I problemi dei media con il Web3

Una copertura poco critica delle notizie sull'evoluzione di internet legata a criptovalute e metaverso rischia di provocare un entusiasmo ingiustificato

(Vittorio Zunino Celotto/Getty Images)
(Vittorio Zunino Celotto/Getty Images)
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A marzo il New York Times pubblicò un articolo che si presentava come una «guida per gli ultimi arrivati del crypto», il settore legato alla blockchain e alle sue applicazioni, dalle criptovalute ai Non-Fungible Token (NFT). L’autore del pezzo, il giornalista di tecnologia Kevin Roose, precisava di seguire questo settore da ormai dieci anni e di sapere quanto il dibattito a riguardo fosse polarizzato tra chi pensa che «stia salvando il mondo» e chi lo considera una «truffa». A mancare, secondo Roose, era «una spiegazione sobria e fredda di che cos’è davvero il crypto: come funziona, a chi è rivolto».

Nonostante l’intento chiarificatore e neutrale, la guida fece molto discutere. Alcuni osservatori particolarmente scettici nei confronti di queste tecnologie la giudicarono poco precisa nel sottolineare le criticità e i rischi legati al crypto. Molly White, programmatrice e autrice del seguito blog Web3 is going great, dove raccoglie le notizie sui problemi del Web3, un’ipotetica nuova versione di internet di cui le criptovalute sarebbero una parte importante, rispose all’articolo con una sua versione «corretta» a cui parteciparono più di dodici esperti.

Secondo loro, l’articolo di Roose era «una pubblicità appena velata per le criptovalute che non sembra aver ricevuto la giusta dose di fact-checking o scrutinio editoriale», finendo per «ripetere acriticamente molti argomenti discutibili o del tutto falsi». Il giornalista del New York Times aveva risposto alle critiche sottolineando l’importanza di aprirsi a questo settore, senza preconcetti o eccessivo pessimismo. In un tweet ora cancellato, aveva paragonato la situazione odierna del crypto a quella dei social media lo scorso decennio, quando «gli scettici» si convinsero che i social network non avrebbero mai avuto successo, li ignorarono, «per poi capire che avevano dei grandi problemi». L’eccesso di scetticismo e di critica, secondo l’autore, sarebbe controproducente se si vogliono capire e risolvere i problemi che affliggono un settore nascente.

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L’idea che i media abbiano assunto un atteggiamento di cieco scetticismo nei confronti del settore è molto diffusa tra i sostenitori delle criptovalute. A ben guardare, però, proprio i media sembrano aver avuto un ruolo attivo, per quanto spesso involontario, nella loro ascesa, alimentando un interesse ed entusiasmo – hype, come si dice solitamente in inglese – mediatico che ha aiutato la loro diffusione. Nel giugno del 2011, il sito Gawker pubblicò ad esempio un articolo su Silk Road, il mercato del «dark web» poi chiuso dall’FBI nel 2014, presentato come «il sito dove comprare ogni droga immaginabile».

Anche se il suo intento era puramente giornalistico, l’autore dell’articolo, Adrian Chen, finì con l’introdurre molti curiosi a Bitcoin, la moneta di scambio di Silk Road, tanto da far salire la sua quotazione da 9 a 32 dollari in una settimana. Tra le persone che conobbero Bitcoin grazie a Gawker ci fu anche Vitalik Buterin, futuro creatore di Ethereum, oggi la seconda blockchain più usata al mondo.

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L’intera storia di Bitcoin e del settore crypto può essere vista come una serie di pubblicità involontarie simili a questa, fatte di articoli e post, spesso pubblicati sulla base di comunicati stampa particolarmente trionfali e poco precisi, in un circolo di contenuti che ha contribuito ad accrescere la curiosità attorno a questo mondo. Anche in quei casi in cui i giornali sono sembrati incapaci di spiegare concretamente e oggettivamente benefici attuali e potenziali di tecnologie come la blockchain, molto spesso definiti in termini piuttosto vaghi e ipotetici.

Questo meccanismo non riguarda solo i media. Negli ultimi due anni, per esempio, l’imprenditore Elon Musk si è dimostrato in grado di influenzare il mercato con il suo profilo Twitter, causando la crescita del valore di Bitcoin ma anche di Dogecoin, una criptovaluta nata come parodia del settore ma presto diventata oggetto di speculazione. È quello che il giornalista di Bloomberg Austin Carr ha definito «il ciclo dell’hype di Elon Musk», che consiste in: «Cominciare con promesse incredibili, seguite da ritardi, una fase infernale di produzione, la rabbia degli azionisti e, finalmente, si spera, la redenzione». Un alleato prezioso, in questo ciclo dell’attenzione, è proprio il mondo dei media, che ha riportato fedelmente i proclami ambiziosi delle sue aziende, non sempre con la dovuta dose di critica.

