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  • Mercoledì 11 maggio 2022

Come si diventa insegnante in Italia

È un percorso notoriamente lungo e complicato, con regole che negli ultimi anni sono cambiate molte volte: l'ultima poche settimane fa

(AP Photo/Andrew Medichini)
(AP Photo/Andrew Medichini)
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Alla fine di aprile il Consiglio dei ministri ha approvato nuove regole per diventare insegnanti delle scuole secondarie di primo e di secondo grado, le medie e le superiori, ma è difficile prevedere se e quanto dureranno. Il governo ha approvato le modifiche con le stesse ottime intenzioni dichiarate dai ministri degli ultimi governi, che in passato avevano introdotto nuove norme con l’obiettivo di rendere il percorso più lineare e certo. Le aspettative, però, erano state sempre disattese, al punto che quasi ogni governo era stato costretto a intervenire per cambiare le cose.

I continui cambiamenti, le eccezioni e le deroghe hanno reso nel tempo tutto complicato e incerto per le decine di migliaia di persone, soprattutto giovani, che hanno studiato o stanno ancora studiando con l’obiettivo di insegnare. Soprattutto, dicono molti insegnanti sentiti dal Post, chi vuole iniziare questo percorso deve mettere in conto un netto divario tra le aspettative e la realtà: spesso si pensa che l’accesso all’insegnamento sia chiaro, rigoroso, per certi versi meritocratico. Invece i programmi possono cambiare all’improvviso, come è avvenuto quasi ogni anno negli ultimi anni, e con loro devono cambiare le attese: i ritardi e gli impedimenti sono frequenti e si verificano in una condizione di sostanziale impotenza.

Come dimostra anche il corposo testo dell’ultima riforma, il percorso non è per nulla lineare. In sostanza, il nuovo decreto prevede tre fasi: l’abilitazione, il concorso e l’anno di prova.

L’abilitazione si ottiene attraverso la frequentazione di corsi universitari in aggiunta alla laurea magistrale o a ciclo unico, cioè quinquennale: consiste nell’acquisizione di 60 crediti formativi universitari (CFU), comprende anche un tirocinio, e viene rilasciata al termine di una prova finale. I concorsi, assicura il ministero, verranno banditi ogni anno: ci sarà una prova scritta con 50 domande a risposta multipla, per un massimo di 100 punti. La prova potrà essere superata con un minimo di 70 punti.

I vincitori del concorso saranno assunti in prova per un anno, al termine del quale è previsto un test per accertare le competenze didattiche. Alla fine di questo percorso c’è l’immissione di ruolo, cioè l’assunzione definitiva, l’obiettivo di tutte le persone che vogliono diventare insegnanti.

Per evitare che migliaia di persone che hanno già iniziato il percorso verso l’insegnamento subiscano in corsa gli effetti della riforma, il ministero ha previsto alcuni correttivi: in attesa che il nuovo sistema vada a regime, per coloro che già insegnano da almeno 3 anni nella scuola statale è previsto l’accesso diretto al concorso. I vincitori dovranno poi conseguire 30 crediti universitari, non 60, e svolgere la prova di abilitazione per poter passare di ruolo.

Chi non ha già un percorso di 3 anni di docenza, ma vuole insegnare, potrà ottenere i primi 30 crediti universitari, compreso il periodo di tirocinio, per accedere al concorso. Chi lo supererà potrà completare successivamente gli altri 30 crediti e farà la prova di abilitazione per poter passare di ruolo.

Secondo i piani del ministero dell’Istruzione, nei prossimi anni saranno assunti 70mila nuovi insegnanti con queste modalità.

La riforma è stata molto criticata dai sindacati, che hanno annunciato uno sciopero generale della scuola in programma il prossimo 30 maggio. I sindacati sostengono che il percorso per diventare insegnante sia troppo lungo e criticano il meccanismo della formazione continua introdotto con il decreto, un sistema di formazione volontaria per gli insegnanti già di ruolo e obbligatoria per i neoassunti dopo il rinnovo del prossimo contratto di categoria. Il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi, rispondendo ai sindacati, ha detto che «non è un percorso a ostacoli, ma un percorso formativo chiaro».

(ANSA/ ALESSANDRO DI MARCO)

In realtà, come sostengono molte e molti insegnanti, le regole cambiano spesso, al punto che con il passare degli anni i sistemi per ottenere l’immissione di ruolo sono diventati tanti. Ognuno segue la sua strada con diversi passaggi: c’è chi riesce a rispettare tutte le scadenze e le prove, chi è costretto a passare da molti anni di precariato, chi preferisce cambiare obiettivo in corsa. L’incertezza è così evidente che di solito nemmeno chi oggi insegna in una scuola sa spiegare con assoluta sicurezza qual è il percorso generico per diventare insegnante. Tuttavia, alcune regole generali esistono.

