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  • Sabato 4 dicembre 2021

Cosa c’è dietro la crisi dei trasporti marittimi

Un rapporto dell'ONU spiega le cause strutturali e contingenti della congestione dei porti, e prevede che senza grossi interventi continuerà fino al 2023

di Paolo Bosso

Una nave portacontainer a New York. (Spencer Platt/Getty Images)
Una nave portacontainer a New York. (Spencer Platt/Getty Images)

Ogni anno la Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (UNCTAD) pubblica il Review of Maritime Transport, un resoconto dello stato di salute dello “shipping” (come gli anglosassoni chiamano il trasporto mercantile) con dettagliate statistiche sul traffico annuale dell’anno precedente e una descrizione dei fenomeni che lo hanno caratterizzato. È tra i più approfonditi che ci sono, con i dati ufficiali delle nazioni industrializzate.

Una buona notizia per l’economia globale è che il traffico mercantile del 2020, segnato dalla pandemia, è calato meno di quanto ci si aspettasse: del 3,82 per cento. I dati della relazione dell’anno precedente prevedevano una flessione superiore al 4 per cento. Nel 2021 si prevede un aumento del 4,3 per cento dei volumi di trasporto via mare, anche se la pandemia ancora in corso complica le previsioni. Negli ultimi due decenni il tasso di crescita annua del commercio marittimo è stato del 2,9 per cento. Nel 2022-2026 si prevede una crescita del 2,4 per cento.

Dall’estate scorsa la circolazione delle merci nel mondo non riesce a stare dietro alla domanda di consumo. È successo che durante i vari lockdown abbiamo speso i nostri soldi più in beni che in servizi e il lavoro da casa, lo shopping online e l’aumento delle vendite di computer hanno creato una pressione senza precedenti sulle catene di approvvigionamento. A patirne le conseguenze sono stati in particolare gli Stati Uniti, il principale polo di produzione tecnologica fuori dall’Asia, dove i produttori hanno avuto difficoltà a rifornirsi dalla Cina, da Taiwan, dalla Corea del Sud e dal Giappone.

Una serie di cambiamenti, incertezze e ostacoli nei funzionamenti dei flussi commerciali ha influito negativamente sul trasporto dei container, attraverso i quali si spostano le cose che compriamo. Le ragioni sono diverse: c’entrano i vincoli di capacità nell’offerta di trasporto, la carenza di container vuoti da riempire e quella di manodopera a terra, gli operatori portuali. Mancano anche i marittimi a bordo dei mercantili, per via delle oscillanti restrizioni alla mobilità che limitano gli spostamenti tra paesi.

Oggi, secondo l’International Transport Workers’ Federation, sono almeno 200 mila i marittimi (su un totale di oltre un milione) ad avere difficoltà a raggiungere la nave per fare il cambio di equipaggio con i colleghi, o a tornare a casa dopo la fine del turno. Mancano corridoi aerei prioritari per questi lavoratori, che a dicembre scorso l’ONU, dopo mesi di pressioni da parte di sindacati e compagnie marittime, ha dichiarato una “categoria lavorativa chiave”. Tra la primavera e l’autunno del 2020 erano in 400 mila bloccati sulle navi, nel proprio paese o in aeroporto, senza poter raggiungere il posto di lavoro o tornare a casa.

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Mediamente il turno di un marittimo a bordo di una nave dura dai quattro ai sei mesi, ma lo scorso luglio il Global Maritime Forum aveva denunciato il raddoppio degli imbarchi oltre gli undici mesi, il massimo consentito dalle convenzioni internazionali. Oggi la situazione è migliorata, grazie anche alle pressioni sugli stati e gli organismi internazionali da parte del legislatore mondiale dello shipping, l’International Maritime Organization. Il problema è che le nazioni da cui proviene la maggioranza dei marittimi (Filippine, Bangladesh, Sri Lanka e Pakistan) hanno bassi tassi di vaccinazione. Lavorano su una nave battente bandiera straniera, lontani migliaia di chilometri da casa, ritrovandosi spesso isolati ed esposti allo sfruttamento. L’ultimo record è dello chief officer siriano Moahammad Aisha, rimasto per quattro anni a bordo di un mercantile.

La Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo sostiene che se non si interviene nel risolvere le congestioni che stanno interessando i porti e nel calmierare il prezzo dei noli marittimi, cioè il noleggio di uno spazio a bordo di un mercantile per un container pieno, il rincaro delle materie prime e dei costi di trasporto è destinato ad influire sui prezzi al dettaglio dei beni almeno fino al 2023.

