I referendum sulla giustizia, spiegati

Quali sono i quesiti, cosa cambierebbero e cosa dicono sostenitori e oppositori in vista della consultazione prevista per il 12 giugno

Plenum del Csm, Roma, 17 giugno 2019 (Vincenzo Livieri - LaPresse)
Plenum del Csm, Roma, 17 giugno 2019 (Vincenzo Livieri - LaPresse)
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Il prossimo 12 giugno, oltre alle elezioni amministrative, si potranno votare anche i cinque referendum sulla giustizia promossi da Lega e Radicali. Alcuni hanno a che fare con l’ordinamento giudiziario e con temi che sono al centro della discussione da parecchio tempo, due riguardano invece profili specifici in materia di processo penale e di contrasto alla corruzione. Lega e Radicali avevano proposto un sesto referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, che però come quelli sull’eutanasia attiva e sulla cannabis è stato giudicato inammissibile dalla Corte Costituzionale.

I quesiti dei cinque referendum sulla giustizia si possono leggere per esteso qui. Sono referendum abrogativi, che chiedono cioè l’abrogazione totale o parziale di leggi o atti con valore di legge esistenti. Affinché il referendum sia valido deve essere raggiunto il quorum di validità: deve cioè partecipare alla votazione la maggioranza degli aventi diritto al voto. Dopodiché, affinché la norma oggetto del referendum stesso sia abrogata, la maggioranza dei voti validamente espressi deve essere “sì”.

Alcuni dei quesiti, peraltro, intervengono su questioni già affrontate dalla riforma strutturale della giustizia su cui sta ancora votando il parlamento. Dopo la riforma del processo penale e di quello civile, già approvate in via definitiva lo scorso settembre e lo scorso novembre, in aprile la Camera dei Deputati aveva infatti approvato anche la riforma che riorganizza in senso ampio il Csm. Ora il testo passerà al Senato e se verrà approvato potrebbero esserci delle conseguenze sia su alcuni referendum sia, in teoria, sulla stessa riforma (ci arriviamo).

Elezione dei membri “togati” del Csm
Il quesito riguarda le norme che regolano l’elezione dei cosiddetti membri togati del Consiglio superiore della magistratura, cioè quelli che sono a loro volta magistrati, modificando in particolare le modalità di presentazione delle candidature.

Il Csm è l’organo di autogoverno della magistratura. Ne fanno parte, per diritto, tre persone: il presidente della Repubblica, che lo presiede, il primo presidente e il procuratore generale della Corte di Cassazione. Gli altri componenti sono eletti per due terzi da tutti i magistrati (e sono i cosiddetti membri togati), per un terzo dal Parlamento in seduta comune (sono i componenti laici). Se oggi un magistrato si vuole proporre come membro del Csm deve raccogliere almeno 25 firme di altri magistrati a sostegno della sua candidatura.

Se vincesse il “sì” decadrebbe l’obbligo della raccolta firme e si tornerebbe alla legge originale che dal 1958 regola il funzionamento del Csm: il singolo magistrato potrebbe cioè presentare la propria candidatura in autonomia e liberamente senza il supporto di altri magistrati e senza, soprattutto, l’appoggio delle “correnti” politiche interne al Csm (alcune sono più centriste, altre più vicine alla sinistra oppure alla destra). L’obiettivo del referendum, dicono i promotori, è dunque ridurre il peso di queste correnti nell’individuazione dei candidati, evitare la lottizzazione delle nomine e rimettere al centro la valutazione professionale e personale del singolo al di là dei suoi diversi orientamenti politici.

Chi si oppone al referendum mette in dubbio il fatto che l’eliminazione dell’obbligo di presentare le firme possa essere risolutiva rispetto alla questione delle correnti, ritenendo che il referendum intervenga su una questione minima che non porterebbe a cambiamenti rilevanti. Giovanni Verde, professore emerito di Diritto processuale civile presso l’Università Luiss-Guido Carli di Roma, nel settimanale di documentazione giuridica del Sole 24 Ore ha poi spiegato che «non c’è legge elettorale che non preveda la presentazione di candidature in base a raggruppamenti. La stessa Costituzione riconosce la libertà di associarsi in “partiti” (articolo 49), che svolgono una funzione di necessaria mediazione. Nella magistratura questa funzione di mediazione era svolta dalle “correnti” (e continuerà a essere svolta, anche se si cambierà il nome, da inevitabili forme di associazione, che sperabilmente si realizzeranno intorno a ideali e non a interessi)».

