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  • Mercoledì 23 marzo 2022

Il contestato editoriale del New York Times contro la “cancel culture”

Dice che «l'America ha un problema di libertà d'espressione», attribuendolo all'intolleranza per le opinioni diverse e all'aggressività online

New York Times cancel culture
Due agenti di polizia fuori dalla sede del New York Times, a New York, il 28 giugno 2018 (Drew Angerer/Getty Images)
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La popolarità dei social network presso un pubblico sempre più vasto e, in generale, la capillare diffusione di Internet negli ultimi decenni hanno favorito in molti paesi del mondo, tra le altre cose, un progressivo e straordinario ampliamento delle possibilità di espressione e di interazione per un’estesa parte della popolazione. Possibilità che si realizzano oggi attraverso determinati canali digitali eccezionalmente affollati, verso cui convergono anche editori, giornali e media tradizionali, in un contesto in cui si misurano interessi e sensibilità molto diversi tra loro, ma in cui tendono a prevalere e a essere più visibili toni aggressivi o intimidatori e sentimenti di indignazione e intolleranza.

Sulla complicata questione dei limiti della libertà di espressione – che ne ha, di limiti, come ogni libertà – e sull’altrettanto complicata distinzione tra le obiezioni misurate e opportune e quelle smisurate e censorie suscitate dalle opinioni e idee altrui – parte del più ampio dibattito sulla cosiddetta “cancel culture”, molto acceso nel mondo anglosassone ma presente anche in Italia – è intervenuto alcuni giorni fa il New York Times in un editoriale che è stato oggetto di grandi attenzioni e molte critiche. Con il risultato di generare una serie di interpretazioni polemiche e avviluppamenti paradossali del discorso, che in parte contestano e in parte confermano indirettamente le premesse stesse dell’editoriale: l’unica cosa chiara che si dimostra è che la questione è molto intricata e impossibile da chiudere con semplicità e certezza.

«Nonostante tutta la tolleranza e la ragione affermate dalla società moderna, gli americani stanno perdendo il controllo di un diritto fondamentale come cittadini di un paese libero: il diritto di dire ciò che pensano e di esprimere le proprie opinioni in pubblico senza paura di essere infamati o isolati», ha scritto il New York Times. L’editoriale è firmato dalla redazione “editorial”, il gruppo di persone che cura questo tipo di articoli che propongono una “linea” del giornale: e quindi in teoria esprime una posizione ufficialmente condivisa. E prosegue attribuendo sia alla destra che alla sinistra la responsabilità di aver generato questa situazione di «silenziamento sociale» e «de-pluralizzazione» dell’opinione pubblica.

Molte persone a sinistra, secondo il New York Times, ritengono che la cancel culture – oggetto di un dibattito che in Italia presenta alcune affinità con quello sul politicamente corretto – sia soltanto un argomento strumentale e vittimistico utilizzato dalle destre, in una sorta di complesso di persecuzione, per difendere l’uso di espressioni di odio e intolleranza nei confronti di ciò che non è conforme ai loro valori. Allo stesso tempo, molte persone a destra che protestano contro la cancel culture appoggiano severe misure conservatrici e di censura, come quella di proibire determinati libri nelle scuole e biblioteche pubbliche limitando la circolazione delle idee ritenute divisive, tra cui quelle che riguardano minoranze etniche e persone LGBT+; o applicano contro i loro avversari politici le stesse aggressività e gogne che contestano quando dirette verso di loro.

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Ma su questioni controverse e su cui la società si interroga, secondo il New York Times, «le persone dovrebbero poter presentare punti di vista, porre domande e commettere errori, e assumere posizioni impopolari ma in buona fede», senza timore di alcuna «cancellazione». Un rischio che, al netto delle divergenze sulla precisa definizione del termine, diversi sondaggi negli Stati Uniti descrivono come una reale percezione diffusa: molte persone intervistate affermano, per esempio, di sentirsi meno libere di parlare di politica rispetto a dieci anni fa. Che è un problema per le democrazie, dice l’editoriale: perché senza un dibattito alimentato da opinioni in contrasto tra loro, espresse senza paura e liberamente, le idee diventano più deboli e fragili.

Anche a causa dell’abbondanza di disinformazione e del modo stesso in cui sono costruite le piattaforme online, «la vecchia lezione del “pensa prima di parlare” ha lasciato il posto alla nuova lezione “parla a tuo rischio e pericolo”». Molte persone – e in misura maggiore le donne, secondo un sondaggio condotto negli Stati Uniti dal New York Times in collaborazione con il Siena College Research Institute (SCRI) – affermano di preferire non esprimersi per paura di subire conseguenze negative o ritorsioni.

