I migranti indiani diventati CEO di Big Tech

Il nuovo capo di Twitter, Parag Agrawal, è solo l'ultimo in un folto gruppo di dirigenti che controllano Microsoft, Google e altri

Satya Nadella, Parag Agrawal e Sundar Pichai (Getty Images)
Satya Nadella, Parag Agrawal e Sundar Pichai (Getty Images)

Dalla fine di novembre, Parag Agrawal è il nuovo CEO di Twitter in seguito alle dimissioni di Jack Dorsey, il cofondatore del social network. Agrawal si è aggiunto al gruppo sempre più folto di amministratori delegati di origini indiane che controllano alcune delle più grandi aziende tecnologiche del mondo e che hanno sede negli Stati Uniti.

È una circostanza particolare, che ha motivi storici ed economici, legati alla tradizione delle università tecniche in India e ai sistemi per concedere visti di studio e di lavoro previsti dalle leggi statunitensi.

Tra i CEO di origini indiane più famosi nella Silicon Valley c’è Sundar Pichai, a capo di Alphabet e della sua controllata Google. Pichai ricopre questo incarico dal 2015, quando il cofondatore della società Larry Page aveva scelto di rassegnare le proprie dimissioni. Ci sono poi il CEO di Microsoft, Satya Nadella, quello di Adobe, Shantanu Narayen e il CEO di IBM, Arvind Krishna. Messi insieme, controllano aziende con un valore di mercato complessivo intorno ai 5mila miliardi di dollari.

Agrawal e gli altri hanno storie simili, legate alla loro formazione in uno degli Istituti indiani di tecnologia (Indian Institutes of Technology, IIT), le università specializzate soprattutto nella formazione informatica. Gli IIT sono pubblici e la loro storia risale a poco prima dell’indipendenza indiana dal Regno Unito nel 1947, quando era nata la necessità di organizzare meglio la formazione universitaria in ambito scientifico e tecnologico nel paese.

Gli IIT sono oggi presenti in 23 città dell’India e sono considerati atenei prestigiosi non solo tra gli indiani, ma anche nei paesi occidentali dove è via via aumentata la domanda di ingegneri elettronici, informatici, sviluppatori e progettisti da parte delle aziende informatiche. La loro frequentazione garantisce grandi opportunità lavorative e per questo ogni anno milioni di giovani fanno domanda d’iscrizione, sottoponendosi a un processo di selezione alquanto severo.

Per l’esame di ingresso organizzato nel 2021, per esempio, si stima che si siano iscritti oltre 2,2 milioni di candidati per 16mila posti disponibili nelle varie facoltà. I posti sono ambiti e oltre alla severità dei test ci sono regole di ingresso per ridurre gli effetti del sistema delle caste, che seppure formalmente abolito continua a condizionare profondamente l’organizzazione della società in India.

Il 15 per cento dei posti disponibili è per le cosiddette “caste riconosciute” (“Scheduled Castes” o “Dalit/Paria” definiti un tempo “intoccabili”) e il 7,5 per cento per gli appartenenti alle “tribù riconosciute” (“Scheduled Tribes” o “Adivasi”), i vari gruppi sociali svantaggiati e storicamente emarginati per i quali è in corso ancora oggi un lento processo di emancipazione. Ciò implica che in alcuni casi siano ammessi studenti con punteggi lievemente al di sotto della media, indice delle diverse opportunità di accesso alle istituzioni scolastiche prima dell’università.

Nonostante i metodi di selezione, gli studenti Dalit dicono di subire discriminazioni nei loro corsi di studi e di vivere in ambienti dove sono comunque emarginati, rispetto agli appartenenti alle caste più alte e ricche. È una circostanza che si registra in diversi altri ambiti della società indiana, nonostante la Costituzione del paese abbia riconosciuto i princìpi della laicità e dell’egualitarismo, promuovendo leggi per favorire l’integrazione degli emarginati. Il sistema delle caste si è evoluto con l’emergere della classe media urbana, dove sono soprattutto i risultati economici a contare, ma continuano a esserci minori possibilità di accesso per i Dalit, che difficilmente riescono a riscattarsi da condizioni di forte povertà. I Dalit in tutto il paese sono circa 200 milioni su 1,4 miliardi di abitanti.

Negli IIT, gli appartenenti alle classi più ricche hanno di solito maggiori opportunità di carriera, ma è comunque vero che la formazione ricevuta consente a chi parte più svantaggiato di trovare lavoro o di proseguire gli studi all’estero, grazie a vari programmi per corsi post-laurea e dottorati.

Gli Stati Uniti sono una delle principali destinazioni degli studenti delle IIT, i cui corsi di studio hanno elementi in comune con quelli degli atenei statunitensi. Il tipo di selezione con i test di ingresso, l’alta competizione (con non poche storture, fonti di grandi stress per i frequentanti) e l’alto livello della formazione contribuiscono a rendere molto richiesti gli studenti indiani.

