I festival a pagamento stanno aumentando

Per far fronte alle nuove spese causate dalla pandemia e offrire contenuti di maggior valore, alcuni hanno cominciato a far pagare il biglietto: in Italia è una novità

di Fabio Girotto

(LaPresse/Sandro Rizzo)
(LaPresse/Sandro Rizzo)
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In questi ultimi due anni di pandemia i festival italiani hanno avuto due grossi problemi. Il primo è che molte delle persone essenziali per organizzare questo tipo di eventi hanno cambiato lavoro a causa delle difficoltà del settore, e non sono più tornate. Per questo problema non ci sono soluzioni facili e attuabili subito, e la mancanza di lavoratori potrebbe ostacolare la riuscita di molti festival questa estate. Il secondo è che le spese di organizzazione sono aumentate e i guadagni diminuiti, e per questo problema qualche soluzione è stata proposta. Una in particolare rappresenta una novità per i festival italiani, una cosa che molti organizzatori non credevano fosse realmente praticabile, ma che secondo alcuni di quelli che l’hanno attuata sta dando segnali incoraggianti: si è iniziato a far pagare il biglietto.

Di festival ce ne sono tanti e di tanti tipi. Una definizione un po’ generica potrebbe essere quella di una manifestazione culturale che si compone di più eventi dedicati a un unico tema, che dura qualche giorno e si ripete ogni anno nello stesso luogo rivolgendosi ad un pubblico generalista. In Italia ci sono centinaia di festival, più di mille secondo alcune stime, specialmente nei mesi di maggio, giugno, settembre e ottobre.

Spesso un festival è organizzato da una associazione non profit che, per statuto, non punta a generare dei profitti ma a reinvestire interamente gli utili delle proprie attività nelle attività stesse. Al contrario delle aziende private, le associazioni non profit possono accedere a fondi pubblici messi a disposizione da comuni, regioni e Unione Europea. Altre fonti di finanziamento possono essere le sponsorizzazioni private, la vendita di cibo e bevande, l’offerta di corsi e workshop a pagamento all’interno del festival. E poi ci sono i biglietti: che però sono previsti solo da pochi festival in Italia e i cui ricavi spesso non sono sufficienti nemmeno a coprire le spese di organizzazione.

Le spese per un festival sono molte: il cachet degli ospiti (quando previsto), l’affitto degli spazi, l’allestimento delle strutture, la comunicazione pubblicitaria, giusto per nominare le principali. Gli organizzatori dei festival non sono sempre pagati, a volte hanno retribuzioni sostenute con la partecipazione di sponsor o amministrazioni locali, altre volte riescono a ricevere un rimborso che si avvicina a uno stipendio per le spese sostenute e il tempo impiegato: su questo c’è una grande varietà da festival a festival e da regione a regione, ed è difficile descrivere un quadro generale. Ci sono poi naturalmente i lavoratori specializzati come fonici, scenografi e baristi che vanno pagati. E poi ci sono i volontari, che per definizione non vengono pagati ma rappresentano comunque un costo da sostenere per i rimborsi di cibo e bevande e altre spese come magliette o divise da indossare.

Alcuni discutono sull’opportunità di impiegare persone che di fatto non vengono pagate per il loro lavoro, anche considerato che i volontari sono fondamentali per la riuscita di un festival: aiutano i partecipanti a muoversi all’interno dell’area, seguono gli ospiti e si occupano delle loro esigenze, aiutano i membri dello staff nel loro lavoro. Durante la pandemia, molti volontari hanno svolto le mansioni necessarie al rispetto delle regole imposte per limitare la diffusione del coronavirus: misurare la temperatura dei partecipanti, sanificare sedie e microfoni, controllare il Green Pass.

Tra gli effetti più notevoli avuti dalla pandemia sull’organizzazione dei festival c’è che molti tecnici del mondo dello spettacolo hanno cambiato lavoro: secondo una ricerca pubblicata a marzo di quest’anno dalla Fondazione Centro Studi Doc (che svolge attività di ricerca sulle condizioni di lavoro nel settore della cultura), un quinto di loro ha abbandonato definitivamente il settore, e questo quinto include soprattutto quelli che lavoravano nel settore degli eventi dal vivo e nel teatro. Anche le spese di organizzazione sono aumentate durante la pandemia, per la necessità, tra le altre cose, di sanificare gli spazi, di comprare nuovi strumenti come i termometri e le mascherine, e di introdurre sistemi di prenotazione online per contingentare gli ingressi.

In Italia una delle strategie adottate dagli organizzatori di festival per sostenere le nuove spese è stata l’introduzione del biglietto a pagamento per poter partecipare ad alcuni o a tutti gli eventi del festival. Potrebbe sembrare un’idea poco innovativa, ma almeno in Italia tradizionalmente sono stati soprattutto i festival musicali a far pagare un biglietto: è meno frequente che i biglietti siano previsti per gli eventi non musicali dei festival.

