L’Universo come non l’abbiamo mai visto

Le prime immagini del James Webb Space Telescope mostrano galassie e nebulose in grande dettaglio, e ci dicono di più su mondi lontanissimi

di Emanuele Menietti

Nebulosa della Carena (NASA, ESA, CSA)
Nebulosa della Carena (NASA, ESA, CSA)
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Dopo avere viaggiato per milioni di chilometri nello Spazio profondo, il James Webb Space Telescope (JWST), il più grande e potente telescopio spaziale mai realizzato, ha iniziato a fotografare stelle e galassie lontanissime, aprendo una nuova e attesa era delle osservazioni spaziali. Le prime immagini sono state presentate oggi dalla NASA, che gestisce il JWST in collaborazione con l’Agenzia spaziale europea (ESA) e quella canadese (CSA). Mostrano ammassi di galassie lontane miliardi di anni luce da noi, un grande pianeta gassoso all’esterno del nostro sistema solare e nebulose in rapida evoluzione.

Deep Field
Una prima immagine realizzata dal JWST era stata diffusa nella serata di lunedì 11 luglio (in Italia era già martedì) dal presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, nel corso di un evento speciale organizzato a Washington, DC. Chiamata “Webb’s First Deep Field”, è una fotografia di gruppo di un ammasso di galassie a 4,6 miliardi di anni luce da noi con alle spalle altre galassie ancora più distanti. L’immagine è stata realizzata osservando una minuscola porzione di Spazio a grandissima distanza e dimostra le grandi capacità del telescopio, soprattutto in termini di risoluzione.

La foto può essere considerata un’evoluzione di immagini simili realizzate in passato dal telescopio spaziale Hubble, di cui il JWST è per molti aspetti un erede. È stata realizzata con una lunga esposizione, in modo da raccogliere più luce possibile, e ha richiesto un giorno di attività del telescopio. Per effettuare un’osservazione simile, ma a una risoluzione molto inferiore, Hubble impiegava settimane. Rispetto al suo predecessore, il JWST riesce a cogliere sorgenti di luce 100 volte meno luminose.

Webb’s First Deep Field (NASA, ESA, CSA)

Osservando l’ammasso, si possono notare caratteristiche e strutture delle galassie che finora non era stato possibile osservare con questo grado di dettaglio nell’infrarosso, la radiazione elettromagnetica con una frequenza inferiore a quella della luce visibile, che non può essere colta dai nostri occhi, ma che consente di osservare oggetti caldi a grandissima distanza. Alcune galassie appaiono curvate e distorte per effetto della “lente gravitazionale”, fenomeno ottico che consente di disporre di una sorta di lente d’ingrandimento cosmica per osservare corpi celesti a enormi distanze e alle spalle di oggetti più vicini.

Nebulosa Anello del sud
A differenza di ciò che suggerisce il loro nome, le nebulose planetarie si formano nelle fasi finali di vita di alcuni tipi di stelle, quando producono grandi quantità di gas che si illuminano ed espandono verso l’esterno. La nebulosa Anello del sud, da poco fotografata dal JWST, è una di queste: è osservabile nella costellazione delle Vele e possiede due stelle molto vicine tra loro.

Questa immagine mostra la nebulosa ripresa dallo strumento NIRCam, una delle principali fotocamere del telescopio.

(NASA, ESA, CSA)

In questa versione, la nebulosa è stata invece fotografata utilizzando lo strumento MIRI, che consente di osservare con maggiore dettaglio le nubi di gas espulse e le stelle presenti.

(NASA, ESA, CSA)

La stella centrale è la causa della formazione della nebulosa ed è la più debole. Si stima che la nebulosa sia in rapida espansione alla velocità di circa 24 chilometri al secondo. Si trova a 2000 anni luce da noi, quindi ci appare com’era quando era imperatore Tiberio.

Hubble nel 1998 vedeva la nebulosa così.

Quintetto di Stephan
Nella costellazione del Pegaso si può osservare un piccolo gruppo di cinque galassie, noto come il Quintetto di Stephan. L’immagine realizzata dal JWST (un collage di oltre mille scatti) lo mostra in grande dettaglio ed è significativo che sia stato scelto come obiettivo delle prime osservazioni del telescopio: il Quintetto fu il primo gruppo di galassie a essere scoperto, nella seconda metà dell’Ottocento in Francia.

(NASA, ESA, CSA)

Quattro delle cinque galassie visibili nell’immagine sono vicine tra loro, in termini astronomici, mentre una quinta galassia (NGC 7320) è su un piano diverso e più vicino a noi. Il Quintetto di Stephan è piuttosto turbolento: alcune galassie producono gigantesche onde d’urto galattiche che si spostano e investono le galassie nelle vicinanze. Queste onde d’urto, visibili in un’ulteriore immagine del nuovo telescopio qui sotto, raggiungono una estensione paragonabile a quella della nostra intera galassia (la Via Lattea), spostano grandi quantità di gas e il loro studio aiuta a comprendere come si evolvano alcuni tipi di galassie dal vicinato alquanto vivace.