La rapida crescita degli ultimi decenni nel settore tecnologico negli Stati Uniti ha fatto sì che ci sia un’alta domanda di ingegneri informatici, progettisti e sviluppatori, che non può essere colmata attingendo unicamente dalle più importanti università statunitensi. Per questo motivo molte aziende cercano nuovi impiegati tra gli studenti degli IIT, talvolta ancora prima che questi abbiano terminato gli studi o proponendo borse di studio.

Le aziende informatiche statunitensi investono infatti in vari progetti che coinvolgono gli IIT, avviando importanti reti di relazioni. Già nel 2004, l’allora CEO di Microsoft, Bill Gates, aveva commentato il successo delle università tecniche indiane ricordando che Microsoft nel corso degli anni aveva investito più denaro negli IIT di qualsiasi altra istituzione al di fuori degli Stati Uniti e del Regno Unito.

Agrawal, il nuovo CEO di Twitter, aveva per esempio conseguito la laurea all’IIT di Mumbai nel 2005 e in seguito si era trasferito negli Stati Uniti per un dottorato presso l’Università di Stanford. Dopo avere lavorato per Microsoft e Yahoo, era stato assunto da Twitter come ingegnere informatico nel 2011. Aveva poi fatto carriera all’interno dell’azienda diventandone direttore tecnico (CTO) nel 2017 e occupandosi di vari progetti, compreso uno per realizzare un protocollo per far dialogare tra loro i social network in un sistema decentralizzato.

La sua nomina ha suscitato qualche polemica tra chi ha segnalato una discendenza di Agrawal dalla casta dei Bramini, quella cui viene riconosciuta più importanza nel sistema sociale tradizionale indiano. Alcuni hanno quindi sostenuto che la carriera del nuovo CEO di Twitter sia stata definita dal suo stato sociale, e non possa essere quindi considerata una storia di riscatto ed emancipazione. È un tema ricorrente nelle riflessioni sui lavoratori di origini indiane nella Silicon Valley, tra i quali si sarebbe ricreata una divisione che riflette quella tradizionale delle caste.

In realtà la discendenza di Agrawal è stata ricondotta ai Baniani, storicamente la casta dei mercanti e dei banchieri, oggi associata per lo più a quella degli imprenditori e dirigenti d’azienda. Al di là delle caste, Agrawal proviene da una famiglia benestante: il padre era un funzionario del ministero dell’Energia atomica indiano, mentre la madre faceva l’insegnante.

La sua storia è comune a quella di altri informatici di origini indiane, passati velocemente dalle istituzioni accademiche alle aziende statunitensi. Pichai ha 49 anni e una laurea in ingegneria metallurgica conseguita presso l’IIT di Kharagpur, oltre a un paio di master conseguiti dopo il proprio trasferimento negli Stati Uniti.

Dopo alcuni impieghi in aziende di consulenza, nel 2004 Pichai fu assunto da Google, dove negli anni seguenti si occupò dello sviluppo e della gestione di alcuni importanti progetti come quelli legati al browser Chrome e al servizio Drive per salvare e condividere i file online. Nella sua carriera si era anche occupato di diversi altri servizi offerti dall’azienda, compresi Gmail e Android, prima di diventarne CEO.

Anche le origini di Pichai sono ricondotte ai Bramini, anche se l’interessato non ha mai citato direttamente il sistema delle caste. In diverse occasioni Pichai ha comunque raccontato di essere vissuto in una famiglia relativamente benestante, con il padre ingegnere della multinazionale americana General Electric e proprietario di un’azienda che produceva componenti elettronici.

Satya Nadella, a capo di Microsoft, ha invece 54 anni e si era trasferito negli Stati Uniti alla fine degli anni Ottanta, dopo avere frequentato un’università tecnica privata. Aveva poi conseguito un master in scienze informatiche e uno in business administration. Nel 1992 aveva iniziato a lavorare per Microsoft, occupandosi soprattutto dei progetti legati alle tecnologie cloud, per la gestione di file e sistemi a distanza. È considerato tra i fautori dei principali successi nel settore dell’azienda e ricopre il ruolo di CEO dal 2014, quando si dimise Steve Ballmer, che aveva ereditato la guida della società da Bill Gates in anni piuttosto turbolenti.

Microsoft, Google, Twitter e numerose altre aziende nel settore tecnologico continuano a ricercare e assumere informatici provenienti dall’India e non solo, per accrescere la propria forza lavoro. Le assunzioni sono favorite dalle leggi statunitensi e dal sistema dei visti (come quello H-1B) che permette alle aziende di assumere lavoratori specializzati dall’estero, che siano quindi laureati o con particolari esperienze lavorative.

La durata dei visti lavorativi è di tre anni con possibilità di estensione per altri tre, al termine dei quali è previsto che il lavoratore presenti una nuova richiesta. Ogni anno viene messa a disposizione una quota limitata di visti, circa 200mila, e il sistema finisce spesso al centro del dibattito politico sull’immigrazione tra chi vorrebbe estenderne gli scopi e chi lo vorrebbe limitare sensibilmente.