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  • Giovedì 4 novembre 2021

L’impegno dell’India per il clima ha le sue ragioni

Alla COP26 ha annunciato la neutralità carbonica 20 anni dopo Europa e Stati uniti, e ha chiesto aiuto per questioni di «giustizia»

Un gruppo di lavoratori intento a caricare del carbone su un camion vicino a Dhanbad, nello stato indiano del Jharkhand, il 24 settembre 2021 (AP Photo/Altaf Qadri, La Presse)
Un gruppo di lavoratori intento a caricare del carbone su un camion vicino a Dhanbad, nello stato indiano del Jharkhand, il 24 settembre 2021 (AP Photo/Altaf Qadri, La Presse)

Il primo novembre, dalla COP26 di Glasgow, il primo ministro dell’India Narendra Modi ha annunciato che il suo paese si impegnerà a raggiungere la neutralità carbonica, cioè che smetterà di diffondere nell’atmosfera più gas serra di quanti può assorbirne, entro il 2070. Questa promessa è stata derisa e criticata da alcuni, che l’hanno giudicata inadeguata all’emergenza climatica, ma è anche descritta come coraggiosa e importante da molti giornali. La ragione di questa differenza di reazioni è dovuta al fatto che da un lato l’India è il terzo paese per emissioni di gas serra al mondo, dall’altro è il 145esimo paese al mondo per PIL pro capite, ha una popolazione in crescita che oggi conta già 1,38 miliardi di persone e usa elettricità prodotta per metà col carbone, il combustibile fossile più inquinante.

La situazione dell’India è emblematica di uno dei più grossi problemi relativi alla crisi climatica: la difficoltà di conciliare gli interventi per ridurre le emissioni con le esigenze dei paesi con economie ancora in via di sviluppo e povertà molto diffusa tra la popolazione.

Se si considera unicamente il clima, l’obiettivo dell’India appare fuori tempo massimo. La Cina, che è responsabile del 27 per cento delle emissioni prodotte attualmente, ha promesso di arrivare alla neutralità carbonica entro il 2060. Gli Stati Uniti, che sono il secondo paese per emissioni (ne producono il 12 per cento del totale), entro il 2050. Lo stesso ha fatto l’Unione Europea, che presa nella sua interezza produce anche più emissioni dell’India, pur avendo una frazione degli abitanti: a entrambe si riconduce circa un 7 per cento del totale.

Tuttavia giudicare la promessa fatta da Modi semplicemente guardando questo grafico è riduttivo e ingiusto, come hanno sottolineato molti attivisti ambientalisti. Innanzitutto da un punto di vista storico. Infatti se si considerano le emissioni prodotte dai paesi del mondo in un arco temporale più ampio degli ultimi anni, ad esempio dal 1960, l’India scende al sesto posto della classifica.

Non è comunque l’unico aspetto da considerare per valutare il ruolo dell’India rispetto al cambiamento climatico. Per dare un giudizio equo sulle emissioni, bisogna considerare quante sono in relazione alla popolazione, cioè per abitante.

I paesi il cui contributo pro capite è maggiore sono perlopiù paesi produttori di combustibili fossili con popolazioni ridotte (come il Qatar, il Kuwait e gli Emirati Arabi Uniti), che in termini assoluti sono responsabili di meno dell’1 per cento delle emissioni globali. Si può dare un giudizio più ponderato andando a vedere le emissioni pro capite dei paesi che più contribuiscono in termini di emissioni totali: nella classifiche che si ottengono in questo modo l’India scende agli ultimi posti.

Il sito di divulgazione su clima ed energia Carbon Brief ha anche provato a fare delle stime sulle responsabilità climatiche dei vari paesi considerando sia le emissioni storiche che la popolazione: è un’analisi piuttosto complessa, ma basti sapere che facendola sia l’India che la Cina, ma anche il Brasile e l’Indonesia, non compaiono tra i primi venti paesi con maggiori responsabilità.

Questi dati vanno poi integrati con un’ulteriore osservazione: i paesi con le economie più sviluppate – gli Stati Uniti, i paesi dell’Europa occidentale, il Giappone – hanno da anni spostato parte della propria produzione industriale all’estero, ad esempio in Cina e in India, dove il costo del lavoro è più basso e le regole di protezione ambientale meno restrittive. Dunque volendo fare un discorso di responsabilità il più generale possibile, una parte delle emissioni indiane – e molte di quelle cinesi – si possono comunque ricondurre agli Stati Uniti e all’Unione Europea. È un discorso simile a quello che si può fare sui rifiuti di plastica presenti negli oceani: provengono in gran parte da fiumi asiatici, ma i paesi occidentali hanno esportato per decenni i propri rifiuti di plastica in Cina e altri paesi di quella parte del mondo.