La discrepanza tra domanda di consumo e offerta di trasporto ha portato a un aumento delle tariffe di trasporto dei container su praticamente tutte le rotte commerciali. A giugno del 2020 il tasso spot (cioè il costo una tantum di uno slot di carico a bordo di una portacontainer) dello Shanghai Containerized Freight Index sulla rotta Shanghai-Europa era inferiore a mille dollari per TEU (twenty-foot equivalent unit, l’unità standard che indica la capacità dei container da 6,1×2,4×2,4 metri). Alla fine dell’anno è salito a circa 4 mila dollari e alla fine di luglio 2021 a 7.395 dollari per TEU. In un anno e mezzo il rincaro è stato del 600 per cento.

Oltre a ciò, gli armatori hanno dovuto affrontare ritardi e sovrattasse e altri costi per garantire che, una volta finito il viaggio, i container vuoti ritornassero indietro velocemente, così da ovviare alla cronica penuria. Ad aprile scorso la compagnia di Amburgo Hapag Lloyd aveva acquistato 150 mila contenitori al prezzo di 550 milioni di dollari. A settembre la taiwanese Wan Hai Lines ne ha comprati 48 mila da venti piedi (sei metri) per 150 milioni. La Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo prevede che un ulteriore aumento del 10 per cento delle tariffe di trasporto dei container, insieme a interruzioni della catena di approvvigionamento, ridurrà la produzione industriale negli Stati Uniti e in Europa di oltre l’uno per cento, mentre in Cina la produzione dovrebbe diminuire dello 0,2 per cento.

Ma un’altra conseguenza della crisi delle spedizioni è che si sta cominciando a guardare con occhi diversi un oligopolio armatoriale che nei fatti è del tutto legittimo.

Biciclette, mobili, cellulari, giocattoli, infradito, slime, scarpe, vestiti, persino la frutta e gran parte dei beni di consumo sono trasportati nei container, che negli anni Cinquanta del Novecento standardizzarono e rivoluzionarono i commerci. Le compagnie marittime specializzate in questo tipo di trasporto sono oggi organizzate in tre grandi alleanze armatoriali, nate una decina di anni fa per ragioni economiche opposte a quelle che si stanno vivendo oggi.

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Sono principalmente tre. La 2M, formata dalla danese Maersk e l’elvetica Msc; Ocean Alliance, dalla francese Cma Cgm, dalla cinese Cosco Shipping, dalla taiwanese Evergreen e dalla OOCL di proprietà Cosco; e infine THE Alliance, formata dalla tedesca Hapag Lloyd e dalla giapponese Yang Ming. C’è n’e anche una quarta, minore rispetto alle altre, ONE, formata dalle nipponiche Nyk, MOL e K Line.

Ogni alleanza si muove come un’unica compagnia, stabilendo numero e frequenze dei servizi, gli approdi e i costi di noleggio (intervendo sulla disponibilità degli spazi di carico a bordo). È un modo per razionalizzare il trasporto, garantendo alla catena logistica (spedizionieri, autotrasportatori, stazioni ferroviarie, terminal container, corrieri, interporti) un riferimento unico, stabile. Dieci anni fa l’offerta di stiva a bordo, contrariamente ad oggi, era enorme. Dopo la crisi finanziaria del 2008, che ridimensionò fortemente la domanda di consumo e quindi di trasporto, la flotta mercantile mondiale soffriva di sovracapacità (oversupply): c’erano troppe navi in giro per troppo poco carico da trasportare. Allora i beni da trasportare erano nettamente inferiori agli spazi disponibili sui mercantili e i costi di trasporto scesero al punto da avvicinarsi allo zero, in alcuni casi. In altre parole, le navi in quel periodo viaggiavano mezze vuote.

Nel giugno del 2015 lo Shanghai Containerized Freight Index tra Cina ed Europa, il tasso medio di nolo marittimo, era di 243 dollari per TEU. In alcuni casi, il trasporto di un container arrivò a costare in negativo per 56 dollari: in altre parole, le compagnie marittime pagavano i clienti per portare le merci dall’Asia verso l’Europa, invece del contrario. È capitato che in alcune spedizioni un paio di infradito percorresse 22mila chilometri (più o meno la distanza coperta da un mercantile dall’Asia all’Europa) a un costo inferiore ai cinque centesimi.

La migliore economia di scala possibile era quella del mercantile, per la convenienza economica di decine di migliaia di tonnellate di merce in un singolo viaggio: ma questa caratteristica finì per ripercuotersi contro le compagnie marittime stesse. Si indebolì,  anche se per pochi anni, il meccanismo alla base delle delocalizzazioni delle industrie occidentali in Asia, che nell’equilibrio tra domanda e offerta di trasporto mercantile aveva uno dei suoi fulcri, cioè la possibilità di trasportare a costi molto bassi potendo spedire tanta merce in una sola volta. Un sistema conveniente finché i costi non diventano così bassi da non essere più convenienti per chi trasporta.

