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  • Mercoledì 9 febbraio 2022

L’Europa vuole produrre microchip

Ha proposto un piano di investimenti per aumentare le sue quote di mercato, che però potrebbe non essere abbastanza ambizioso

Il commissario europeo Thierry Breton con in mano la riproduzione di un semiconduttore durante la conferenza stampa di presentazione del piano (EPA/OLIVIER HOSLET)
Il commissario europeo Thierry Breton con in mano la riproduzione di un semiconduttore durante la conferenza stampa di presentazione del piano (EPA/OLIVIER HOSLET)

La Commissione Europea ha proposto martedì un nuovo piano per rafforzare la produzione europea di microchip, in un momento in cui l’approvvigionamento di questi componenti tecnologici, fondamentali per il funzionamento di tutti gli apparecchi elettronici, sta diventando una priorità industriale in moltissimi paesi del mondo. Sono molti infatti gli stati che negli ultimi tempi hanno annunciato enormi piani di investimento per aumentare la produzione e guadagnare nuove quote di mercato.

Il piano europeo, che per ora è ancora una proposta ed è chiamato European Chips Act, prevede investimenti complessivi per 43 miliardi di euro, divisi fra finanziamenti pubblici e investimenti privati, oltre che la costituzione di un fondo specifico per gli investimenti e un allentamento delle regole per gli aiuti di stato da parte dei paesi membri. L’obiettivo, ha spiegato la Commissione, è di arrivare al 2030 con una quota del 20 per cento di produzione mondiale di microchip. Attualmente, la produzione di microchip dell’Unione Europea è circa il 9 per cento di quella mondiale.

I microchip (o semplicemente chip) sono componenti fondamentali in moltissimi prodotti, non soltanto di elettronica: anche se spesso si pensa soprattutto a quelli presenti nei computer e negli smartphone, i chip sono ormai essenziali per qualsiasi apparecchio che abbia almeno una parte elettronica. In un’automobile, per esempio, ce ne sono decine, e servono a gestire i finestrini elettrici, il computer di bordo, il sistema di intrattenimento, gli airbag, i sensori di parcheggio e così via.

Da oltre un anno, in parte a causa degli effetti economici della pandemia da coronavirus e in parte a causa della crisi dei commerci globali, in tutto il mondo c’è una grave carenza di microchip, che ha provocato il rallentamento della produzione in moltissimi settori e reso difficile l’approvvigionamento di vari componenti tecnologici. In Europa uno dei settori più colpiti è stato quello automobilistico: come ha spiegato la Commissione, in alcuni paesi la produzione è diminuita di un terzo per carenza di chip.

– Leggi anche: La crisi dei microchip è sempre più grave

In questo contesto, l’Europa si è trovata in particolare difficoltà, perché per l’approvvigionamento dei chip dipende quasi completamente dall’estero. Attualmente la produzione globale di microchip, specie di quelli più sofisticati, è dominata da tre paesi: Stati Uniti, Corea del Sud e soprattutto Taiwan, che con la sua multinazionale TSMC ha il 54 per cento delle quote del mercato mondiale. «I chip sono essenziali praticamente in ogni apparecchio. Ma la pandemia ha esposto in maniera dolorosa le vulnerabilità della catena di approvvigionamento», ha detto la presidente della Commissione Ursula von der Leyen.

Il piano europeo per la produzione di microchip, benché ambizioso e benintenzionato, è stato accolto con un certo scetticismo. Anzitutto perché i finanziamenti stanziati, benché adeguati, sono comunque tra i più ridotti tra quelli proposti da altre potenze economiche.

Lo European Chips Act prevede finanziamenti per 43 miliardi di euro, che sono comparabili ai 52 miliardi di dollari (45 miliardi di euro) da poco approvati dal Congresso americano per il settore dei microchip. Ma i 52 miliardi di dollari americani comprendono soltanto gli aiuti federali: i singoli stati americani hanno avanzato i loro piani di sviluppo del settore, aggiungendo svariati miliardi. Al contrario, dei 43 miliardi di euro previsti dall’Unione Europea soltanto 11 saranno di finanziamenti diretti al settore: di questi 11 miliardi la metà verrà dal budget dell’Unione, mentre l’altra metà dovrà essere stanziata dagli stati membri. I restanti fondi dovrebbero arrivare o da investimenti privati o da aiuti di stato degli stati membri, che per ora sono soltanto stimati.

Altri paesi hanno avanzato piani molto più ambiziosi: la Corea del Sud ha approvato un piano decennale da 450 miliardi di dollari (quasi tutti forniti dal settore privato), mentre la Cina, nel decennio 2015–2025, ha investito e investirà 150 miliardi.

Come ha notato Politico, inoltre, la Commissione Europea ha relativamente poca esperienza nella gestione della politica industriale dell’Unione, attività a cui si dedica soltanto da pochi anni: la Commissione in tempi recenti ha presentato vari piani per lo sviluppo di settori tecnologici importanti, come il cloud e l’intelligenza artificiale, ma finora i risultati sono stati scarsi. Già nel 2013 la Commissione aveva presentato un piano per i microchip che aveva obiettivi molto simili a quelli attuali: raggiungere il 20 per cento della quota di mercato mondiale, cosa che evidentemente non è successa.

L’Unione Europea sta anche faticando ad attirare investimenti internazionali nel settore. Da mesi Thierry Breton, il commissario europeo per il Mercato interno, cerca di convincere una delle grandi multinazionali che producono microchip (le principali sono tre: la taiwanese TSMC, la sudcoreana Samsung e l’americana Intel) a stabilire in Europa una “mega fab”, cioè un grande centro produttivo. È un passo fondamentale per poter avanzare, perché la produzione di microchip è un campo che richiede enormi investimenti e conoscenze pregresse: per questo, l’industria europea sarebbe fortemente avvantaggiata se una delle multinazionali che già operano nel campo cominciasse a produrre localmente.

TSMC ha annunciato di recente investimenti in Arizona (Stati Uniti), Giappone e Cina, ma non in Europa. Anche Samsung sembra poco propensa, mentre Intel ci starebbe pensando, ma ancora non c’è niente di definitivo.

Il progetto europeo di sviluppo del settore dei microchip ha dunque grossi ostacoli davanti a sé, ma questo non significa necessariamente che sia destinato a fallire. Tra gli elementi più notevoli del pacchetto di misure c’è un allentamento delle regole sugli aiuti di stato, che di fatto consentirà agli stati membri che lo vorranno di finanziare aziende e startup per espandersi nel settore dei microchip. Questa è una misura fondamentale, perché il settore dei microchip è a grande “intensità di capitale”: per mettere su una fabbrica di chip servono investimenti sproporzionati, che è difficile ottenere senza aiuti pubblici.

Come ha detto Margrethe Vestager, vicepresidente della Commissione che si occupa anche delle politiche sulla concorrenza, ci saranno comunque dei paletti agli aiuti di stato: dovranno essere «mirati e proporzionati», e «portare beneficio all’Europa nel suo complesso».