Infine, bisogna tenere conto del fatto che le emissioni sono legate alla crescita economica e che finora quella dell’India non ha ancora portato fuori dalla povertà una grande parte della sua popolazione. Secondo i dati della Banca Mondiale, nel 2020 il PIL pro capite dell’India era pari a 1.900 dollari; quello dell’Italia a più di 31mila dollari. Lo stesso discorso si può fare per molti altri paesi asiatici e africani. Nelle attuali condizioni di questi paesi è impensabile immaginare che il passaggio a un’economia totalmente basata su fonti di energia rinnovabili possa avvenire negli stessi tempi di economie più avanzate e già in buona parte meno inquinanti come quelle europee.

Tuttavia, nonostante le diverse responsabilità storiche e contemporanee nella produzione di emissioni di gas serra, oggi tutto il mondo deve cercare di ridurre le proprie emissioni per evitare le conseguenze peggiori del cambiamento climatico. Il primo grande accordo internazionale sul clima, il Protocollo di Kyoto del 1997, chiedeva una riduzione delle emissioni solo ai paesi con le economie più sviluppate, ma fin dalla COP17, svoltasi a Durban, in Sudafrica, nel 2011, si decise che per il futuro serviva una collaborazione globale: l’Accordo di Parigi riguarda tutti i paesi del mondo – esclusi quei pochi che ancora non lo hanno ratificato.

Un impegno dell’India per la riduzione delle emissioni era dunque contemplato nell’Accordo. È arrivato in ritardo rispetto a quello di molti altri paesi – prima di lunedì non era mai stata fissata una data entro la quale l’India avrebbe cercato di arrivare alla neutralità carbonica – ma nonostante le apparenze non è per forza insufficiente per rispettare l’obiettivo più ambizioso fissato a Parigi, quello di mantenere l’aumento delle temperature medie sotto 1,5 °C rispetto ai livelli pre-industriali.

Secondo l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) dell’ONU infatti bisognerebbe raggiungere la neutralità globale di emissioni di anidride carbonica (CO2) entro la metà del secolo, ma per le emissioni degli altri gas serra, alcune più complicate da ridurre, si può arrivare anche al 2070, l’orizzonte temporale indicato dall’India, per raggiungere la neutralità – avendo azzerato prima le emissioni nette di CO2. Invece per mantenere l’aumento delle temperature medie sotto 2 °C rispetto ai livelli pre-industriali (l’obiettivo meno ambizioso dell’Accordo) è il 2070 l’anno entro cui arrivare alla neutralità globale di CO2.

Non sono ancora stati stimati nello specifico gli impatti sul clima della promessa indiana, anche perché Modi non ha fornito un piano dettagliato sugli obiettivi a breve termine. Ha solo promesso che entro il 2030 l’India userà fonti di energia non fossili per coprire la metà del suo fabbisogno energetico (oggi le usa per il 39 per cento, nucleare compreso, secondo le stime del governo; per il 20 per cento secondo quelle dell’Agenzia internazionale dell’energia) e che per quell’anno ridurrà le sue emissioni di anidride carbonica di 1 miliardo di tonnellate senza ridimensionare le attività economiche.

Modi non ha detto nulla su cosa succederà nei quarant’anni tra il 2030 e il 2070 ma ha dato un’indicazione di massima su come l’India conta di decarbonizzare la sua economia: con l’aiuto dei paesi con economie più sviluppate. «L’India si aspetta che le nazioni sviluppate del mondo mettano a disposizione mille miliardi di dollari di fondi per il clima», ha detto Modi, chiedendo sostegno sia per il suo paese che per gli altri in condizioni simili senza specificare quale parte di questa somma vorrebbe l’India.

Nel 2009, alla COP15 di Copenaghen, era stato deciso che i paesi in maggiore difficoltà avrebbero ricevuto 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020, ma l’anno scorso sono stati raggiunti solo 80 miliardi. Oggi i paesi in via di sviluppo vorrebbero che i fondi fossero aumentati dal 2025 in poi e la richiesta di Modi è la più alta che sia stata fatta. «Giustizia vuole che i paesi che non hanno mantenuto le loro promesse ricevano pressioni», ha detto il primo ministro indiano.

Lo scopo principale dei fondi finora concordati era finanziare iniziative di adattamento, che cioè permettessero ai paesi meno ricchi di far fronte alle conseguenze più gravi del cambiamento climatico, a cui tra l’altro sono più esposti rispetto ai paesi europei e agli Stati Uniti. L’India in particolare avrebbe un grande interesse nel contrastare il riscaldamento globale, perché è particolarmente vulnerabile agli eventi meteorologici come forti ondate di calore e inondazioni, che sono resi più estremi dall’aumento delle temperature globali. Per Modi, inoltre, gli aiuti finanziari dovrebbero servire anche a progetti di decarbonizzazione dell’economia.