Sulle concessioni balneari il governo ha di nuovo rinviato le decisioni

La questione irrisolta più discussa riguarda come calcolare gli indennizzi per gli attuali gestori che perderanno i bandi

Il lungomare di Rimini (LaPresse/Massimo Paolone)
Il lungomare di Rimini (LaPresse/Massimo Paolone)
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Giovedì diversi esponenti del governo, tra cui il presidente del Consiglio Mario Draghi, hanno detto che la maggioranza ha raggiunto un accordo per la riforma delle concessioni balneari, una delle questioni su cui i partiti si sono maggiormente divisi negli ultimi mesi. In effetti un accordo c’è, ma soltanto per rimandare ai prossimi mesi i tentativi di risolvere il problema.

La riforma delle concessioni balneari è molto attesa e allo stesso tempo discussa per via dei notevoli effetti che avrà sul settore. Da anni la Commissione europea chiede all’Italia di intervenire per regolare le concessioni di un bene pubblico come le spiagge. Tutti i governi che si sono succeduti negli ultimi anni non hanno mai applicato la direttiva Bolkestein che impone di liberalizzare le concessioni, finora sempre prorogate senza gara: a differenza di molti altri beni pubblici, per cui lo Stato organizza periodicamente gare per la concessione al miglior offerente, le spiagge sono gestite da imprenditori che spesso le hanno ottenute decenni fa.

Le gare non sono mai state prese in considerazione perché, secondo gli ultimi governi, l’istituzione di bandi aperti a tutti, anche alle aziende straniere, avrebbe conseguenze ritenute troppo destabilizzanti sullo status quo, danneggiando economicamente i titolari attuali delle concessioni. Grazie alle proroghe, gli stabilimenti balneari hanno così continuato a pagare canoni di affitto molto ridotti. Secondo gli ultimi dati della Corte dei Conti, nel 2020 lo Stato ha incassato 92 milioni e 566mila euro per 12.166 concessioni “ad uso turistico” a fronte di un giro d’affari difficile da stimare con precisione, ma che negli ultimi anni è stato quantificato in 15 miliardi di euro all’anno dalla società di consulenza Nomisma. Questa stima è stata contestata da uno studio commissionato dal Sindacato Balneari in collaborazione con Confcommercio secondo cui il giro di affari ammonterebbe soltanto a un miliardo di euro.

Grazie ai dati pubblicati dal ministero delle Infrastrutture è possibile capire a quanto ammonta il canone annuo pagato da molti stabilimenti balneari italiani. I dati sono aggiornati a maggio 2021, quindi piuttosto recenti, e comprendono tutte le 12.166 concessioni ad uso turistico. In questa mappa si possono consultare i canoni. Per comodità sono evidenziate alcune delle località balneari più note. In alcune regioni, come in Sicilia, i dati relativi ai canoni annui non sono stati resi disponibili.

Nonostante i richiami europei, nel 2018 il primo governo guidato da Giuseppe Conte, sostenuto dalla Lega e dal Movimento 5 Stelle, aveva approvato la proroga delle concessioni fino al 2033. Come spesso accade, la situazione era stata sbloccata dal Consiglio di Stato che aveva deciso una proroga delle concessioni al massimo fino al 31 dicembre 2023. Ai gestori degli stabilimenti balneari erano stati concessi due anni di proroga per «evitare il significativo impatto socio-economico che deriverebbe da una decadenza immediata e generalizzata di tutte le concessioni in essere».

Il problema su cui i partiti non hanno trovato un accordo definitivo riguarda proprio i danni legati alla possibile perdita della concessione. Nelle ultime settimane c’è stato un ampio confronto sulle regole dei possibili indennizzi che dovranno essere riconosciuti agli imprenditori che perderanno la gestione delle spiagge.

Lega e Forza Italia chiedono che l’indennizzo sia basato sul valore dei beni materiali e immateriali, compreso l’avviamento commerciale, cioè un valore più realistico attribuibile all’azienda rispetto alla semplice somma dei valori di mercato dei beni che la compongono. Per stabilire il valore dei beni immateriali, come richiesto dal Movimento 5 Stelle, dovrebbe essere necessaria una valutazione fatta da un perito indipendente. Secondo il governo, invece, dovrebbe essere sufficiente indennizzare chi perde la concessione con il valore dell’impresa al netto degli investimenti fatti. Questo problema non è stato risolto: i partiti hanno deciso che sarà compito del governo approvare un decreto attuativo entro 6 mesi con le nuove regole.

Nel testo, che giovedì è stato approvato dalla commissione Industria e che lunedì sarà votato al Senato prima di passare alla Camera, sono stati eliminati tutti i riferimenti più contestati: avviamento, ammortamenti, valore aziendale residuo o effettivo, ricorso ai libri contabili o a una perizia giurata. L’unica certezza rimasta è che i risarcimenti saranno a carico dei nuovi concessionari. Tutto il resto è stato rimandato di sei mesi.

È stata confermata, invece, la scadenza delle concessioni fissata al 31 dicembre 2023, come indicato dalla sentenza del Consiglio di Stato. Se i tempi saranno rispettati, le gare dovranno essere bandite nei mesi precedenti. Ma già nelle scorse settimane i partiti si erano accordati per concedere un altro anno di tempo, fino al 31 dicembre 2024, nei casi in cui ci siano «ragioni oggettive» che impediscano lo svolgimento della gare. Tra le ragioni oggettive ci possono essere le difficoltà dei comuni nell’organizzazione delle gare internazionali oppure i ritardi nella definizione delle aree che saranno effettivamente messe a gara.

I rappresentanti dei gestori degli stabilimenti balneari hanno accolto con un certo malcontento il rinvio, soprattutto per via dell’incertezza causata dalle mancate regole sugli indennizzi. ​​«È vero, è stato trovato un accordo, ma non per salvare 30mila piccole imprese famigliari, tutelare il lavoro di 300mila lavoratori, salvaguardare un modello turistico che ci viene copiato e invidiato dai paesi a noi concorrenti», ha detto Fabrizio Licordari, presidente di Assobalneari, associazione legata a Confindustria. Secondo gli imprenditori, con le gare si favorisce l’arrivo di imprenditori stranieri che «si andranno ad accaparrare i gioielli più preziosi della nostra penisola per standardizzare un’offerta di prodotto che nulla avrà a che fare con ciò che gli italiani oggi conoscono e apprezzano».

Giovedì è stata confermata anche l’intesa che era stata raggiunta all’inizio di maggio sulla legge delega per la riforma del fisco, che era rimasta bloccata in commissione Finanze alla Camera a causa della discussa riforma del catasto. Il ministro per i Rapporti con il parlamento, Federico d’Incà, ha detto che la legge delega sarà esaminata dalla Camera a partire dal 20 giugno. L’accordo sulla riforma del catasto prevede che sia tolto ogni riferimento al valore patrimoniale degli immobili nel nuovo catasto, uno degli argomenti più contestati dei partiti di centrodestra.

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