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  • Mercoledì 29 giugno 2022

L’ultimo grande Brasile

La storia poco raccontata di come la Nazionale più famosa del calcio sfiorò il disastro e vinse la sua ultima Coppa del Mondo

di Pietro Cabrio

Ronaldo esulta dopo il gol segnato alla Turchia nelle semifinali dei Mondiali a Saitama (Alex Livesey/Getty Images)
Ronaldo esulta dopo il gol segnato alla Turchia nelle semifinali dei Mondiali a Saitama (Alex Livesey/Getty Images)
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«Perché sono pazzo» rispose l’allenatore brasiliano Luiz Felipe Scolari ad alcuni giornalisti, suoi connazionali, che gli avevano chiesto perché avesse portato Ronaldo ai Mondiali in Corea del Sud e Giappone. I quattro anni precedenti erano stati i più difficili nella carriera dell’attaccante brasiliano, e quindi anche per la sua nazionale. Per questo in tanti chiedevano che ai Mondiali andasse perlomeno anche Romario, attaccante allora trentaseienne che spesso veniva invocato dal tifo nei momenti di difficoltà. Era già successo nel 1994 che Romario venisse convocato ai Mondiali in extremis, e all’epoca il Brasile finì per vincerli, con quest’ultimo eletto miglior giocatore del torneo. Ma nel 2002 Scolari non ne voleva sapere, aveva altri piani.

Dal malore avuto la notte prima della finale dei Mondiali del 1998, e dalla conseguente sconfitta contro la Francia, Ronaldo non aveva avuto pace. Quando tornò in Brasile dopo la finale di Parigi, le sue immagini mentre scendeva zoppicando le scalette dell’aereo sulla pista di Rio de Janeiro fecero il giro del mondo.

Tra il 1998 e il 1999 giocò meno della metà delle partite che avrebbe dovuto giocare con l’Inter, e un terzo di quelle del Brasile. Il problema erano le ginocchia, appesantite e messe a rischio da una muscolatura potente e allo stesso tempo sproporzionata, la stessa che gli aveva permesso di diventare “il fenomeno” e di fare i suoi famosi doppi passi sul pallone, la finta con la quale poteva dribblare qualsiasi avversario.

Ronaldo festeggia la vittoria della Coppa UEFA con l’Inter nel 1998 (LaPresse)

Nella stagione successiva il ginocchio destro gli cedette due volte. Il 21 novembre 1999 si lesionò il tendine rotuleo durante Inter-Lecce di campionato. Si operò, saltò il resto della stagione e tornò giusto per la finale di andata di Coppa Italia contro la Lazio, la sera del 12 aprile 2000. Entrò a mezzora dal termine e poco dopo, facendo proprio un doppio passo, lo stesso ginocchio cedette definitivamente: le sue grida di dolore in campo arrivarono fino ai telespettatori che guardavano la partita in televisione.

L’infortunio fu gravissimo e il fisioterapista della nazionale brasiliana che andò a visitarlo raccontò in seguito che «la sua rotula era esplosa ed era finita in mezzo alla coscia». Ronaldo restò fuori quasi un anno e mezzo. Con l’Inter tornò in campo a settembre dell’anno successivo, continuando a fermarsi spesso per problemi muscolari.

L’Inter non lo aveva quasi mai avuto nei tre anni precedenti, ma in Brasile erano ancora più preoccupati. Sulla nazionale più famosa e vincente nella storia del calcio professionistico le pressioni sociali, economiche e sportive, allora come oggi, erano enormi, a maggior ragione dopo i Mondiali del 1998, che il Brasile avrebbe dovuto vincere e che invece perse malamente, anche per quello che accadde a Ronaldo la notte precedente alla finale, mai del tutto chiarito.

Edmundo, Rivaldo, Cafu e Roberto Carlos dopo la finale persa a Parigi (Ross Kinnaird/Allsport)

La qualità dei giocatori brasiliani dell’epoca rimaneva altissima, ed è opinione diffusa che dalla fine di quel ciclo il Brasile non abbia mai più raggiunto quei livelli di abbondanza di talenti che univano efficacia e spettacolarità come raramente si era visto prima. Era una “generazione d’oro” e il ricordo dei Mondiali del 1998 doveva essere cancellato, per non farla diventare una generazione di rimpianti. Ma anche con tutta la qualità a disposizione, c’era comunque un problema: mancava Ronaldo, una sorta di pietra angolare che faceva funzionare tutto il resto.