(NASA, ESA, CSA)

Sempre per confronto, Hubble vedeva il Quintetto così.

WASP-96b
A 1.120 anni luce da noi, visibile nella costellazione della Fenice, c’è WASP-96b, un grande esopianeta gassoso la cui massa stimata è circa la metà di quella di Giove, il più grande pianeta del nostro sistema solare. È in orbita intorno alla stella WASP-96 (di solito gli esopianeti ereditano il nome dalla loro stella di riferimento, con l’aggiunta di una lettera). JWST ha raccolto dati molto importanti per dedurre la composizione della sua atmosfera.

WASP-96b impiega 3,4 giorni terrestri per compiere un giro intorno alla propria stella di riferimento e dai dati raccolti in precedenza si ipotizzava che il pianeta avesse un’atmosfera priva di nuvole. La nuova rilevazione del JWST ha invece messo in evidenza la presenza di molecole d’acqua in sospensione e indizi sulla presenza di nubi. Per arrivare a queste conclusioni, i gruppi di ricerca hanno utilizzato il telescopio per analizzare le variazioni di luminosità della stella WASP-96, che dipendono dai passaggi del pianeta davanti al suo disco luminoso (rispetto al punto di vista di osservazione del telescopio). La stessa tecnica viene impiegata per identificare nuovi pianeti a grandissima distanza da noi, in altri sistemi planetari e potrà essere sfruttata anche con il JWST, con maggiori livelli di precisione.

Nebulosa della Carena
Per molto tempo l’osservazione della Nebulosa della Carena è stato uno dei cavalli di battaglia del telescopio spaziale Hubble. Si trova nella nostra galassia ed è visibile a occhio nudo dall’emisfero australe e in alcune zone tropicali dell’emisfero boreale (il nostro). È a 7.500 anni luce da noi e la nuova immagine realizzata dal JWST ne rende evidenti molte caratteristiche.

La nebulosa ha un’estensione di 260 anni luce e al suo interno sono rilevabili processi di formazione di nuove stelle. Una delle sue formazioni caratteristiche è la cosiddetta “Montagna mistica”, un’area ricca di idrogeno e polveri che interagiscono con i processi delle stelle più giovani e calde che nascono al loro interno. Le nuove rilevazioni del JWST hanno reso più evidenti questi fenomeni, confermando le ipotesi formulate in passato circa la formazione di ammassi di stelle giovani e più massicce in parte della nebulosa.

(NASA, ESA, CSA)

La Nebulosa della Carena non avrà lunga vita, sempre in termini astronomici. Le stelle al suo interno disperderanno via via i gas e le polveri in pochi milioni di anni, facendola diventare meno evidente e variopinta.

Universo
Le immagini diffuse oggi sono soprattutto dimostrative per rendere evidenti anche ai meno esperti le grandi potenzialità del telescopio, ma sono comunque importanti dal punto di vista scientifico e per fare ulteriori verifiche sulle funzionalità del JWST a oltre sei mesi di distanza dalla sua partenza dalla Terra. Il telescopio si trova ora in una zona particolare a circa 1,5 milioni di chilometri dalla Terra in posizione opposta rispetto a quella del Sole, nel cosiddetto “punto lagrangiano L2”, dove può osservare il cosmo senza essere distratto più di tanto dall’attività della nostra stella.

Nei prossimi anni, il James Webb Space Telescope potrà osservare i primi oggetti che si produssero durante il Big Bang, il modello cosmologico più condiviso dalla comunità scientifica per spiegare i processi che portarono all’espansione dell’Universo da uno stato iniziale di 13,8 miliardi di anni fa dove tutto l’esistente era ad altissima densità e temperatura. In quelle fasi iniziali si formarono le prime stelle, molto diverse da quelle che vediamo oggi: si ipotizza che fossero centinaia di volte più dense del Sole e che alla fine della loro esistenza produssero enormi esplosioni (supernove), sparpagliando nello Spazio altri elementi, che divennero poi gli ingredienti per la formazione delle altre stelle e dei pianeti.

È rimasta una traccia di quelle antiche stelle primordiali, talmente lontane da noi da richiedere alla loro luce miliardi di anni per attraversare tutto lo Spazio e raggiungerci. Esistono telescopi di vario tipo che vengono impiegati per andare a caccia di quelle tracce. Il JWST non ha la sensibilità necessaria per osservare luci così flebili, ma può comunque rilevare la presenza di gruppi di stelle che formarono le galassie primordiali. Con Hubble eravamo arrivati a compiere osservazioni ad appena 400 milioni di anni dopo l’inizio di tutto, con il nuovo telescopio ci si dovrebbe avvicinare a 100 milioni di anni.