Musk ha anche aperto la strada a un nuovo gruppo di celebrità, attori e musicisti che nell’ultimo anno hanno appoggiato pubblicamente prodotti crypto, soprattutto gli NFT. Lo scorso gennaio, Paris Hilton era stata ospite della trasmissione televisiva statunitense condotta da Jimmy Fallon, durante la quale i due avevano parlato di una loro recente passione in comune: gli NFT, in particolare la linea Bored Ape Yacht Club. Il risultato è stato uno scambio surreale che non è sembrato entusiasmare il pubblico in sala, e che è stato largamente deriso online.

La lista di persone famose che si sono avvicinate agli NFT include anche Reese Witherspoon, Gwyneth Paltrow, Logan Paul, Eminem e Keanu Reeves, tra gli altri. Non sempre però l’interesse è genuino: come ricostruito dal giornalista Max Read, infatti, alcune di queste personalità sono rappresentate dall’agenzia di management Creative Artists Agency (CAA), che ha recentemente investito in OpenSea, la principale piattaforma per lo scambio di NFT (Witherspoon è sposata con un agente di CAA). Anche l’attore Ashton Kutcher, altro sostenitore del settore, ha investito in OpenSea attraverso la sua azienda Sound Ventures, che ha legami finanziari con linee di NFT di particolare successo tra le personalità di Hollywood, come Bored Ape Yacht Club e World of Women.

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Ma se il conflitto d’interessi tra investitori e personalità pubbliche nel settore del crypto riguarda principalmente il mondo dello spettacolo, esiste anche nel giornalismo. Già nel 2017 la giornalista Adrianne Jeffries sul sito The Outline aveva sostenuto che «probabilmente tutti nel settore dei media legati ai Bitcoin possiedono Bitcoin», un fattore che da solo minava l’indipendenza di giudizio di queste fonti di informazione.

Attorno alla blockchain e alle sue applicazioni sono sorte numerose testate di settore, che nella maggioranza dei casi non prevedono norme deontologiche sugli investimenti. «Conflitti di interessi tra investitori, pubblicitari e fonti» scriveva Jeffries «sono arrotolati nel mondo non supervisionato del giornalismo sui Bitcoin, e quasi tutti hanno lo stesso incentivo. Se Bitcoin cresce, tutta questa mini-industria ci guadagna».

Lo stesso Roose, nel 2021, aveva sperimentato direttamente con il settore trasformando un suo articolo per il New York Times in un NFT, venduto per 300 ether, o circa mezzo milione di dollari (oggi varrebbero 330 mila dollari), poi donati a un fondo benefico del quotidiano. Qualche mese dopo Associated Press, tra le agenzie di stampa più note e autorevoli al mondo, annunciò la messa in vendita di un NFT «commemorativo» di una fotografia di Anja Niedringhaus, raffigurante una nave di migranti in mezzo al mar Mediterraneo vista dall’alto. Dopo molte proteste e critiche, il progetto fu ritirato da AP.

In questo senso, il settore del crypto sembra amplificare ed estremizzare le logiche di un altro mondo che deve parte del suo successo all’hype mediatico: quello tecnologico e digitale. Negli ultimi mesi, in cui varie aziende a partire da Meta – quella che controlla Facebook e Instagram – hanno presentato i loro più o meno imponenti piani riguardo al metaverso, il mondo virtuale in cui progettano di trasferire parte della vita lavorativa e privata delle persone, è successo di frequente che i media riprendessero questi proclami senza contestualizzarli e attribuire loro le giuste proporzioni. A molti potrebbe essere apparso insomma che il metaverso sia imminente e inevitabile, quando al momento, in realtà, di fatto non esiste.

In un’analisi pubblicata da NiemanLab, sito che si occupa di questioni legate al giornalismo, gli studiosi Lee Vinsel e Jeffrey Funk hanno spiegato come un certo tipo di copertura entusiasta e ingenua abbia finito per creare un «falso ottimismo» in grado di condizionare il mercato. Uno degli effetti sono le quotazioni societarie molto più alte di quelle degli anni Novanta, anche se «le nuove aziende sono semplicemente molto meno profittevoli di quelle di un tempo».

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L’interesse mediatico associato al modello di investimento dei venture capitalist, che investono grandi somme correndo notevoli rischi, ha originato startup dal grande impatto sociale ed economico, ma che non sono in grado di generare utili. Il simbolo di questo tipo di società è Uber, che nella sua breve vita ha accumulato circa 30 miliardi di dollari di perdite. Secondo i due autori, «la maggior parte di queste aziende non risaliranno mai dal buco che si sono scavate», ma grazie a una narrazione forte, una mission ambiziosa, per quanto insostenibile, continuano a convincere gli investitori.

Complice anche il contesto economico odierno, particolarmente punitivo per le aziende del settore tecnologico, «la macchina dell’hype tecnologico ha puntato verso le tecnologie più tristi di tutte: gli NFT, il Web 3.0 e il metaverso di Facebook». Il crypto è servito, secondo Vinsel e Funk, a dirottare l’interesse mediatico ed economico verso nuovi bersagli dopo che altre innovazioni oggetto di particolare entusiasmo, come le macchine che si guidano da sole e le intelligenze artificiali, «avevano perso il loro lustro».