Cosa succede dopo la scissione del M5S

Potrebbero esserci ripercussioni sul governo, anche se non nell'immediato, e anche sulle alleanze in vista delle prossime elezioni politiche

(ANSA/RICCARDO ANTIMIANI)
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L’uscita del ministro degli Esteri Luigi Di Maio e di diversi suoi alleati politici dal Movimento 5 Stelle, annunciata martedì sera, ha causato un discreto trambusto nella politica italiana, e avrà probabilmente alcune rilevanti conseguenze sull’ultimo anno della legislatura in corso.

Come ha sottolineato lo stesso Di Maio, il cambiamento più tangibile riguarda i numeri dei partiti in Parlamento. Con Di Maio hanno lasciato il Movimento 50 deputati e 11 senatori, che hanno aderito al nuovo gruppo politico “Insieme per il futuro”. Il nuovo organismo politico dovrebbe avere i numeri per formare un gruppo parlamentare autonomo sia alla Camera – dove servono 20 deputati – sia al Senato, dove ne bastano 10.

La sua formazione fa sì che il Movimento 5 Stelle non sia più il gruppo parlamentare più numeroso in Parlamento. In tutto ha conservato 165 parlamentari, fra 104 deputati e 61 senatori: una trentina in meno della Lega, che ieri è diventata quindi la prima forza in Parlamento con 193 parlamentari, di cui 132 deputati e 61 senatori. Al terzo posto è rimasta Forza Italia con 134 parlamentari, seguita a poca distanza dal Partito Democratico con 132.

La nascita di Insieme per il futuro ha insomma cambiato un po’ il panorama parlamentare, e indirettamente anche il governo. La Lega, che oggi esprime appena 3 ministri su 24, potrebbe chiedere di essere maggiormente rappresentata. Il Movimento 5 Stelle ha perso il suo principale referente nel governo – Di Maio – e diversi altri componenti dell’esecutivo che lo hanno seguito: i viceministri Pierpaolo Sileri (alla Salute) e Laura Castelli (Economia), oltre che i sottosegretari Manlio Di Stefano (Esteri), Anna Macina (Giustizia) e Dalila Nesci (Coesione territoriale), che nel complesso rendono probabilmente Insieme per il futuro sovrarappresentato.

Al momento però non sembra che il presidente del Consiglio Mario Draghi sia intenzionato a pensare a un rimpasto di governo. Repubblica scrive che «non muoverà neanche una pedina dell’esecutivo», intenzione che nei giorni scorsi avrebbe fatto capire anche ai principali partiti.

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Il rischio più concreto per il governo sembra però riguardare il Movimento 5 Stelle e cosa deciderà di fare nei prossimi mesi. Il capo del partito Giuseppe Conte ha orientato la propria leadership verso un ritorno a un maggiore radicalismo, che tra le altre cose si esprime in uno scetticismo sul forte sostegno garantito dal governo Draghi all’Ucraina (citato anche da Di Maio come uno dei principali punti di disaccordo con Conte). Proprio martedì, prima dell’annuncio di Di Maio, la notizia politica del giorno era stata l’accordo interno alla maggioranza su una risoluzione sulla guerra in Ucraina in vista del Consiglio Europeo dei prossimi giorni, arrivato dopo giorni di trattative per trovare una mediazione con l’ala del Movimento 5 Stelle vicina a Conte.

Secondo i retroscena politici per ora Conte ha escluso di lasciare la maggioranza e ritirare il proprio sostegno al governo Draghi, ma sempre più collaboratori e alleati politici glielo stanno consigliando apertamente. Martedì sera l’ex parlamentare del M5S Alessandro Di Battista, ancora molto popolare fra attivisti e sostenitori della prima ora, ha scritto su Facebook: «Ma come diavolo fate a stare ancora lì dentro? Uscite da quell’ignobile accozzaglia. Già non contavate nulla prima figuriamoci adesso. Ma è così difficile da capire?».

Più si avvicineranno le elezioni politiche, previste al momento per la primavera del 2023, più è plausibile che per ragioni elettorali i partiti cercheranno di distinguersi l’uno dall’altro. E per il Movimento 5 Stelle, in crisi di consensi ormai da anni, questo potrebbe significare lasciare il governo e passare gli ultimi mesi della legislatura all’opposizione. Sul Corriere della Sera il noto cronista politico Francesco Verderami ipotizza che Conte potrebbe «provare a scartare» durante la discussione sulla prossima legge di bilancio, prevista fra ottobre e novembre.

Senza il Movimento 5 Stelle il governo Draghi avrebbe comunque una maggioranza in Parlamento per governare: ma in quel caso bisognerebbe ricorrere a un rimpasto di governo, dato che al momento ci sono quattro ministri espressi dal Movimento, oltre a diversi viceministri e sottosegretari.

Più a lungo termine, l’uscita di Di Maio dal Movimento 5 Stelle rischia di compromettere anche l’operazione politica del cosiddetto “campo largo” che il segretario del PD Enrico Letta sta cercando faticosamente di portare avanti da mesi. Letta aveva immaginato una coalizione di centrosinistra che tenesse insieme il Movimento 5 Stelle, i partiti di sinistra e di centro. L’operazione era già molto complessa per l’ostilità fra M5S e partiti come Azione e Italia Viva, e oggi sembra ancora più complicata per il fatto che il M5S di Conte e il futuro eventuale partito di Di Maio difficilmente accetteranno di presentarsi alle elezioni nella stessa alleanza politica. Letta non a caso è stato descritto in questi giorni come uno dei più preoccupati dalla possibile scissione del M5S.

Molto di quello che succederà, e di come saranno organizzate le future alleanze, dipenderà da come Di Maio vorrà strutturare il suo nuovo organismo politico, se cioè vorrà renderlo un partito a tutti gli effetti e autonomo, oppure se sceglierà di creare un qualche tipo di coalizione più ampia. Nei giorni scorsi i retroscena politici avevano sostenuto che Di Maio avesse avviato delle trattative con altri leader politici per discutere di una possibile forza comune: il più citato è il sindaco di Milano Beppe Sala, che al momento fa parte dei Verdi, ma si è parlato anche del sindaco uscente di Parma Federico Pizzarotti, che aveva lasciato il M5S nel 2016, e di amministratori di centrodestra come il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro e il presidente della Regione Liguria, Giovanni Toti. La Stampa aveva osservato che per Di Maio «l’opzione migliore potrebbe essere quella di entrare in una forza nuova che aggreghi le anime liberali, ecologiste e moderate».