È anche ritenuto significativo, dal New York Times, il fatto che le persone che si dichiarano democratiche e progressiste siano, stando ai risultati del sondaggio, quelle che più spesso delle altre sentono il bisogno di interrompere «discorsi antidemocratici, intolleranti o semplicemente falsi». Eppure, prosegue l’editoriale, «la solida difesa della libertà di parola era un tempo un ideale progressista»: oggi, impegnati nella difesa dei principi di tolleranza, molti progressisti sono invece «diventati intolleranti nei confronti delle persone che non sono d’accordo con loro» o che esprimono opinioni diverse. E nel farlo hanno assunto atteggiamenti di ipocrisia e censura per lungo tempo familiari alla destra e detestati dalla sinistra.

«Ma c’è una differenza tra l’incitamento all’odio e il discorso che ci mette alla prova in modi che potremmo trovare difficili o persino offensivi», ha aggiunto il New York Times in una delle parti più controverse e criticate del suo editoriale: anche perché questa differenza è spesso sfuggente e difficile da stabilire universalmente.

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Secondo un’obiezione molto condivisa nel dibattito, che è stata ripresa e sintetizzata dall’organizzazione americana non profit Press Watch, il New York Times avrebbe frainteso quali siano le minacce reali al diritto fondamentale della libertà di espressione: ovvero quelle del “potere” – e, nello specifico, l’azione del governo – e non le contestazioni da parte di altre persone, benché queste oggi prendano dimensioni che le rendono nei fatti un “potere” a loro volta. «Nessuno dovrebbe capirlo meglio dei redattori degli editoriali del New York Times, il cui compito è evidentemente quello di presentare ai lettori un’ampia varietà di punti di vista importanti, inclusi quelli che alcuni lettori troveranno detestabili», ha scritto il giornalista e fondatore di Press Watch Dan Froomkin.

Raccogliendo contestazioni simili alle sue, espresse da colleghi e commentatori, Froomkin ha aggiunto che un conto è la cancel culture e un conto è l’essere ritenuti responsabili di ciò che si dice, e che se davvero il comitato editoriale del New York Times crede «che le persone abbiano un diritto a esprimere le proprie opinioni senza timore di essere screditate», i membri del comitato dovrebbero dimettersi tutti. Invito che, in un certo senso, è tuttavia visto da alcuni come un esempio pratico delle contestate espressioni di intolleranza progressista al centro dell’editoriale, e delle – seppur spesso soltanto paventate o auspicate – minacce di ritorsioni sulle carriere di chi è oggetto delle critiche.

Riguardo alle responsabilità attribuite alla sinistra nell’editoriale, Froomkin collega la posizione del New York Times a un sentimento di panico morale a suo parere molto diffuso tra i media americani e al timore di essere associati al fenomeno “woke”, un atteggiamento di consapevolezza delle ingiustizie sociali che ha oggi nel mondo anglosassone una connotazione prevalentemente dispregiativa. Proprio quel panico, prosegue Froomkin, porta paradossalmente a vedere nella prospettiva di una «sinistra illiberale» un pericolo maggiore di quello rappresentato dalle censure reali – le leggi che proibiscono i libri, per esempio – e dalle autentiche derive autoritarie e antidemocratiche dei governi. E finisce, di fatto, per stabilire equivalenze non sostenute dalla realtà tra presunte inclinazioni censorie e censure concrete.

È certamente vero che l’«economia dell’attenzione premia gli stronzi», ha scritto Froomkin, e che molte critiche siano oggi più aggressive di quanto dovrebbero essere: ma questa non è una considerazione sufficiente a giustificare la difesa di un «diritto inventato a non essere derisi». Che non significa accettare serenamente certe reazioni fondate su sentimenti razzisti, misogini e omofobi oggi manifestati senza vergogna più che in passato. Anzi: c’è bisogno di svergognare quelle manifestazioni intolleranti di più, non di meno, conclude Froomkin.

«Esiste libertà di avere qualsiasi opinione, non libertà di avere qualsiasi opinione senza conseguenze», e infatti non ci aspettiamo che urlare «al fuoco!» in un teatro affollato non abbia conseguenze, ha detto il popolare giornalista e conduttore americano Keith Olbermann, sintetizzando una posizione largamente condivisa dai critici dell’editoriale del New York Times.

