso degli episodi, la produzione ha deciso di mettere qualche riferimento simile senza però che la pandemia condizionasse o avesse un impatto significativo sulla trama.

Altre produzioni hanno infine deciso di ignorare completamente la pandemia: una delle più famose è Emily in Paris, che racconta la vita di una ragazza americana che si trasferisce a Parigi per lavoro. A Parigi, Emily apre un profilo Instagram chiamato “Emily in Paris” e diventa influencer.

La prima stagione era stata prodotta prima del 2020, mentre la seconda è ambientata in un mondo senza pandemia. Il creatore Darren Star ha detto di non aver voluto inserire il COVID nella trama per dare continuità alla storia raccontata nella prima stagione, rendendo così la serie «senza tempo». Lily Collins, che interpreta la protagonista, ha aggiunto che la prima stagione aveva la capacità di intrattenere in modo leggero e che è stata fatta la scelta di mantenerla così perché «l’evasione, la gioia e le risate erano le cose di cui avevamo più bisogno in quel periodo».

Anche in Italia i produttori di serie TV si sono posti gli stessi problemi, e sono state due le serie che hanno deciso di includere la pandemia: Doc – Nelle tue mani e Diavoli.

La prima stagione di Doc – Nelle tue mani è ispirata alla storia vera di un uomo che perse 12 anni di memoria a causa di un incidente stradale, e nella seconda stagione viene raccontata la vita delle persone che affrontano la pandemia in ospedale. L’attore Gianmarco Saurino ha parlato dell’importanza di raccontare la pandemia, per «entrare ancora di più nella situazione del COVID e sentire quanto indossare il camice sia importante». Durante l’ottavo episodio, Cane Blu, viene rappresentata la morte di Lorenzo Lazzarini, il personaggio interpretato da Saurino, il primo medico vittima di COVID-19 in una serie TV italiana.

In Diavoli, serie TV con Alessandro Borghi, Patrick Dempsey e Lars Mikkelsen, vengono analizzati i rapporti tra finanza e politica e gli effetti delle operazioni finanziarie sulla vita delle persone. Gli sceneggiatori hanno preso spunto da fatti di attualità sin dalla prima stagione: tra le altre cose, nella seconda si è parlato di Brexit, dell’elezione a presidente degli Stati Uniti di Donald Trump e dei rapporti tra Cina e Stati Uniti. Il produttore Luca Bernabei ha detto: «Non era possibile trascurare il COVID, Diavoli legge gli eventi in un mondo che si evolve in continuazione».

Questo e gli altri articoli della sezione Tra cultura e pandemia sono un progetto del workshop di giornalismo 2022 del Post con la Fondazione Peccioliper, pensato e completato dagli studenti del workshop.