Valutazione della professionalità dei magistrati
Il quesito chiede che la componente laica del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione e dei Consigli giudiziari non sia esclusa dalle discussioni e dalle valutazioni che hanno a che fare con la professionalità dei magistrati.

I magistrati vengono valutati dal Csm ogni quattro anni sulla base di pareri motivati, ma non vincolanti, elaborati dal Consiglio direttivo della Corte di Cassazione e dai Consigli giudiziari. Entrambi questi organi hanno composizione mista: oltre ai membri che ne fanno parte per diritto, sono formati da alcuni magistrati e poi da alcuni membri laici, cioè avvocati e in alcuni casi professori universitari in materie giuridiche. Avvocati e docenti partecipano come gli altri membri all’elaborazione di pareri su diverse questioni tecniche e organizzative, ma sono esclusi dai giudizi sull’operato dei magistrati, in base ai quali, poi, il Csm dovrà procedere per fare le valutazioni di professionalità. Solo i magistrati, dunque, hanno oggi il compito di giudicare gli altri magistrati.

Se vincesse il “sì”, i membri laici avrebbero diritto di voto in tutte le deliberazioni del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei Consigli giudiziari con l’obiettivo, secondo i proponenti, di rendere più oggettivi e meno autoreferenziali i giudizi sull’operato dei magistrati.

Chi è contrario a questo cambiamento sostiene che non sia opportuno affidare un ruolo attivo agli avvocati nel redigere pareri sui magistrati di cui, all’interno dei processi, rappresentano la controparte. Il rischio sarebbe quello di valutazioni preconcette o ostili. Dall’altra parte, potrebbero esserci conseguenze anche per i magistrati stessi se durante un processo si trovassero di fronte all’avvocato che poi potrà esprimere un parere molto importante sul suo lavoro e che avrà conseguenze sulla sua carriera professionale. Insomma, la modifica potrebbe mettere in discussione la terzietà del giudice.

Separazione delle funzioni giudicanti e requirenti dei magistrati
Il quesito è molto lungo e riguarda l’abrogazione delle numerose disposizioni che fondano o danno la possibilità ai magistrati di passare dalla funzione requirente alla funzione giudicante, o viceversa.

La funzione requirente è quella del pubblico ministero, che in un processo è il magistrato che rappresenta l’accusa. La funzione giudicante è quella del giudice, che è invece chiamato a giudicare ed è dunque super partes. Oggi i magistrati, nel corso della loro vita professionale, possono passare da una funzione all’altra con delle limitazioni e non più di quattro volte.

Se vincesse il “sì” si separerebbero nettamente le due funzioni: a inizio carriera il magistrato dovrebbe dunque scegliere o per la funzione giudicante o per quella requirente, senza più la possibilità di passare dall’una all’altra. Le ragioni a sostegno del referendum sono una maggiore equità e indipendenza che sarebbe garantita solo, dicono i promotori, da una netta separazione tra i magistrati che accusano e quelli che giudicano.

Si parla di questo tema da decenni. Chi è contrario alla modifica pensa innanzitutto che per una riforma così significativa e complessa il referendum abrogativo non sia il mezzo più adatto, e che la modifica normativa che ne deriverebbe porrebbe una questione di incompatibilità con la Costituzione, e dunque renderebbe necessaria una sua modifica. Nel Titolo IV dedicato appunto alla magistratura la Costituzione contiene principi e regole che si riferiscono indifferentemente a tutti i magistrati, sia giudici che pubblici ministeri.

Separare le funzioni, dicono i contrari al referendum, isolerebbe poi il pubblico ministero, allontanandolo dalla cultura della giurisdizione: nascerebbe cioè una cultura dell’indagine e dell’accusa autonoma, sganciata da ogni vincolo e ipoteticamente anche da ogni regola deontologica. Secondo questa impostazione il cambio di funzione, insomma, andrebbe considerato almeno in teoria come una cosa positiva per l’esperienza di un magistrato e dunque da preservare.

Limitazione delle misure cautelari
Il quesito referendario interviene per limitare i casi in cui è possibile disporre l’applicazione delle misure cautelari.

La custodia cautelare è la custodia preventiva (cioè una limitazione della libertà) a cui un imputato può essere sottoposto prima della sentenza. L’articolo 274 del codice di procedura penale elenca i casi che giustificano l’applicazione delle misure cautelari: pericolo di fuga, inquinamento delle prove, o quando sussiste il concreto e attuale pericolo che la persona «commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata o della stessa specie di quello per cui si procede». Quando, cioè, c’è il pericolo di reiterazione dello stesso delitto.

