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  • Mercoledì 1 dicembre 2021

Il giornalista americano imprigionato in Libia mentre indagava sui centri per migranti

Ian Urbina è stato arrestato, picchiato e chiuso in una prigione segreta per giorni, ha raccontato sul New Yorker

Il centro di detenzione per migranti di Al Mabani, in Libia, su cui Ian Urbina stava indagando prima di essere arrestato (Ian Urbina/Twitter)
Il centro di detenzione per migranti di Al Mabani, in Libia, su cui Ian Urbina stava indagando prima di essere arrestato (Ian Urbina/Twitter)

Il New Yorker ha pubblicato una lunga inchiesta del giornalista statunitense Ian Urbina, che ha raccontato di essere stato rapito e imprigionato in Libia mentre stava indagando sui campi di detenzione in cui vengono trattenuti i migranti che cercano di arrivare in Europa via mare.

I giornalisti occidentali che lavorano in Libia sono pochissimi, proprio per i rischi di torture e violenze come quelle subite da Urbina, il cui racconto è prezioso e rivelatore di quanto siano potenti e spregiudicati i gruppi armati che controllano la Libia.

Urbina stava indagando sulla storia di Aliou Candè, un migrante di 28 anni della Guinea-Bissau, morto lo scorso aprile ad Al Mabani, un centro di detenzione per migranti aperto in Libia a gennaio. Candè era stato imprigionato ad Al Mabani dopo che aveva cercato di arrivare in Europa insieme a un centinaio di altri migranti a bordo di un gommone.

Il gommone però era stato intercettato dalla cosiddetta Guardia costiera libica, e i migranti trasferiti ad Al Mabani. La Guardia costiera libica è un corpo armato molto controverso, a cui da diversi anni l’Unione Europea ha affidato il compito di impedire ai migranti che partono dalle coste della Libia di arrivare a quelle europee: spesso opera con violenza e, come sembra sia avvenuto nel caso del gommone su cui era Candè, al di fuori delle acque libiche.

Urbina era arrivato a Tripoli, in Libia, lo scorso maggio, e nei suoi primi giorni di soggiorno aveva intervistato decine di migranti per capire cosa fosse successo a Candè nel centro di Al Mabani. Il 23 maggio, mentre si trovava in albergo e stava parlando al telefono con sua moglie, alcuni uomini armati avevano fatto irruzione nella stanza, lo avevano incappucciato, gettato a terra e picchiato, rompendogli due costole.

La stessa sorte era accaduta ai membri della troupe con cui stava effettuando l’inchiesta, tra cui il fotografo libanese Pierre Kattar e la regista olandese Mea Dols de Jong. Tutti erano stati poi condotti in un luogo che secondo Urbina sarebbe una prigione segreta, non distante dall’ambasciata italiana a Tripoli. Lì erano stati interrogati per ore e Urbina era stato nuovamente picchiato. Uno dei carcerieri, che si erano identificati come membri del servizio di intelligence libico, aveva anche minacciato Mea Dols de Jong di violentarla sessualmente: «Lo vuoi un fidanzato libico?», le aveva sussurrato all’orecchio.

Urbina era stato poi messo in isolamento in una cella e interrogato nuovamente: «Sappiamo che lavori per la CIA. Qui in Libia lo spionaggio lo puniamo con la morte», gli aveva detto più volte un uomo, puntandogli anche una pistola alla testa. Urbina aveva provato a spiegare di essere un giornalista e di trovarsi in Libia per condurre un’inchiesta, ma i suoi carcerieri gli avevano risposto che era illegale intervistare i migranti.

Nel frattempo la moglie di Urbina, che aveva ascoltato al telefono i primi momenti dell’irruzione nella stanza d’albergo, aveva allertato il Dipartimento di Stato americano, che insieme al ministero degli Esteri olandese aveva poi cominciato a fare pressioni sul governo libico per ottenere la liberazione di Urbina e dei suoi colleghi. Dopo sei giorni di prigionia erano stati infine tutti liberati. Una volta fuori di prigione erano stati espulsi dalla Libia e portati in aereo in Tunisia.

Urbina non è un giornalista sprovveduto: nella sua carriera ha collaborato con diversi giornali e riviste importanti fra cui il New York Times e l’Atlantic, e si occupa spesso di violazioni dei diritti umani. Che le milizie libiche abbiano potuto arrestare un giornalista occidentale, peraltro piuttosto famoso nel suo campo, fa capire bene di quanta libertà godano al momento in Libia, un paese che sta faticosamente cercando di uscire da una guerra civile iniziata nel 2011.

Anche se Urbina non ha potuto concludere la sua inchiesta sulla morte di Aliou Candè, in base alle testimonianze raccolte prima di essere arrestato è riuscito ricostruirne la storia e a raccontarla sul New Yorker.

A dicembre del 2020 Candè aveva raggiunto Tripoli, e dopo aver passato più di due mesi nella baraccopoli del quartiere di Gargaresh, a febbraio si era imbarcato su un gommone di fortuna insieme a più di 100 migranti per arrivare alle coste europee. Dopo due ore di navigazione, raggiunte le acque internazionali e superata la zona di competenza delle autorità libiche, Candè e gli altri migranti credevano di essere in salvo, ma a quel punto il gommone era stato intercettato dalla cosiddetta Guardia costiera libica.

Erano stati quindi riportati tutti sulla terraferma e imprigionati a Al Mabani, dove erano stati costretti in celle anguste, in condizioni igieniche precarie e con la minaccia di subire violenze nel caso in cui avessero provato a fuggire.

L’8 aprile alcuni detenuti sudanesi avevano provato a organizzare una fuga dal centro, ma altri migranti avevano cercato di farli desistere, spiegando loro che scappare sarebbe stato impossibile e che le guardie si sarebbero vendicate picchiando tutti i detenuti. Ne era nata prima una rissa tra gli stessi migranti, poi erano intervenute le guardie del centro, che avevano sedato la ribellione sparando a caso contro i migranti. Candè, secondo quanto detto a Urbina da alcuni suoi compagni di cella, non aveva partecipato alla rissa e si era nascosto in una doccia.

Ciononostante poco dopo era stato trovato senza vita. Secondo l’autopsia effettuata dalle autorità libiche, sarebbe morto a causa di colpi subiti nel corso della rissa ma, in base a quanto riferito da una fonte anonima a Urbina, in realtà Candè sarebbe morto dopo essere stato colpito da un proiettile sparato dalle guardie.

Il suo corpo è stato seppellito il 30 aprile al cimitero di Bir al-Osta Milad, vicino a Tripoli, in mezzo a centinaia di altre tombe dove si trovano le salme dei migranti morti annegati nel tentativo di arrivare in Europa partendo dalla Libia.