• Mondo
  • Sabato 2 luglio 2022

La Cina è gelosa di chi traduce i suoi documenti

Poter decidere cosa c'è scritto nei testi ufficiali diffusi all'estero è un vantaggio importante, come sanno molti regimi autoritari

(Luo Xuefeng/Xinhua via ZUMA Press)
(Luo Xuefeng/Xinhua via ZUMA Press)
Caricamento player

Nelle ultime settimane tra gli esperti occidentali che si occupano di Cina e su vari media si è parlato dell’importanza politica delle traduzioni di documenti e testi e del ruolo che la loro diffusione ha sull’immagine internazionale della Cina. In Occidente da alcuni mesi un gruppo di attivisti ha iniziato a tradurre dal cinese documenti ufficiali e post sui social network e a diffonderli online, ottenendo una grande attenzione: gli attivisti accusano il regime cinese di usare il divario linguistico per controllare in maniera surrettizia l’immagine del paese, e nascondere la retorica nazionalista e bellicosa che è prevalente al suo interno.

Il loro lavoro ha avuto così tanto successo da attirare l’attenzione dei media nazionalisti cinesi, che hanno ribaltato l’accusa e sostenuto che piuttosto sia l’Occidente a usare in maniera selettiva e intenzionale le traduzioni di testi cinesi per mettere il paese in cattiva luce.

Il caso che è diventato più noto in queste settimane è quello del Great Translation Movement, un gruppo di attivisti anonimi che prima su Reddit e poi su Twitter ha cominciato a tradurre in inglese documenti ufficiali, articoli e titoli dei media di stato cinesi e soprattutto moltissimi post pubblicati sui social network cinesi, con l’intento, hanno detto gli attivisti all’Atlantic, di mostrare «la vera faccia della Cina», in cui la retorica promossa all’interno del paese «è sempre più nazionalista».

Un esempio raccontato dall’Atlantic è quello di Han Yang, un cittadino australiano di origini cinesi che qualche mese fa era stato invitato in un gruppo di WeChat (il servizio di messaggistica più diffuso in Cina) di persone che come lui fanno parte della diaspora cinese in Australia. Il gruppo era pieno di teorie cospirazioniste, commenti antisemiti, e soprattutto moltissima propaganda russa: l’invasione russa dell’Ucraina era appena cominciata, e i membri del gruppo ritenevano che fosse interesse della Cina – e dunque, apparentemente, anche il loro – schierarsi al fianco del regime di Putin e contro l’Occidente.

Tra le altre cose, un membro della chat annunciava che avrebbe fatto la spesa in un alimentari russo per sostenere lo sforzo bellico (ma era molto preoccupato che il cibo russo non gli sarebbe piaciuto), mentre altri postavano meme e fake news contro l’Ucraina e gli Stati Uniti, definendo il presidente russo Vladimir Putin un «genio».

Han Yang, pur non facendo parte del Great Translation Movement, cominciò a tradurre le parti più notevoli di quelle chat, eliminando i nomi e tutti i riferimenti personali, per dare l’idea di cosa si dicesse a proposito della guerra in Ucraina in un gruppo piuttosto popolare nella comunità cinese di un paese occidentale. I suoi tweet ottennero notevole successo, a tal punto che furono notati anche in Cina: a fine marzo il Global Times, un giornale di stato noto per le sue posizioni nazionaliste e molto aggressive, citò Han per nome e lo accusò di cospirare per rovinare la reputazione della Cina e perfino rovesciare il governo del paese.

Da quel momento in avanti, il Global Times ha pubblicato vari articoli sulla questione delle traduzioni, accusando non meglio precisate «forze anti Cina» di lavorare selettivamente e in malafede per rovinare la reputazione del paese. Tra le accuse, c’era quella di tradurre i post sui social di pochi individui estremisti facendoli passare per l’opinione del governo, o di compiere di proposito errori nel processo di traduzione, per mettere in cattiva luce il Partito comunista.

Traduzioni e autoritarismo
Il dibattito sulle traduzioni non è certo nuovo. La fedeltà delle traduzioni – di documenti ufficiali, discorsi pubblici, conversazioni private, media e propaganda – è una questione importante per le diplomazie di tutto il mondo, ed è una preoccupazione rilevantissima, per esempio, per le imprese che lavorano all’estero, che devono sorvegliare minuziosamente le traduzioni di contratti e documenti.