Se vincesse il “sì”, verrebbe eliminata l’ultima parte dell’articolo 274 del codice di procedura penale, e cioè la possibilità, per i reati meno gravi, di motivare una misura cautelare con il pericolo di reiterazione che, dicono i promotori, è la motivazione che viene oggi usata con maggiore frequenza per imporre prima di una sentenza definitiva una limitazione della libertà personale. I promotori sostengono che la custodia cautelare, da strumento di emergenza, si sia trasformato in una pratica abusata e che l’attuale norma, nella pratica, giustifichi quasi in automatico forme di restrizione della libertà anche in casi in cui l’imputato non è effettivamente pericoloso.

Chi è contrario alla modifica non nega che in Italia si faccia un ricorso frequente alla custodia cautelare, ma fa notare che l’articolo 274 stabilisce già dei limiti all’applicazione delle misure cautelari per il caso che il quesito del referendum chiede di abrogare: il codice, così com’è oggi, specifica che in caso di pericolo di reiterazione la custodia cautelare può essere disposta solo se si tratta di delitti che prevedano una reclusione non inferiore a quattro anni o di almeno cinque anni per la custodia cautelare in carcere.

Su Micromega l’ex magistrato e senatore di Rifondazione Comunista Domenico Gallo ha osservato che il quesito non interverrebbe solo sulla custodia cautelare in carcere e sugli arresti domiciliari, ma anche sulle altre forme di misure cautelari come l’obbligo o il divieto di soggiorno, l’allontanamento dalla casa familiare, il divieto di avvicinamento nei luoghi frequentati dalla persona offesa, il divieto temporaneo di esercitare una professione o un’impresa, la sospensione della potestà genitoriale e altro ancora.

Abolizione del decreto Severino
Il quesito referendario chiede di abrogare il decreto legislativo numero 235 del 31 dicembre 2012 che prevede una serie di misure per limitare la presenza di persone che hanno commesso determinati reati nelle cariche pubbliche elettive.

Il decreto legislativo che il referendum vuole abrogare è meglio conosciuto come “decreto Severino”, dal nome della ministra della Giustizia del governo Monti. Stabilisce il divieto di ricoprire incarichi di governo, l’incandidabilità o l’ineleggibilità alle elezioni politiche o amministrative, e la conseguente decadenza da tali cariche, per coloro che vengono condannati in via definitiva per determinati reati, anche se commessi prima dell’entrata in vigore del decreto stesso. Per quanto riguarda, ad esempio, le cariche di deputato, senatore e membro del Parlamento Europeo la condanna che fa scattare l’applicazione della legge è a più di due anni di carcere per reati di allarme sociale (come mafia o terrorismo), per reati contro la pubblica amministrazione (come peculato, corruzione o concussione) e per delitti non colposi per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore a 4 anni. Il decreto Severino stabilisce poi dei criteri anche per quanto riguarda l’incandidabilità alle cariche elettive regionali o negli enti locali. Prevede, infine, in caso di condanna non definitiva, la sospensione dalla carica in via automatica per un periodo massimo di 18 mesi, cosa che è stata di recente giudicata legittima dalla Corte costituzionale.

Se vincerà il “sì” anche ai condannati in via definitiva verrà concesso di candidarsi o di continuare il proprio mandato e verrà cancellato l’automatismo della sospensione in caso di condanna non definitiva. Come succedeva fino al 2012, e cioè prima dell’entrata in vigore del decreto Severino, torneranno a essere i giudici a decidere, caso per caso, se in caso di condanna sia necessario applicare o meno come pena accessoria anche l’interdizione dai pubblici uffici. I promotori del referendum sostengono che i meccanismi del decreto Severino e in particolare l’automaticità della sospensione in caso di condanna non definitiva siano non solo inefficaci, ma anche dannosi per le persone coinvolte: dicono, nello specifico, che la decadenza automatica di sindaci e amministratori locali condannati ha creato finora «vuoti di potere» e ha portato alla sospensione temporanea dai pubblici uffici di innocenti poi reintegrati al loro posto.

Chi si oppone all’abrogazione sostiene che le motivazioni con cui questo quesito referendario viene presentato si concentrano molto sulla necessità di evitare la sospensione automatica di sindaci e amministratori locali condannati con sentenza non definitiva. Ma il quesito non riguarda l’abolizione di questi singoli aspetti, ma l’abrogazione integrale del decreto Severino, che rappresenta uno dei più ampi interventi normativi di contrasto alla corruzione degli ultimi anni.