Il primo requisito per diventare insegnante è avere l’abilitazione all’insegnamento, cioè un titolo che, appunto, consente a una persona di insegnare. L’abilitazione non è una sola: dipende dal grado di istruzione nel quale l’aspirante insegnante vuole lavorare.

Per quanto riguarda la scuola dell’infanzia e la scuola primaria, l’abilitazione all’insegnamento si può ottenere con la laurea magistrale in Scienze della formazione primaria, senza la necessità di sostenere altri esami. Sono abilitate all’insegnamento nelle scuole dell’infanzia e primaria anche le persone che si sono diplomate alla scuola magistrale entro l’anno scolastico 2001/2002.

Fino alla nuova riforma approvata a fine aprile, nelle scuole superiori, oltre alla laurea, serviva un ulteriore requisito: il possesso di 24 crediti formativi universitari, i cosiddetti CFU, in discipline chiamate “antropo-psico-pedagogiche, metodologie e tecnologie didattiche”. I CFU si possono ottenere dalle università, attraverso appositi corsi, oppure tramite il riconoscimento di alcuni crediti acquisiti durante il percorso di studi con esami aggiuntivi, master e dottorati di ricerca. Ma c’è anche la possibilità di avere i crediti con un semestre universitario aggiuntivo o in parte anche in modalità telematica, per un massimo di 12 CFU.

È opinione abbastanza condivisa tra gli insegnanti che questi crediti, pensati per arricchire le conoscenze e il curriculum, in realtà siano esclusivamente un passaggio burocratico obbligatorio e una spesa. A partire dal 2020, infatti, i crediti sono obbligatori per chi vuole partecipare al concorso ordinario e per chi si vuole iscrivere per la prima volta nelle graduatorie provinciali per le supplenze (GPS).

Le GPS sono un meccanismo da cui passano quasi tutti gli aspiranti insegnanti. In sostanza sono liste provinciali di docenti supplenti create per agevolare l’assegnazione di cattedre scoperte.

Fino al 2020 le graduatorie erano divise in tre fasce, ora sono state ridotte a due di durata biennale: nella prima vengono inseriti gli insegnanti che hanno il titolo di abilitazione, nella seconda fascia gli insegnanti non abilitati. Il punteggio, e quindi la posizione in graduatoria, dipende dai titoli di studio, dagli anni di esperienza, da corsi e master.

Ogni anno, a settembre, l’ufficio scolastico provinciale contatta gli insegnanti: più sono in alto in graduatoria e più hanno possibilità di scegliere una scuola gradita. In molti casi gli insegnanti in posizioni basse sono costretti a scegliere più supplenze contemporaneamente, con la possibilità di ottenere incarichi da poche ore in scuole diverse. In generale, i posti a disposizione sono a tempo determinato, quindi precari. Per questo, secondo molti insegnanti precari, settembre è il mese più stressante dell’anno: in attesa della chiamata di una scuola non ci sono certezze.

L’abilitazione all’insegnamento consente anche la partecipazione ai concorsi ordinari o straordinari banditi dal ministero. Sono divisi in classi di concorso, cioè codici che permettono di individuare quale materia si può insegnare. Ogni laurea può permettere di accedere a una classe di concorso in funzione del percorso di studi, dei crediti formativi ottenuti e di altri esami sostenuti. Per candidarsi ad alcune classi di concorso, per esempio, non basta soltanto una laurea, ma servono anche altri crediti.

Chi vince il concorso ottiene l’immissione in ruolo, il posto a tempo indeterminato, che in realtà prevede anche un ulteriore percorso annuale di formazione, fino a pochi anni fa chiamato periodo di prova. I vincitori devono poi restare tre anni nella scuola a cui vengono assegnati prima di poter richiedere la mobilità, cioè il trasferimento in un’altra scuola. Anche in questo caso, le regole sono cambiate spesso negli ultimi anni. Gli insegnanti che, pur superando le prove, non rientrano tra i vincitori dei posti a disposizione, ottengono comunque l’abilitazione e possono essere inseriti in una buona posizione nelle GPS.

La descrizione di tutti questi passaggi è forzatamente semplificata e basata principalmente sull’insegnamento nelle scuole superiori. In realtà, come già detto, ci sono molte possibili eccezioni e deviazioni da un percorso piuttosto complesso. Secondo le previsioni, le novità approvate alla fine di aprile dovrebbero rendere tutto più semplice. Ma come dimostrano le prese di posizione dei sindacati, le premesse non sono buone.