L’importanza di Ronaldo fu confermata dalla sua assenza nei quattro anni trascorsi fra le due Coppe del Mondo a cavallo tra i due secoli: il Brasile cambiò cinque allenatori, quando per una grande nazionale cambiarne uno soltanto è già sintomo di qualcosa che non funziona.

Dopo il veterano Mario Zagallo, che lasciò nel 1998, la federazione aveva puntato su Vanderlei Luxemburgo, che però non superò le Olimpiadi di Sydney 2000. Nel torneo olimpico fu infatti eliminato ai quarti di finale dal Camerun, che vinse ai supplementari giocando in nove contro undici. Luxemburgo fu sostituito per qualche mese da un suo collaboratore, Candinho, che nel 2001 lasciò a sua volta il posto a Émerson Leão, famoso per essere stato uno dei migliori portieri brasiliani. Leão tenne a mente le critiche rivolte a Luxemburgo e per rimediare all’assenza di Ronaldo richiamò l’eterno Romario e lo affiancò a Rivaldo, attaccante del Barcellona all’apice della carriera.

Ma anche questo tentativo andò male. Il Brasile fu eliminato dal modesto Honduras ai quarti della Coppa America del 2001 e la qualificazione ai Mondiali si fece sempre più problematica. Con Émerson Leão il Brasile aveva dovuto fare i conti con un problema piuttosto paradossale per la sua storia, la mancanza di gol. Il solo Romario non bastava — nonostante si fosse presentato segnando sette gol in due partite — e Rivaldo non dimostrava abbastanza personalità per reggere l’attacco del Brasile, anzi: ne subiva troppo le responsabilità.

Rivaldo protetto dalla polizia ecuadoriana prima di un Ecuador-Brasile a Quito (Mike Hewitt/Allsport)

Fu a questo punto che la federazione si rivolse a Scolari, nipote di immigrati veneti che nei vent’anni precedenti aveva allenato tra il Brasile e i paesi emergenti del Golfo Persico. Scolari aveva alcune idee e con poco tempo a disposizione le mise in pratica senza troppi timori. Scartò Romario fra molte critiche e mise Rivaldo in coppia con un fantasioso attaccante dallo stile tipicamente brasiliano, Edilson detto Capetinha, uno dei tanti giocatori del campionato brasiliano che Scolari coinvolse nella sua gestione. Fece inoltre grande affidamento sui due terzini di allora, tra i migliori al mondo nel loro ruolo: Roberto Carlos da una parte e Cafu dall’altra.

A fatica, ma il Brasile riuscì a qualificarsi ai Mondiali da terza sudamericana per soli tre punti, dietro Argentina ed Ecuador, e a pari merito con il Paraguay di Cesare Maldini. Il primo obiettivo era stato quindi raggiunto, e il secondo si stava avvicinando. Nel 2002 Ronaldo era tornato a giocare con l’Inter, anche se di quel suo ritorno si ricordano soprattutto le lacrime in panchina a Roma il 5 maggio 2002. Poche settimane prima era ricomparso anche in nazionale, giocando per un tempo in due diverse amichevoli. Nello stesso periodo il suo ritorno iniziò a essere sostenuto anche dagli sponsor, Nike in particolare, che in vista dei Mondiali lanciò una delle sue campagne più famose — The Secret Tournament — con il celebre spot diretto dal regista Terry Gilliam.

Nei mesi di convalescenza la federazione brasiliana aveva continuamente discusso con l’Inter sui metodi di recupero, anche con molta insistenza, perché dal ritorno di Ronaldo dipendeva il Mondiale. A maggio Scolari — che lo avrebbe portato con sé ad ogni costo, anche alla cieca — riuscì a farlo giocare un’ora in un’amichevole di preparazione contro la Malesia. Nonostante il livello irrilevante degli avversari, la sua presenza sembrò sistemare la squadra già da quella partita (in cui peraltro segnò un gol e fornì un assist nel 4-0 finale).