Vincenzo D’Aquino, organizzatore del FLA, Festival di Libri e Altrecose a Pescara, negli ultimi due anni ha introdotto un sistema di prenotazione online per gli eventi del festival. Inizialmente per alcuni eventi la prenotazione era gratuita, mentre per altri costava circa 3 euro. D’Aquino si è reso conto di come il tasso di abbandono, cioè la percentuale di persone che pur essendosi prenotate agli eventi poi non si presentava, era molto più alto per gli eventi con prenotazione gratuita, ed era invece quasi inesistente per gli eventi con prenotazione a pagamento, per quanto esiguo. Ha anche potuto verificare come il dover pagare un biglietto non abbia scoraggiato le persone dal venire agli eventi, cosa che altri temevano sarebbe invece successa.

Anche Francesca Vittani, responsabile programmazione della Fondazione Circolo dei Lettori, che organizza il Festival del Classico, Torino Spiritualità e Scarabocchi, dopo la pandemia ha provato a introdurre un sistema di prenotazione a pagamento per alcuni eventi. Lo ha fatto sia per fare fronte ai nuovi costi portati dalla pandemia, sia per offrire contenuti di maggior valore. Secondo Vittani e D’Aquino le persone sono disposte a pagare quando c’è una buona offerta di contenuti e quando negli anni si è creata una fidelizzazione del pubblico.

Vittani ha parlato di una «disabitudine mentale» da parte di alcuni organizzatori di eventi culturali a «pensare che possa esistere un pubblico disponibile a pagare un minimo di biglietto». Questo, secondo Vittani, succede forse perché molti credono che la cultura debba essere gratuita, un’idea che in generale lei condivide e promuove tramite la fondazione per cui lavora, ma che non significa che certe persone non siano disposte a contribuire economicamente per contenuti «inediti e speciali» e magari anche costosi da realizzare.

Anche Gianmario Pilo, organizzatore e ideatore, insieme a Marco Cassini, del festival letterario La Grande Invasione a Ivrea, pensa che alcuni organizzatori di festival non vogliano chiedere un biglietto per timore che le persone poi non vengano, e che questo sia un pregiudizio sbagliato. Secondo Pilo, non solo le persone sono disposte a pagare per i festival culturali, ma, per quanto intuitivamente possa sembrare strano, sono più spinte a venire proprio se c’è un biglietto, probabilmente perché «il prezzo dà la percezione del valore dell’evento».

I soldi provenienti dalla vendita dei biglietti, per quanto siano stati d’aiuto soprattutto in questi ultimi due anni, non bastano comunque a coprire la maggior parte delle spese. Ciò è vero anche per i festival musicali, da più tempo abituati a chiedere un biglietto e anche per cifre più alte di altri festival. Giuseppe Conte, tra gli organizzatori del VIVA!, ha raccontato che quest’anno i profitti generati dalla vendita dei biglietti basteranno, se tutto va bene, giusto a pagare gli artisti che verranno a suonare lì. Un’entrata importante, anche considerando che il cachet degli artisti rappresenta quasi la metà delle spese, ma senza i soldi provenienti dalle sponsorizzazioni private e dalla vendita di cibo e bevande un festival come VIVA! non potrebbe esistere.

Questa appena iniziata sarà la prima estate da due anni a questa parte a non prevedere limitazioni per i festival a causa della pandemia. In questi due anni alcuni festival hanno chiuso perché non riuscivano a far fronte ai costi, altri sono rimasti aperti perché chiudere anche solo per un anno avrebbe significato perdere una rete di contatti che sarebbe poi stata molto difficile da recuperare. Rimanere aperti ha significato però per molti fare un’edizione in cui i soldi spesi sono stati più di quelli guadagnati.

I festival italiani hanno la possibilità di ripartire mantenendo le innovazioni introdotte in questi ultimi due anni, come l’introduzione del biglietto e della prenotazione online. La preoccupazione di alcuni organizzatori è che ora possa succedere qualcosa di simile a quello che è successo agli aeroporti dove la quantità di voli è tornata ad essere quella di prima della pandemia, ma molti dei lavoratori persi in due anni non sono ancora stati sostituiti, con tutti i conseguenti problemi organizzativi. Il timore per i festival, soprattutto musicali, è quindi che la mancanza di lavoratori dello spettacolo non possa ora essere sopperita con la stessa velocità di ripresa di partecipazione ai festival.

Questo e gli altri articoli della sezione Tra cultura e pandemia sono un progetto del workshop di giornalismo 2022 del Post con la Fondazione Peccioliper, pensato e completato dagli studenti del workshop.