• di Marcello Flores e Giovanni Gozzini
  • Storie/Idee
  • Lunedì 4 aprile 2022

Le domande giuste sono altre

«Il sentimento di libertà, di freschezza, di impegno e di curiosità che abbiamo provato negli incontri con le studentesse e gli studenti di scuole superiori è stato direttamente proporzionale al senso di insoddisfazione, avvilimento, demoralizzazione che ci è preso ogni volta che abbiamo seguito un talk show dedicato alla guerra in Ucraina, in numero crescente e diffuso su ogni rete televisiva»

(Omar Marques/Getty Images)
(Omar Marques/Getty Images)

Nelle ultime settimane ci è capitato spesso di essere invitati in scuole di ogni tipo per affrontare il tema della guerra iniziata il 24 febbraio. In molti casi sono stati gli stessi studenti a chiedere una mattinata o un pomeriggio di approfondimento su un tema che li ha colpiti in modo particolarmente forte, soprattutto se si pensa che la guerra è scoppiata dopo due anni di pandemia, di chiusure parziali o totali delle scuole, di difficoltà di un regime normale di apprendimento e di vita scolastica. In altri casi sono stati gli insegnanti a suggerire iniziative di questo genere. Ma in tutti gli incontri il risultato è stato quello di una grande partecipazione, attenta e curiosa, che si è manifestata soprattutto con una quantità insospettata di domande (in genere mancanti o scarse e molto timide quando ci è capitato di fare incontri su altri temi).

Per introdurre l’incontro, essendo due storici, abbiamo parlato delle radici del conflitto e delle violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani che l’hanno accompagnato. Un po’ anche delle possibili prospettive che si aprono. Il discorso con cui Putin ha motivato l’«operazione militare speciale» (insieme all’articolo da lui pubblicato nel luglio 2021) ci ha costretto a risalire anche molto indietro nel tempo: non solo gli equilibri geopolitici maturati a partire dal crollo dell’Urss nel 1991, ma anche le radici comuni tra russi, bielorussi e ucraini risalenti all’anno Mille. Già questo ci dice qualcosa di diverso dal racconto privilegiato da molti media, attraverso la presenza di «esperti geopolitici» e l’approccio del realismo politico: interessi economici e strategici, rapporti di forza militari, aree di influenza e controllo. Contano (e probabilmente in ambienti non occidentali come Russia e Cina, contano ancora di più) identità e narrazioni di sé. L’argomento di Putin è molto chiaro: rispetto agli Stati Uniti che sono frutto di ondate immigratorie successive e i nativi li hanno sterminati e chiusi in riserve, i russi occupano da sempre uno spazio e una cultura comuni. Non è vero, ma spiegare questo è appunto il nostro compito di storici: il principato di Kiev viene fondato dagli scandinavi e quando fiorisce dopo l’anno Mille a Mosca ci sono solo boschi.