In Brasile, tuttavia, nessuno sembrava crederci: per quello che si era visto fino ad allora era una squadra brutta e tendenzialmente difensiva, cosa sempre difficile da accettare per la nazionale di calcio storicamente più spettacolare ed entusiasmante. Le agenzie di scommesse la davano come quarta favorita dietro Argentina, Francia e Italia, e Ronaldo era il decimo attaccante più quotato come miglior marcatore del torneo, dopo Trezeguet, Owen, Pauleta e Morientes, tra gli altri.

Uno dei membri dello staff della Nazionale brasiliana disse che in quel periodo Scolari «sembrava la persona più odiata del paese». Ma Scolari e il suo staff avevano inquadrato meglio di altri la situazione, si capì dopo.

L’inizio della prima edizione asiatica dei Mondiali era stata fissata prima del solito, il 31 maggio, poco dopo la conclusione dei grandi campionati europei: in Inghilterra e Spagna avevano finito di giocare neanche venti giorni prima, e con le finali di coppa alcuni erano stati impegnati fino al 15 maggio. C’era quindi il rischio che le nazionali con i giocatori più usurati dal calendario europeo potessero risentirne.

Fu anche per questo motivo che i ritiri di preparazione delle nazionali partecipanti furono piuttosto problematici. In quello dell’Irlanda a Saipan il capitano del Manchester United, Roy Keane, lasciò addirittura la squadra e il torneo prima ancora che iniziasse, dopo aver criticato duramente i metodi, le strutture di allenamento e la scarsa professionalità del gruppo. In altri ritiri, come quelli di Svezia e Danimarca, ci furono risse tra giocatori che condizionarono il rendimento nel torneo.

Nervosismo e affaticamento furono evidenti fin dalle prime partite dei gironi, che si conclusero con una serie di eliminazioni inaspettate. Lasciarono il torneo dopo appena tre incontri la Francia campione in carica, il Portogallo superato nel suo girone da Stati Uniti e Corea del Sud, la Croazia terza classificata quattro anni prima e persino l’Argentina di Marcelo Bielsa, grande favorita: tuttora una delle più grandi e inspiegabili delusioni, anche se in molti la attribuirono proprio alla stanchezza che non permise di mettere in pratica il tipico calcio intenso e propositivo di Bielsa.

Se da un lato ci furono tutte queste eliminazioni inaspettate — a cui poi si aggiunsero quelle di Italia e Spagna — dall’altro alcune nazionali meno quotate, e con meno giocatori usurati dalla stagione europea come Stati Uniti, Senegal, Corea del Sud e Turchia, raggiunsero i migliori piazzamenti della loro storia. Turchia e Corea del Sud arrivarono addirittura alle semifinali, in alcuni casi sostenute anche dai tanti errori arbitrali che segnarono quel torneo.

In tutto questo il Brasile, che nei mesi precedenti aveva avuto più problemi di tutti, non aveva smesso di averne anche dopo la qualificazione. Poco prima di decidere le convocazioni, per esempio, Scolari era andato in Spagna per incontrare Djalminha, talentuoso ma anche irrequieto trequartista che voleva avere con sé visti i problemi in attacco. Gli disse che per far parte della selezione avrebbe dovuto fare soltanto una cosa in quel finale di stagione: tenersi fuori da guai. Eppure, a pochi giorni dalle convocazioni, Djalminha litigò in allenamento con il suo allenatore al Deportivo La Coruña e gli tirò una testata. Risultato: Djalminha restò a casa e ai Mondiali ci andò un giovane del San Paolo che di nome faceva Kakà.

In realtà, però, Scolari aveva preso la strada giusta, sia nella disposizione più offensiva della squadra che nelle scelte dei suoi componenti. Il ritorno di Ronaldo aveva aggiustato l’attacco, con l’aggiunta del centravanti che tanto era mancato e che ora liberava Rivaldo di tante responsabilità, con benefici evidenti sul piano del gioco. Intorno a questi due orbitava il terzo attaccante titolare, talvolta trequartista: il ventenne Ronaldinho Gaucho, la cui carriera esplose definitivamente in quel Mondiale.

