• Moda
  • Martedì 14 dicembre 2021

Direttori creativi ovunque

Sempre più aziende di moda, specialmente quelle più piccole, affidano alle celebrità un ruolo diverso dal classico “testimonial”

A$AP Rocky e Rihanna al MET Gala di quest'anno: A$AP Rocky è il “guest artistic director” del brand di abbigliamento PacSun, Rihanna è stata direttrice creativa di Puma (Kambouris/Getty Images for The Met Museum/Vogue )
A$AP Rocky e Rihanna al MET Gala di quest'anno: A$AP Rocky è il “guest artistic director” del brand di abbigliamento PacSun, Rihanna è stata direttrice creativa di Puma (Kambouris/Getty Images for The Met Museum/Vogue )

Emily Ratajkowski, il principe Harry, Kendall Jenner, Drew Barrymore, Cardi B e A$AP Rocky hanno una cosa in comune, oltre a essere celebrità per meriti, talenti o semplici circostanze molto diversi: sono entrati tutti a far parte di aziende con ruoli quasi sempre descritti come direttori creativi o artistici. Il rapper A$AP Rocky è per esempio “guest artistic director” – cioè lo è come esterno, più occasionalmente – del brand di abbigliamento PacSun, mentre la modella Kendall Jenner è direttrice creativa di Fwrd, boutique online di abbigliamento e accessori di lusso.

Quella di affidare ruoli creativi a personalità della musica e dello spettacolo è infatti una tendenza nuova e sempre più frequente tra le aziende di moda, soprattutto quando si tratta di realtà poco conosciute e di media grandezza.

Tecnicamente, il ruolo di direttore creativo si può trovare negli ambiti più diversi, non solo nella moda. Il suo compito è quello di delineare la visione dietro un determinato progetto, curandone gli aspetti creativi, prendendo le decisioni importanti e coordinando lo sviluppo dei contenuti generalmente insieme a una squadra di persone. Esistono direttori creativi che si occupano di film, di eventi, di campagne pubblicitarie, di videogiochi e naturalmente di brand di moda. A volte un direttore creativo può anche svolgere mansioni da direttore artistico, che però è un ruolo diverso e più attinente all’immagine di un prodotto (riguarda principalmente gli aspetti visuali e l’estetica, in sostanza).

Nelle case di moda, il direttore creativo è il ruolo apicale e più importante, la figura che dirige i designer (quelli che disegnano concretamente i capi), sviluppa i progetti e cura l’immagine del brand in tutti i contesti in cui deve funzionare, dalle passerelle ai social network. È un ruolo diventato importante soprattutto negli ultimi anni – Timberland ha nominato il suo solo nel 2018 – grazie al lavoro di direttori creativi che oggi vengono apprezzati e celebrati, personalità come Alessandro Michele (Gucci), Demna Gvasalia (Balenciaga) e Virgil Abloh (Louis Vuitton, Off-White).

 

Visualizza questo post su Instagram

 

Un post condiviso da OLIVIER R. (@olivier_rousteing)

Dà un’idea dell’importanza del ruolo Olivier Rousteing, diventato direttore creativo di Balmain a 25 anni: portò il brand a superare il milione di follower su Instagram (uno dei primi a farlo) e avviò la collaborazione con Kylie Cosmetics, l’azienda di cosmetici di Kylie Jenner. Su Rousteing è stato girato anche un documentario, prodotto da Netflix, che si chiama Wonder Boy e racconta la sua storia e il suo lavoro.

Ma se nelle grandi case di moda i direttori creativi sono persone diventate celebri proprio per via del proprio ruolo, in altre aziende più di nicchia succede l’opposto: sono cioè persone già famose a diventare spesso direttori creativi. «Una volta le persone famose firmavano contratti con i brand diventandone il “volto” o “testimonial”» ha scritto sul New York Times Valeriya Safronova. «Poi con l’avvento dei social network arrivò l’ondata di “brand ambassador”. Ora, un titolo un tempo riservato ai capi di case di moda […] compare nei curricula di attori, cantanti e modelle».

A parte Garnier, che ha come direttrice creativa l’attrice Drew Barrymore, le aziende che si rivolgono alle celebrità sono di solito poco conosciute. Ma questo è un vantaggio dal punto di vista comunicativo, secondo la docente di comunicazione e media Susan Douglas. Parlando con il New York Times, Douglas ha detto che «queste aziende di nicchia» non hanno voglia di essere percepite come grandi multinazionali e sostengono di sapere ciò che la gente vuole: «L’autenticità è la valuta più preziosa oggi».

In questo senso, essere direttori creativi piuttosto che “brand ambassador” ha un significato diverso. Il secondo ruolo, dice Douglas, non «suggerisce alcun contributo o talento particolare. Ma “direttore creativo” dà invece l’idea che tu abbia un insieme di capacità creative e dirigenziali».

Andrea McDonnell, docente di comunicazione al Providence College, descrive questo sistema come “a doppia validazione”: cioè mentre la celebrità diventa una sorta di controfigura e testimonial per il brand, le qualità dell’azienda rispecchiano o impreziosiscono le qualità che si associano alla celebrità. È il caso per esempio di Cardi B, rapper americana e nuova direttrice creativa di Playboy: «La sua immagine personale ruota intorno alla sessualità emancipata. Lei è una femmina che entra a far parte di un contesto che per definizione è sempre stato maschiocentrico», dice McDonnell.

Cardi B a un evento di Playboy a Miami (Frazer Harrison/Getty Images for Playboy Enterprises International, Inc.)

Naturalmente non tutte le celebrità vengono coinvolte pienamente nei progetti, e non è chiaro in che misura il titolo di “direttore creativo” sia più di facciata che altro, scrive Safronova.

Nel caso di Dakota Johnson, attrice nota per il film della serie Cinquanta sfumature e direttrice creativa dell’azienda Maude, specializzata in benessere sessuale, il coinvolgimento di una celebrità non era previsto. La fondatrice dell’azienda, Eva Goicochea, ha raccontato al New York Times che Johnson era stata scelta nell’ambito di un accordo con alcuni investitori. In realtà però Goicochea pensa che non valga sempre la pena coinvolgere persone famose: «Un sacco di gente pensa che siano galline dalle uova d’oro, che pubblicano sui social network qualcosa e ti fanno fare automaticamente un sacco di soldi. Forse funziona così nel breve periodo, ma ci sono anche svantaggi potenziali».

Per esempio, le celebrità possono finire nei guai per qualcosa che hanno detto o fatto, un’eventualità peraltro sempre più frequente nel contesto di grande attenzione e sensibilità alle parole e ai comportamenti delle figure pubbliche favorito dai social network. Con il rischio quindi di compromettere l’immagine dell’azienda, o perlomeno di tirarla in mezzo a situazioni che preferirebbe evitare. Un altro rischio, dice Goicochea, è che il brand ruoti troppo attorno alla persona famosa, e si perda il significato del messaggio che il brand vorrebbe veicolare.

Il consiglio di Goicochea per gli imprenditori e le imprenditrici che pensano di voler lavorare con una celebrità è di indagare in profondità la sua storia per scongiurare imprevisti: «Dopotutto, mantenere un’immagine pubblica positiva e inconfondibile sta diventando sempre più importante».

– Leggi anche: La crisi di identità dei jeans