Il crollo sulla Marmolada, secondo la prima ricostruzione scientifica

L'Istituto di Scienze Polari del CNR ha ipotizzato come sia avvenuto usando dati meteorologici e immagini satellitari

Il ghiacciaio della Marmolada prima e dopo il crollo del 3 luglio 2022, nella ricostruzione dell'Istituto di Scienze Polari del CNR: a destra una fotografia delle 13.30, a sinistra delle 14.20 (Dati Regione Autonoma di Trento, ARPAV, Meteotrentino, Webcam Porta Vescovo Dolomiti)
Il ghiacciaio della Marmolada prima e dopo il crollo del 3 luglio 2022, nella ricostruzione dell'Istituto di Scienze Polari del CNR: a destra una fotografia delle 13.30, a sinistra delle 14.20 (Dati Regione Autonoma di Trento, ARPAV, Meteotrentino, Webcam Porta Vescovo Dolomiti)
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Sulle Alpi ci sono ghiacciai che vengono sorvegliati costantemente perché è noto che per come sono fatti alcuni loro pezzi potrebbero staccarsi e crollare, ma quello della Marmolada non era uno di questi: a memoria storica, non era mai successo che un grosso pezzo del ghiacciaio cadesse come è successo domenica, quando almeno 10 persone – probabilmente 11 – sono morte. Il crollo è stato imprevisto e inizialmente non era chiaro come fosse avvenuto, ma nel giro di alcuni giorni gli scienziati dell’Istituto di Scienze Polari (ISP) del CNR hanno realizzato una prima ricostruzione della dinamica di ciò che è successo.

In breve: la presenza di molta acqua liquida sul ghiacciaio ha fatto staccare, ha spinto e poi ha fatto scivolare a valle una estesa porzione di ghiaccio, quasi un terzo di una placca con una superficie di 26mila metri quadrati.

Tecnicamente la parte di ghiacciaio che è caduta non era un “seracco”, termine molto utilizzato nelle prime ore dopo il crollo che indica blocchi di ghiaccio molto staccati dal corpo principale di un ghiacciaio. Era invece una placca glaciale che solo negli ultimi anni si è divisa dal corpo principale del ghiacciaio a seguito della sua frammentazione.

(Ricostruzione dell’Istituto di Scienze Polari del CNR – F. De Blasi, J. Gabrieli, Carlo Barbante, R. R. Colucci, J. Marzaro – realizzata utilizzando dati della Regione Autonoma di Trento, dell’ARPAV, di Meteotrentino e della Webcam Porta Vescovo Dolomiti)

Da dove arrivava l’acqua? Dal ghiacciaio stesso. «Abbiamo fatto un’analisi climatico-meteorologica, prendendo in considerazione le medie mensili di temperature e precipitazioni registrate alla stazione di Pian dei Fiacconi per maggio e giugno 2022, e le immagini satellitari che mostravano la copertura nevosa», racconta Fabrizio De Blasi, assegnista di ricerca dell’ISP tra gli autori della ricostruzione. Nei due mesi la temperatura media è stata di 2 gradi superiore alla media del periodo tra il 2008 e il 2021, e per quanto riguarda le precipitazioni nevose invernali, il trimestre tra lo scorso dicembre e febbraio è stato uno dei dieci più secchi e più caldi dal 1921: «La somma di questi due eventi negativi, le temperature particolarmente alte a inizio estate accompagnate da un alto grado di “scopertura” del ghiaccio, la stessa che si solito si vede ad agosto, ha sottoposto il ghiacciaio a uno stress enorme e per questo il tasso di fusione del ghiaccio era molto alto».

L’acqua prodotta dalla fusione è probabilmente penetrata all’interno di crepacci, grandi fessure nella superficie del ghiaccio, da un lato creando una pressione sul ghiaccio sottostante, dall’altro facendo da lubrificante tra questo e la roccia al di sotto.

(Ricostruzione dell’Istituto di Scienze Polari del CNR)

La placca di ghiaccio crollata, spiega De Blasi, si trovava in un punto particolare della montagna. «Era appoggiata sulla roccia in corrispondenza di un cambio di pendenza: nella parte a valle la pendenza era di oltre 30 gradi, a monte invece attorno a 20 gradi secondo le misurazioni in superficie». Per questo è probabile che negli anni si fosse formato un crepaccio che negli ultimi mesi si era riempito d’acqua. L’ipotesi dovrà essere confermata da ulteriori misurazioni e studi sul ghiacciaio.

(Ricostruzione dell’Istituto di Scienze Polari del CNR)

«Per il momento è difficile dire se altre porzioni del ghiacciaio siano a rischio di crolli», aggiunge De Blasi, «anche se è possibile che il seracco che si è formato domenica possa esserne soggetto».

I ghiacciai delle Alpi dove i crolli sono più probabili si trovano nelle Alpi occidentali: il principale «osservato speciale» è quello di Planpincieux, in Valle d’Aosta, a pochi chilometri dalla popolare località turistica di Courmayeur. Viene monitorato attentamente da anni da un sistema di rilevamento automatico in tempo reale e proprio e in certe condizioni meteorologiche – l’ultima volta è successo lunedì, per via di un temporale – vengono diffuse allerte per garantire la sicurezza nelle zone circostanti.

Con l’aumento di «fenomeni estremi» legati al cambiamento climatico come quello avvenuto sulla Marmolada è tuttavia possibile che altri crolli avvengano su ghiacciai storicamente meno interessati dal fenomeno. «Non possiamo impedirli», conclude De Blasi, «ma possiamo cambiare la nostra prospettiva facendo diverse valutazioni sui rischi».

– Leggi anche: Il ghiacciaio della Marmolada ci sarà ancora per 30 anni