Le tante domande che ci sono state fatte potrebbero essere accorpate in due gruppi: quelle per avere una conoscenza più approfondita e quelle relative al presente della guerra e al futuro del dopoguerra. Quello che però ci ha maggiormente colpito è stato che, accanto alla volontà di comprendere, e alla curiosità per i possibili esiti e per un’immagine ipotizzata del futuro in cui dovranno vivere, sono mancate del tutto dichiarazioni – o domande – di tipo identitario. Cioè domande volte a trovare conferme di una propria preesistente convinzione. Si capiva, spesso, che ci fossero tra le studentesse e gli studenti posizioni diverse, probabilmente già oggetto di discussioni e litigi fra loro. Ma, nel momento del dibattito pubblico, di fronte a presunti «esperti», cercavano di conoscere e comprendere di più per capire in quale nuovo orizzonte si ritrovano a vivere. In questi ultimi anni si è scosso profondamente l’orizzonte di apatica fiducia o di sistematica critica che fin allora li contraddistingueva. Tra minacce ambientali, pandemie, guerre, il mondo ha perso quell’aspetto tranquillo che finora poteva avere. In modo confuso percepiscono una differenza e un cambiamento recenti, che a noi, storici e anziani, appare invece una sorta di «ritorno a casa»: un rientro nella norma delle generazioni precedenti che le guerre le hanno purtroppo conosciute sulla propria pelle.
Sarebbe bene che almeno una parte degli intrattenitori che dicono di fare informazione in tv venissero qualche volta con noi nelle scuole, una volta tanto non per parlare e condurre, ma per ascoltare. Forse si accorgerebbero che l’«effetto Colosseo» di scontro tra gladiatori, ritenuto imprescindibile per gli indici di ascolto, non ha proprio niente a che fare col mondo reale e quotidiano delle persone normali. Le quali, come questi ragazzi, hanno solo bisogno di capire di più. Non di gente che si grida a vicenda sulla voce. Insomma avrebbero bisogno di giornalismo. Non di intrattenimento e di fiabe coi buoni e i cattivi.
Il sentimento di libertà, di freschezza, di impegno e di curiosità che abbiamo provato negli incontri con le studentesse e gli studenti di scuole superiori (comprese quelle professionali dove la storia si studia poco e male) è stato direttamente proporzionale al senso di insoddisfazione, avvilimento, demoralizzazione che ci è preso ogni volta che abbiamo seguito un talk show dedicato alla guerra in Ucraina, in numero crescente e diffuso su ogni rete televisiva. Conoscendo l’importanza che questi format televisivi hanno nell’influenzare l’opinione pubblica li abbiamo seguiti più di quanto in genere facciamo. Sperando che la tragica gravità della guerra costringesse a un cambio di paradigma rispetto alle modalità «normali» con cui erano andati in onda nel corso dei due anni di pandemia. Purtroppo abbiamo dovuto misurarci con una radicalizzazione e accentuazione di quella tipologia ormai sperimentata: in cui si è convinti che solo lo scontro, non di opinioni, ma di personaggi, permetta di avere più pubblico. E che il pubblico sia ancora all’età del Colosseo. Un pubblico barbarico interessato non a capire e imparare, ma solo a schierarsi.  Almeno nelle scuole non funziona così. La «post-verità» in cui ognuno ha ragione e basta alzare la voce per prevalere, ai ragazzi non interessa. Forse, se i conduttori presunti giornalisti venissero con noi nelle scuole, potrebbero rendersi conto di vivere già in un «metaverso» da loro stessi creato e per loro esclusivo uso e consumo, che non ha niente a che fare con il mondo reale.
Gli storici sanno bene che sono le domande a contare molto, perché è da esse che dipende la capacità di cercare risposte nuove, inedite, attendibili e originali. Eppure non sembra che le conduttrici e i conduttori dei talk show si pongano con serietà questo interrogativo: quali sono le domande che ci permettono di accrescere la conoscenza, di guardare con ottica nuova a ciò che sappiamo, di stimolare punti di vista non ripetitivi? Di fronte a persone che – almeno in teoria e per contratto – dovrebbero essere degli esperti, si pongono invece le stesse domande che i cronisti pongono alle famiglie delle vittime di omicidi, incidenti stradali, catastrofi naturali: come si sente? cosa ci può dire? prova rabbia? In questo caso chiedendo: con chi si schiera? Cosa deve fare l’Italia (o l’Europa)?
Le domande giuste sono altre. Perché Putin ha cercato questa guerra? Perché Zelensky non è scappato? Come tutte le domande giuste portano ad altre domande. Qual è il peso economico del Donbass nell’economia ucraina e in quella russa? Quando e perché l’Ucraina è diventata filoeuropea? Perché la Bielorussia non lo è? Putin ha sempre ritenuto la Nato e l’Occidente nemici mortali? Perché in quella che gli ucraini chiamano «rivoluzione della dignità» del 2014 compaiono le bandiere dell’Unione Europea e non quelle statunitensi come invece accadeva a Berlino o Praga nel 1989?
Nei ragazzi di oggi ci sembrano prevalere due atteggiamenti di fondo. Uno è quello che con malcelato disprezzo Angelo Panebianco chiama «pacifismo fondamentalista». Noi che siamo storici ci ricordiamo che un secolo fa i ragazzi erano per la guerra. E ci sembra un cambiamento apprezzabile e significativo. L’Europa unita serve a qualcosa. Il secondo è ancora una domanda: quale ordine mondiale ci può garantire un futuro capace di evitare la catastrofe climatica? Quest’ultima ci pare la domanda fondamentale. Perché è chiaro (o almeno dovrebbe esserlo) che quell’ordine mondiale non può non essere multipolare e quindi includere un pezzo importante di umanità (Russia, Cina e il resto) che non ha mai conosciuto la democrazia. È la convivenza tra democrazie e non democrazie il problema vero che la guerra in Ucraina nasconde.

Marcello Flores e Giovanni Gozzini
Marcello Flores e Giovanni Gozzini

Marcello Flores ha insegnato Storia comparata e Storia dei diritti umani all’Università di Siena, dove ha diretto il Master europeo in Human Rights and Genocide Studies, e all’Università di Trieste tra il 1975 e il 1992. Giovanni Gozzini insegna Storia della globalizzazione e New Media and Globalization all’Università di Siena. Insieme hanno scritto Il ’68. Un anno spartiacque (il Mulino, 2018) e Il vento della rivoluzione. La nascita del Partito comunista italiano, (Laterza 2021).

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