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Anche il giornalista americano Jeff Jarvis, rispettato e seguito studioso dei cambiamenti dell’informazione e della comunicazione digitale, ha criticato duramente il New York Times per aver equiparato le critiche della sinistra contro l’incitamento all’odio «alla destra che brucia i libri». E ha accusato il comitato editoriale di farsi portavoce di una forma di vittimismo di destra tipicamente espresso da una classe di maschi bianchi privilegiati, non abituati e infastiditi dall’esercizio del diritto di espressione altrui. «Il grande paradosso è che il Times si lamenti di essere stato messo a tacere parlando dalla più grande piattaforma mai creata per le parole, la pagina degli editoriali del New York Times», ha scritto Jarvis.

Uno dei punti più problematici delle argomentazioni dell’editoriale, secondo i suoi critici, è in sostanza quello di finire per predicare una limitazione dei modi e delle forme di contestazione delle opinioni altrui: contestazione che è però a sua volta un’espressione, e dovrebbe quindi teoricamente godere delle stesse protezioni e tutele dell’opinione originaria.

Derisione ed esclusione – le reazioni contestate dal New York Times – saranno anche reazioni maleducate, esagerate o idiote, ha scritto su Salon la giornalista Amanda Marcotte, «ma se qualcuno ti insulta su Twitter per un’opinione che hai espresso, è tanto un esercizio della libertà di parola quanto lo è l’opinione che ha generato l’insulto». Se qualcuno reagisce in un modo da idiota, «non è un problema di libertà di parola»: «è un problema di persone che si comportano da idiote».

Marcotte, come anche lo stesso Jarvis e altri, ha inoltre contestato la formulazione di alcune domande del questionario proposto alle persone e citato come argomento dei loro timori: in particolare quella che chiede agli intervistati se sia capitato loro di mettere a tacere «discorsi antidemocratici, intolleranti o semplicemente falsi». «Non hanno chiesto, per esempio, se qualcuno commenti sulla pagina Instagram di qualcun’altra per darle della C-word [troia], un tipo comune di “feedback” che ricevo abitualmente per aver espresso posizioni femministe», ha scritto Marcotte. E ha aggiunto che mentre questo tipo di insulti è considerato normalità – praticamente «il prezzo di essere un personaggio pubblico» – quando invece «un progressista chiama qualcuno razzista, questo sembra superare ogni limite».

Questo genere di obiezioni in realtà non considera una parte importante delle argomentazioni di chi ritiene che la cancel culture sia un fenomeno che esiste e del quale bisognerebbe preoccuparsi. Più che le reazioni di protesta o persino gli insulti, infatti, a essere biasimate e temute sono principalmente le pressioni perché chi è al centro della polemica e delle critiche di turno perda il lavoro, che si tratti di una scrittrice o di un professore universitario o di un regista. O che il timore per questo tipo di conseguenze porti le persone ad auto-censurarsi, impoverendo il livello del dibattito politico, culturale o accademico.

Altri commenti si sono concentrati sulla scarsa “carità interpretativa” applicata all’editoriale del New York Times da parte di molti dei suoi critici. Come notato dalla Foundation for Individual Rights in Education (FIRE), un’organizzazione americana non profit che si occupa di libertà civili e diritti nei campus universitari, un conto è criticare una cultura che normalizza l’umiliazione, che è quello che l’editoriale fa, e un altro conto è chiedere che sia revocato a coloro che prendono parte a quell’umiliazione il diritto di farlo, cosa che l’editoriale non fa.

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In altre parole, secondo FIRE, il New York Times non ha sostenuto le ragioni di una limitazione della libertà di esprimere dissenso, eventualmente anche in forme aggressive, rispetto a una determinata opinione. Ha soltanto espresso un’opinione preoccupata riguardo all’impatto di determinati atteggiamenti sulla cultura e sul pensiero collettivo, «in un ambiente in cui la schiacciante pressione sociale mette a rischio le opinioni inaccettabili e in cui le conseguenze professionali interessano molti che assumono punti di vista impopolari o non ortodossi».

Le persone che hanno criticato l’editoriale del New York Times, conclude FIRE, hanno ragione nel sottolineare che anche l’umiliazione pubblica e l’ostracismo sociale rientrino nella libertà di espressione, e che questa non debba subire alcuna limitazione legale. «Ma la domanda non è se siano o no legali: è se siano desiderabili, se promuovano una cultura di cui vorremmo far parte, se debbano essere incoraggiati o sconsigliati, incentivati o disincentivati».