Dieci anni fa, quindi, le alleanze armatoriali furono un tentativo di risolvere un grave problema dei trasporti allineando l’offerta di stiva alla domanda di trasporto, per rendere il noleggio marittimi di nuovo profittevole. L’effetto ebbe enormi conseguenze. Oggi, come ha sottolineato nel 2018 l’International Transport Forum (ITF), organizzazione intergovernativa dell’OCSE, il trasporto marittimo su container è un monopsonio, cioè una situazione di mercato in cui ci sono pochissimi acquirenti di trasporto – tre alleanze armatoriali formate da nove compagnie che controllano fino all’80 per cento del volume di trasporto mondiale dei beni di consumo – e tantissimi venditori, cioè le imprese logistiche (terminal terrestri, portuali; flotte di camion, di treni, magazzini, interporti). Questo è il primo squilibrio determinato da alleanze così grosse.

Il secondo è stato che, in parte grazie alla stabilità operativa delle alleanze, gli armatori negli ultimi anni stanno verticalizzando i servizi, cioè non offrono più solo trasporto marittimo ma anche servizi terrestri, controllando in alcune regioni la quasi totalità della catena logistica, dalla fabbrica alla consegna in negozio o in casa, entrando quindi in competizione con le altre imprese di trasporto. Gli armatori, quelli più grandi, oggi sono dei consolidati gruppi logistici, gestiscono società ferroviarie merci, terminal portuali, flotte di camion.

Il problema è che pagano pochissime tasse: la loro aliquota media sul reddito è intorno al 7 per cento (facendo una media degli stati di bandiera). Per gli spedizionieri è in media del 27 per cento, come ha sottolineato all’inizio dell’anno la Fedepsedi. ITF va ancora più al ribasso e ha calcolato un’aliquota dell’imposta sul reddito del 2 per cento per 41 compagnie di navigazione quotate alla Borsa di New York nel periodo 2010-2019. L’aliquota media mondiale dell’imposta sul reddito delle società in tutti i settori è del 24 per cento. La global minimum tax, approvata dal G20 il mese scorso e che dovrebbe entrare in vigore nel 2023 con un’aliquota minima del 15 per cento, ha incontrato ovviamente la contrarietà degli armatori.

Com’è possibile che le compagnie marittime paghino così poche tasse, pur essendo imprese del tutto private? In Europa la legittimazione delle alleanze armatoriali viene dal Block Exemption Regulation, un meccanismo che le esonera dalle indagini antitrust, quelle su monopoli e concorrenza. A marzo del 2020, in piena pandemia, è stato prorogato fino al 2024. La logica del Block Exemption Regulation, così come quella dell’imponibile che prescrive, è che il trasporto marittimo dei container è vitale per l’economia e la società. Richiede perciò alcune eccezioni per evitare che sia soggetto del tutto alla competizione di mercato, cosa che renderebbe meno affidabile e stabile il servizio marittimo, che già spostandosi da un continente all’altro attraversando gli oceani non può garantire, per esempio, gli stessi orari di un treno, di un camion, di un aereo.

Il trasporto marittimo controbilancia questo svantaggio, però, con enormi economie di scala e di affidabilità del trasporto (gli incidenti e la perdita del carico sono molto rari). I servizi marittimi, che trasportano fino al 90 per cento di quello che compriamo e produciamo, devono essere granitici per garantire l’approvvigionamento. Una cosa simile vale per il trasporto terrestre per eccellenza, il camion (molto più del treno). Le società di trasporto su gomma, in Italia come in altri Paesi europei, ogni anno ricevono gli aiuti pubblici necessari a garantire la continuità dell’approvvigionamento, pagando però più o meno le stesse aliquote della media delle imprese.

Come sottolineano da tempo quasi tutti gli operatori del trasporto, insomma, il problema è che gli armatori si muovono in un contesto privilegiato, concorrendo con chi (gli spedizionieri, i corrieri, gli autotrasportatori, i terminal portuali, le società ferroviarie) questi privilegi non li ha. Anche negli Stati Uniti le compagnie marittime sono esentate da alcune regole antitrust per quanto riguarda i conglomerati o le alleanze armatoriali focalizzate sui servizi marittimi, sempre per garantire la stabilità dell’approvvigionamento delle merci.