Anche le accuse fatte contro il regime cinese dal Great Translation Movement non sono poi una novità: è comune che i governi tentino di controllare che tipo di informazioni viene diffuso all’estero sul loro paese, e che lo facciano anche tramite la traduzione selettiva di alcuni documenti. Ma è vero che le incomprensioni e i problemi più frequenti capitano nei rapporti e nelle comunicazioni con i regimi autoritari, dove censura e propaganda hanno un ruolo più rilevante e sono strumenti usati costantemente dai governi per mantenersi al potere.

Per i governi autoritari, per esempio, è più importante che per altri avere due canali separati – uno all’interno e uno all’estero – per diffondere la propaganda. Differenziare i messaggi inviati all’opinione pubblica domestica e a quella internazionale può consentire a un regime di mostrarsi moderato all’estero e aggressivo e nazionalista all’interno: è quello che fece il regime nazista in Germania nel periodo precedente alla Seconda guerra mondiale, per esempio. In questo caso, controllare il flusso dei documenti ufficiali e le loro traduzioni può risultare molto utile.

Un regime autoritario che ha fatto uso selettivo delle traduzioni è quello di Vladimir Putin in Russia. Un episodio emblematico in questo senso è stato raccontato da Masha Gessen, giornalista statunitense di origini russe, nel suo libro L’uomo senza volto: nel 2002 Vladimir Putin si trovava a Bruxelles quando un giornalista di Le Monde gli fece una domanda sul perché l’esercito russo stesse usando l’artiglieria pesante contro i civili nella guerra in Cecenia (dove, secondo la propaganda russa, l’esercito stava combattendo contro estremisti islamici). Putin rispose, in russo: «Se lei è pronto ad aderire all’islam radicale e a farsi circoncidere la invito a venire a Mosca. Siamo un paese dalle molte religioni. Abbiamo una certa esperienza in questo. Farò in modo che l’operazione sia fatta in modo tale che lì non cresca più nulla».

In pratica, il presidente russo aveva minacciato di far castrare il giornalista francese, ma il traduttore non riportò l’intera frase, soltanto una perifrasi molto ridotta: «Lei è benvenuto, tutto e tutti sono tollerati a Mosca». I media occidentali presero la versione del traduttore per buona, e la minaccia non divenne pubblica in Occidente per molto tempo. Ma il video dello scambio divenne virale ed eccezionalmente diffuso in Russia.

Traduzioni e Cina
La questione delle traduzioni è probabilmente ancora più evidente nei rapporti con la Cina, a causa del più ampio divario linguistico e del fatto che le persone in Occidente che sanno il cinese in maniera fluente, benché numerose in termini assoluti, sono molto poche in relazione alla popolazione del paese e alla quantità di documenti e testi che vengono prodotti.

Anche sulle difficoltà di traduzione con la Cina ci sono aneddoti famosi: uno dei più celebri riguarda Henry Kissinger, celebre diplomatico americano e consigliere per la Sicurezza nazionale che organizzò lo storico viaggio del presidente Richard Nixon in Cina, che consentì la riapertura dei rapporti diplomatici tra i due paesi.

Nel 1972 Kissinger, appassionato di storia, chiese al premier cinese Zhou Enlai cosa ne pensasse della Rivoluzione francese. Zhou rispose: «È ancora troppo presto per dirlo», e questa risposta provocò un enorme effetto in Kissinger, che vide in Zhou e nei leader del Partito comunista gli eredi di una civiltà antichissima e raffinata, al punto tale da considerare troppo recente un evento del 1789. La frase di Zhou, celeberrima, divenne il simbolo dell’eccezionale lungimiranza della classe politica cinese, la cui conoscenza ed esperienza affonda in millenni di storia.

Peccato che fosse tutto un errore di traduzione, che nessuno in Cina si prese la briga di correggere. Quando Kissinger gli chiese della Rivoluzione francese, Zhou pensò che si riferisse ai moti di protesta che stavano avvenendo in Francia in quegli anni, nel 1968, e che in Cina erano definiti appunto come una “rivoluzione”. Il premier cinese non stava facendo riferimento a fatti avvenuti 200 anni prima, ma a questioni d’attualità: lo confermò, decenni dopo, anche uno dei traduttori presenti.

Henry Kissinger e Zhou Enlai a Pechino nel 1972 (Xinhua/ZUMAPRES)

Una delle questioni che rendono i problemi di traduzione con la Cina più intricati è l’ampio divario linguistico con l’Occidente: il cinese è una lingua piuttosto complicata da tradurre, che richiede una certa abilità perché le sue molte sfumature possono creare ambiguità quando tradotte in inglese o in italiano.