Quali quesiti si sovrappongono alla riforma della giustizia della ministra Cartabia?
Tre quesiti referendari su cinque trattano questioni contenute anche nella riforma della giustizia della ministra Cartabia che deve ancora essere votata al Senato: sono quelli che riguardano le modalità di elezione dei membri togati del Csm, le modalità di valutazione della professionalità dei magistrati e la separazione delle funzioni.

Per quanto riguarda le modalità di elezione dei membri del Csm scelti dalla magistratura la riforma, con l’obiettivo di ridurre il peso delle correnti interne, stabilisce che l’elezione avvenga con un sistema misto, maggioritario e proporzionale. È un sistema elettivo piuttosto articolato che serve soprattutto a introdurre una componente di imprevedibilità nelle elezioni del Csm, accusate da anni di favorire clientelismi, lottizzazioni delle cariche, avanzamenti di carriera legati all’appartenenza politica, e in generale di compromettere la neutralità e l’efficienza dell’organo. Inoltre, esattamente come prevede il referendum, la riforma stabilisce che la candidatura non sia sostenuta da una raccolta firme e che sia individuale. In questo caso, dunque, quesito referendario e riforma si sovrappongono.

Per quanto riguarda la valutazione degli avvocati, invece, non c’è coincidenza. La riforma del Csm della ministra Cartabia prevede che solo la componente degli avvocati e non quella dei docenti universitari ottenga la facoltà di esprimere un voto sulla professionalità dei magistrati e solo dopo un preventivo parere dell’Ordine. Il referendum chiede invece la possibilità di un voto deliberativo sia degli avvocati che dei docenti universitari.

La sovrapposizione tra riforma Cartabia e referendum è parziale anche per quanto riguarda la separazione delle funzioni dei magistrati: la riforma prevede che sia possibile fare il passaggio di funzioni da giudice a pubblico ministero e viceversa una sola volta, e che questo avvenga nei primi dieci anni di carriera, mentre il referendum non ne prevede nessuno.

Che cosa succederebbe a questi referendum se la riforma della giustizia venisse approvata prima del 12 giugno? La legge che disciplina il referendum, la 352 del 1970, dice che se prima della data dello svolgimento del referendum «la legge, o l’atto avente forza di legge, o le singole disposizioni di essi cui il referendum si riferisce» vengono abrogati, l’Ufficio centrale per il referendum annulla il quesito. Una successiva sentenza della Corte costituzionale però aveva dichiarato l’illegittimità di questo articolo nei casi in cui la norma oggetto del referendum non sia abrogata prima del voto, ma modificata. A quel punto, è necessario fare un raffronto tra la norma che è oggetto del referendum e la nuova norma modificata per capire se il referendum ha ancora senso oppure no. Spiega Carlo Blengino, avvocato penalista: «Se l’abrogazione a cui si riferisce il referendum viene accompagnata da altra disciplina della stessa materia che modifica la legge oggetto del referendum ma non la abroga, allora a quel punto non si può bloccare automaticamente il referendum, ma bisogna fare una valutazione di merito».

Andrea Morrone, professore ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Bologna che sta per pubblicare con Il Mulino il libro La repubblica dei referendum. Una storia costituzionale e politica (1946-2022), spiega che «se la nuova legge interviene andando a soddisfare il fine del referendum, il referendum non avrà più corso. E a deciderlo sarà l’Ufficio centrale per il referendum, cioè la Corte Suprema di Cassazione, che è tenuta appunto a valutare se c’è un’effettiva concordanza di obiettivo». Sarebbe questo il caso del referendum sulle modalità di elezione dei membri togati del Csm: le modifiche coincidono e dunque votare quel quesito non avrebbe senso.

Per quanto riguarda le modalità di valutazione dei magistrati e la separazione delle funzioni, la riforma in discussione «interviene solo in modo parziale rispetto ai quesiti, li soddisfa solo in parte». È dunque possibile che, in caso di approvazione della riforma prima della data dei referendum, la Cassazione decida che quei due quesiti si votino comunque.

C’è un’altra ipotesi di cui tenere conto: se la riforma Cartabia venisse votata così com’è, ma successivamente al 12 giugno, e se i referendum venissero approvati, il comitato promotore potrebbe aprire un contenzioso davanti alla Corte costituzionale per capire se la nuova legge rispetti oppure no quello che viene definito il “verso del referendum”. Spiega Morrone: «Il parlamento, dunque, una volta approvati i referendum, potrebbe o decidere di farsi carico del loro esito e modificare la Cartabia in modo corrispondente o proseguire con l’approvazione della riforma così com’è con il rischio che si apra un contenzioso».