Da qualche settimana però la Casa Bianca sta spingendo l’organismo di controllo di settore, la Federal Marittime Commission, a indagare sul rincaro dei noli marittimi e sui meccanismi di aggravio dei costi dei container vuoti in sosta che le imprese armatoriali addebitano ai cosiddetti caricatori, cioè le imprese di trasporto terrestri: generalmente autotrasportatori e agenzie di spedizione

Tutti questi problemi e storture contribuiscono alla previsione della Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo secondo cui, continuando così, i prezzi al consumo globali aumenteranno in modo significativo il prossimo anno. A pagare saranno soprattutto i paesi insulari e quelli in via di sviluppo. I primi perché importano più dei Paesi-terraferma, i secondi perché la loro crescita dipende particolarmente da collegamenti marittimi stabili e veloci.

L’analisi mostra che l’attuale aumento delle tariffe di trasporto dei container, se sostenuto, potrebbe aumentare i prezzi delle importazioni globali dell’11 per cento e i livelli dei prezzi al consumo dell’1,5 per cento da qui al 2023. «L’attuale aumento dei noli avrà un profondo impatto sul commercio e minerà la ripresa socioeconomica, specialmente nei paesi in via di sviluppo», ha detto la segretaria generale della Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo Rebeca Grynspan. «Il ritorno alla normalità implicherebbe investimenti in nuove soluzioni, tra cui infrastrutture, tecnologia del trasporto merci e digitalizzazione».

L’impatto delle alte tariffe di nolo sui costi all’ingrosso e al dettaglio non sarà distribuito uniformemente, anche all’interno dell’Europa. Sarà generalmente maggiore nelle economie più piccole, negli stati insulari e in quelli in via di sviluppo, che potrebbero vedere un aumento dei prezzi all’importazione del 24 per cento e dei prezzi al consumo del 7,5 per cento. Nei paesi meno sviluppati i livelli dei prezzi al consumo potrebbero aumentare del 2,2 per cento.

Gli articoli a basso valore aggiunto prodotti nelle economie più piccole potrebbero subire una grave erosione dei loro vantaggi comparativi. Inoltre, abbondano le preoccupazioni secondo le quali i costi di spedizione più elevati potrebbero pesare a tal punto su esportazioni e importazioni da minare la ripresa. L’Europa, per esempio, sta già vivendo da diversi mesi carenze di prodotti importati dall’Asia come mobili per la casa, biciclette, articoli sportivi e giocattoli.

Secondo il rapporto della Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo, trasporti così cari avranno un impatto anche su articoli a basso valore aggiunto come mobili, tessuti, abbigliamento e prodotti in pelle, la cui produzione è spesso frammentata in economie a basso salario lontane dai mercati di consumo. Per quanto riguarda questi prodotti, si prevedono aumenti dei prezzi al consumo del 10,2 per cento. Entro i prossimi due anni si prevede un aumento del 9,4 per cento dei costi di produzione di gomma e plastica, del 7,5 per cento dei prodotti farmaceutici e delle apparecchiature elettriche, del 6,9 per cento degli autoveicoli e del 6,4 per cento per i macchinari e le attrezzature.

Rincari che però non vanno ridotti al monopsonio armatoriale o al rincaro delle materie prime. La Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo sottolinea che i costi di trasporto sono influenzati anche da fattori strutturali, tra cui la qualità dell’infrastruttura portuale e una connettività marittima poco capillare e concentrata in grandi porti commerciali.

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C’è il potenziale per miglioramenti significativi, per esempio tramite una massiccia digitalizzazione. La Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo si lancia in previsioni dalle percentuali molto precise che, pur lasciando il tempo che trovano, provano a valutare l’impatto di alcuni interventi. Migliorare la qualità delle infrastrutture portuali, per esempio con gru di ultima generazione, digitalizzazione dei terminal, sensoristica all’avanguardia e automazione, ridurrebbe i costi medi mondiali del trasporto marittimo del 4,1 per cento; una campagna di incentivi pubblici per il commercio li ridurrebbe di un ulteriore 3,7 per cento; migliorare la connettività dei servizi marittimi, rendendoli più razionali, diffusi, capillari e meno concentrati in pochi grandi porti per Paese, del 4,4 per cento.

Al di là di queste cifre previsionali così precise, il margine di miglioramento delle infrastrutture portuali è ampio. La congestione che i grandi porti del mondo stanno vivendo in questo periodo potrebbe sensibilmente diminuire con interventi sul miglioramento del flusso logistico portuale tramite la modernizzazione delle infrastrutture. Sono interventi di lungo termine, che richiederebbero anni, se non decenni in alcuni casi: anche perché necessitano di una riorganizzazione delle politiche statali relative ai porti.