Michael Pillsbury, analista americano che per molto tempo ha lavorato in varie amministrazioni americane come esperto di Cina, nel suo libro The Hundred-Year Marathon racconta in maniera piuttosto vivida la difficoltà di tradurre dal cinese i discorsi e i documenti ufficiali del Partito comunista, che spesso sono molto fioriti o estremamente burocratici, o pieni di riferimenti letterari e storici difficili da interpretare a meno di avere un’esperienza amplissima.

«Purtroppo, la maggior parte dei cosiddetti esperti di Cina negli Stati Uniti parlano solo poche parole di cinese – abbastanza per fingere competenza alla presenza di chi non parla la lingua fluentemente. Questo fa in modo che i presunti “esperti” di Cina finiscano per interpretare i messaggi cinesi soggettivamente, in modo che si adattino alle loro teorie». In un altro punto del libro, Pillsbury nota come lo stesso governo americano abbia compreso che le risorse dedicate alla traduzione di fonti cinesi siano troppo poche, e che di conseguenza «la conoscenza della percezione che i leader e la popolazione cinese hanno degli Stati Uniti è estremamente limitata».

Il punto, secondo Pillsbury, è che i leader cinesi fanno consapevolmente uso di questa ambiguità e difficoltà di traduzione per modulare in maniera selettiva il proprio messaggio, fornendone all’estero un’interpretazione più moderata di come non sia percepito in Cina.

Un elemento di cautela: Pillsbury è molto noto negli Stati Uniti per le sue posizioni dure sulla Cina, è stato un consigliere dell’amministrazione di Donald Trump ed è uno degli studiosi a cui è stata attribuita la svolta più decisa della politica americana contro la Cina. Anche il suo libro, The Hundred-Year Marathon, è considerato uno dei più importanti per i “falchi” americani, cioè per i funzionari più duri con la Cina, benché abbia avuto ampia diffusione: per questo le sue posizioni, benché influenti, vanno sempre prese con le molle.

I ragionamenti di Pillsbury sulle traduzioni e su come il regime cinese spesso ne faccia uso a proprio vantaggio, tuttavia, sono condivisi da molti esperti.

Lo si vede per esempio in uno studio appena pubblicato sulla rivista Foreign Policy Analysis (qui si può leggere una versione riassunta), in cui la ricercatrice Sabine Mokry ha confrontato per anni i comunicati pubblicati da varie istituzioni pubbliche cinesi con la loro traduzione ufficiale in inglese, realizzata dalle istituzioni stesse.

Vari ministeri ed enti pubblici cinesi, infatti, traducono autonomamente in inglese i propri comunicati e documenti, e li rendono pubblici online. Questi documenti sono spesso usati da analisti ed esperti come fonti primarie, ma secondo Mokry spesso le due versioni, quella cinese e quella inglese, non combaciano.

La ricercatrice ha individuato tre tipi di discrepanze nelle traduzioni: differenze minori, che non cambiano il significato della frase; differenze di gradazione, che non cambiano il significato ma lo amplificano o indeboliscono; e differenze sostanziali, che invece cambiano il significato. Queste differenze sono frequentissime: nel caso dei testi prodotti da certi enti sono anche un paio per documento, benché siano molte meno nei testi che ricevono più attenzione internazionale, come i discorsi del presidente Xi Jinping.

In generale, queste discrepanze tendono ad ammorbidire nella versione inglese aspetti nazionalistici e aggressivi presenti nelle versioni originali. Per esempio, la traduzione ufficiale di “China and the World in the New Era”, un documento programmatico di politica estera pubblicato nel 2019, dice che l’ONU «è al centro del sistema di governo globale». Ma la versione originale dice che l’ONU «è al centro dell’attuale sistema di governo globale», e questo cambia radicalmente la frase: al suo pubblico interno, la Cina sta dicendo che il sistema di governo globale potrebbe cambiare, e l’ONU perdere la sua importanza.

Un fatto notevole notato da Mokry è che tutte queste discrepanze e omissioni spariscono se si ignorano le traduzioni ufficiali del regime cinese e si usano invece sistemi automatici come Google Translate: il 94,5 per cento delle discrepanze che Mokry ha rilevato sui documenti ufficiali viene tradotto correttamente, e questo fa capire che molti dei cambiamenti fatti alle traduzioni ufficiali sono intenzionali.