Da queste osservazioni potremmo comprendere molte cose su come si formarono le galassie attuali, con al loro centro buchi neri supermassivi, cioè con una massa di milioni o miliardi di volte quella del nostro Sole. Il JWST potrà inoltre aiutare i gruppi di ricerca a determinare con maggiore precisione la velocità a cui si sta espandendo l’Universo e a cogliere caratteristiche degli esopianeti, per esempio sulla composizione della loro atmosfera e sulla possibilità di avere condizioni favorevoli alla vita, almeno per come la conosciamo.

25 anni
Negli anni Novanta, Hubble dimostrò che l’idea di portare nello Spazio un telescopio molto potente era fattibile, aprendo nuove possibilità di osservazioni dei corpi celesti senza subire più di tanto le distorsioni dell’atmosfera terrestre, che complicano il lavoro dei telescopi qui sulla Terra. I successi di Hubble spinsero la NASA e altre agenzie spaziali a immaginare la costruzione di telescopi ancora più grandi e potenti per migliorare ulteriormente le osservazioni. Quelle ipotesi confluirono nel progetto del James Webb Space Telescope, molto ambizioso e che nel tempo si sarebbe rivelato tra i più difficili, travagliati e costosi nella storia recente delle attività spaziali.

Accantonata l’idea di realizzare un telescopio con uno specchio da 8 metri di diametro (più grande è lo specchio, più luce si può raccogliere rendendo più sensibile lo strumento), fu concordata la costruzione di uno specchio da 6,5 metri, comunque più del doppio rispetto a quello di Hubble. Era talmente grande da non poter essere portato in orbita già aperto, a causa del suo ingombro rispetto allo spazio offerto da qualsiasi razzo. Fu quindi ideato un sistema a origami mai sperimentato prima, che insieme a svariate modifiche al progetto determinò un notevole aumento dei costi di realizzazione.

Lo specchio primario di Hubble a confronto con quello del JWST (NASA)

Dopo numerose traversie, problemi di finanziamento e rinvii, il JWST divenne pronto per il lancio solo alla fine del 2021, a 25 anni di distanza dalle prime proposte con una spesa di 10 miliardi di dollari.

Pieghevole
Dopo il lancio avvenuto lo scorso 25 dicembre, nel corso del viaggio verso la propria area di osservazione, il James Webb Space Telescope ha aperto il proprio specchio principale formato da diciotto esagoni rivestiti da una lamina d’oro, che rende la superficie resistente e riflettente. Ha inoltre aperto un grande scudo termico, una specie di parasole grande quanto un campo da tennis, che serve per mantenere freddi gli strumenti ed evitare che gli sbalzi di temperatura interferiscano con le rilevazioni.

Lo scudo è fatto di Kapton, una materia plastica resistente di solito utilizzata per lo strato esterno delle tute spaziali, ed è formato da cinque strati separati tra loro che dissipano il calore, lasciando gli specchi del telescopio a una temperatura media intorno ai -230 °C.

I meccanismi di apertura dello specchio principale e dello scudo erano stati tra gli elementi più difficili da realizzare e una delle cause dei ritardi nello sviluppo e nella sperimentazione del telescopio. Anche per questo i progettisti hanno seguito con grande apprensione la loro attivazione, avvenuta in automatico e ormai a grande distanza dalla Terra, per preparare il telescopio alle osservazioni. Se qualcosa fosse andato storto, il JWST non sarebbe potuto entrare in servizio e non sarebbe stato possibile raggiungerlo per ripararlo, come avvenuto in passato con il più vicino Hubble.

Raggiunta la destinazione finale, il James Webb Space Telescope era stato sottoposto a numerosi test e verifiche, per assicurarsi non solo che tutti gli strumenti funzionassero a dovere, ma anche che comunicassero tra loro e che fossero poi in grado di inviare i dati alle antenne che li fanno arrivare fino a noi. L’attività di calibrazione ha richiesto molto lavoro e ha dovuto anche fare i conti con collisioni di alcuni micrometeoriti con lo specchio principale, inevitabili e che non hanno comunque compromesso le capacità di osservazione del telescopio.

Nei prossimi anni i gruppi di ricerca potranno avere accesso agli strumenti del JWST per studiare galassie e mondi lontani, non sempre scopriranno cose semplici da comprendere per i semplici appassionati o curiosi di cosa accade nel nostro vicinato galattico o di galassie flebili e remote, ma ciò non impedirà di cogliere la spettacolarità del cosmo grazie alle immagini variopinte e ricche di dettagli derivanti dalle loro osservazioni. In oltre 30 anni di servizio, Hubble ha cambiato profondamente il nostro modo di pensare l’infinità siderale e il James Webb Space Telescope avrà un ulteriore forte impatto su come vediamo l’Universo e in ultima istanza noi stessi.