La qualità e l’efficacia del tridente d’attacco brasiliano venivano integrate dalle scorribande sugli esterni di Roberto Carlos e Cafu, due giocatori atleticamente superiori alla media, bravissimi nell’uno contro uno e inclini al gol, soprattutto il primo. Con queste caratteristiche, Roberto Carlos e Cafu diventavano a tratti il quarto e il quinto attaccante in campo.

Una tale portata offensiva richiedeva anche di essere bilanciata difensivamente dal resto della formazione, cosa che Scolari riuscì a fare molto bene. Dei tre difensori centrali, Lucio e Roque Junior erano quelli grandi e grossi, mentre il terzo, Edmilson, avrebbe potuto giocare a centrocampo in qualsiasi altra squadra, per la sua qualità tecnica (che dimostrò nel gol in mezza rovesciata alla Costa Rica). E infatti quando si presentava l’occasione avanzava di posizione, tra i centrocampisti di ruolo: Gilberto Silva, Kleberson (in sostituzione dell’infortunato Emerson) o Juninho Paulista, con quest’ultimo che poteva avanzare a sua volta. Quando invece i tre difensori restavano in linea, la loro copertura permetteva a Roberto Carlos e Cafu di spostarsi nella metà campo avversaria.

Nelle sette partite giocate ai Mondiali, Scolari fece giocare quasi tutti i convocati. Fu premiato fin da subito sia per l’insistenza con cui aveva voluto Ronaldo, capocannoniere a fine torneo con otto gol — compresi i due che decisero la finale — sia per aver convocato un folto gruppo di giocatori dal campionato brasiliano (12 su 23). Oltre a sostenere la rosa dei titolari “europei”, questi portarono freschezza e furono fondamentali nella gestione dei risultati, per esempio con l’ingresso a partita in corso di veri e propri giocolieri come Edilson e Denilson, che il pallone lo perdevano solo se esageravano con le giocate.

L’unità che si venne a creare in quella squadra fu impressa in una foto che tutti i giocatori vollero farsi insieme prima della finale di Yokohama contro la Germania, tra volti tesi e altri più rilassati.

In alto da sinistra: Lucio, Edmilson, Roque Junior, Gilberto Silva, Marcos, Kakà, Vampeta, Anderson Polga, Dida, Rogerio Ceni, Belletti, Ronaldinho, Ronaldo, Roberto Carlos, Kleberson, Rivaldo, Cafu, Junior, Ricardinho, Luizao, Edilson, Denilson, Juninho (AP Photo/Carlo Fumagalli)

La differenza in quel Brasile la fece la capacità offensiva, così ampia e variegata, e una qualità media paragonabile soltanto a quella vista in poche nazionali del passato, spesso brasiliane. Si creò così una squadra talmente dominante in attacco, e ben organizzata dietro — nei limiti del possibile — da potersi permettere di concedere più di qualcosa in difesa agli avversari.

Il Brasile del 2002 fu la prima nazionale a vincere i Mondiali dopo aver vinto sette partite in una sola edizione, cioè tutte quelle giocate tra Corea del Sud e Giappone. I diciotto gol segnati a Turchia, Cina, Costa Rica, Belgio, Inghilterra, di nuovo Turchia e poi in finale contro la Germania — in media due e mezzo a incontro — rimangono un record per le edizioni moderne dei Mondiali eguagliato soltanto dalla Germania del 2014, che però ne segnò sette soltanto in una partita (proprio contro il Brasile, o quello che ne rimaneva).

La squadra costruita da Scolari segnò per anni l’andamento del calcio internazionale. Dai Mondiali vinti in Giappone iniziò la seconda e ultima fase della carriera di Ronaldo, che quella stessa estate lascio l’Inter e passò al Real Madrid. Da lì iniziarono altre due grandissime carriere, quelle di Ronaldinho e di Kakà, che nel giro di due anni vennero comprati da Barcellona e Milan e portarono a tre il numero di Palloni d’Oro brasiliani successivi a quei Mondiali. E a cinquant’anni passati, anche per Scolari iniziò un’altra carriera, che lo portò a sfiorare gli Europei con il Portogallo appena due anni dopo, e poi al Chelsea e un po’ ovunque in giro per il mondo, tra Uzbekistan, Cina e qualche ritorno in Brasile.

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