Curare le fobie con la realtà aumentata

Come ad esempio quella per i ragni, tramite forme di esposizione controllata da mettere in pratica con una app

aracnofobia app
App Phobys, Università di Basilea (Unibas.ch)

Un gruppo di ricerca dell’Università di Basilea ha recentemente sviluppato e provato con successo un’applicazione per smartphone basata sulla realtà aumentata (AR) che potrebbe contribuire a ridurre le forme lievi di una delle più conosciute e diffuse fobie di animali: l’aracnofobia, o paura degli aracnidi, un gruppo di artropodi che include ragni, scorpioni, zecche e acari.

La app, chiamata Phobys, mostra l’immagine di un ragno in 3D sovrapposta all’ambiente reale visualizzato attraverso lo smartphone, un tipo di esperienza digitale generata anche da altre applicazioni esistenti di realtà aumentata, tecnicamente simili. Nelle intenzioni del gruppo di ricerca e della società di sviluppo MindGuide, spin-off dell’Università di Basilea, dovrebbe funzionare come una forma di terapia dell’esposizione, un tipo di terapia cognitivo-comportamentale in grado di alleviare le fobie attraverso l’introduzione graduale della situazione o dell’oggetto temuto nell’esperienza del paziente.

In uno studio su un campione di 66 persone, pubblicato sulla rivista scientifica Journal of Anxiety Disorders, le ricercatrici e i ricercatori dell’Università di Basilea hanno registrato reazioni di minore paura di fronte ai ragni (veri) da parte delle persone che avevano precedentemente utilizzato la app per due settimane, in sei sessioni da mezz’ora ciascuna, rispetto a quelle che non avevano ricevuto alcun intervento.

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Nella app ci sono nove livelli di difficoltà, stabiliti in base al tipo di interazione, minore o maggiore, che è possibile avere con il ragno virtuale. Dopo ciascun livello è prevista una valutazione della propria paura rispetto al livello appena terminato, e sulla base delle risposte la app indica se è possibile passare al livello successivo. Gli sviluppatori sottolineano che è progettata per persone con «una paura lieve e clinicamente insignificante dei ragni», suggerendo invece a quelle affette da paure più gravi la consultazione di uno specialista prima dell’utilizzo della app.

Nella letteratura scientifica sulle fobie specifiche – disturbi definiti come stati di paura o ansia persistenti attivati da una determinata situazione o un determinato oggetto – la condizione clinica debilitante è un fenomeno che interessa una percentuale compresa tra il 3 e il 15 per cento della popolazione mondiale. Le fobie per determinati animali, come i serpenti o gli insetti, sono tra le più comuni in assoluto: ne soffre il 40 per cento degli oltre 10 milioni di persone affette da un qualche tipo di fobia negli Stati Uniti, secondo un rapporto della American Psychological Association, la più grande associazione americana di psicologi.

Una delle caratteristiche delle fobie, le cui espressioni tipiche spesso appaiono irragionevoli anche a chi ne è affetto, è la loro capacità di suscitare reazioni apparentemente sproporzionate rispetto agli stimoli e indurre comportamenti il cui obiettivo è soltanto evitare o mascherare la situazione che genera la fobia. La terapia dell’esposizione è generalmente considerata la cura di maggior successo e consiste nel presentare al paziente ripetutamente ma in un ambiente sicuro la situazione o l’oggetto spaventosi, nel tentativo di indurre una desensibilizzazione e permettergli di sviluppare una sorta di tolleranza all’esposizione stessa.

Alla base di questo approccio, secondo il docente di psichiatria clinica al Weill Medical College della Cornell University di New York ed editorialista del New York Times Richard Alan Friedman, c’è l’idea che i pazienti possano stabilire nuove connessioni mentali acquisendo «un nuovo ricordo sicuro che risiede nel cervello insieme al brutto ricordo». E «finché il nuovo ricordo ha il sopravvento, la paura è soppressa».

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Tralasciando un approccio farmacologico sperimentale basato sull’assunzione di propranololo (un principio attivo in grado di inibire gli effetti della noradrenalina, un neurotrasmettitore coinvolto nel consolidamento della memoria), negli ultimi anni la ricerca di cure per le fobie si è in parte concentrata sugli sviluppi delle tecnologie della realtà aumentata e virtuale, da alcuni psichiatri viste come un’opportunità per rafforzare l’approccio terapeutico basato sull’esposizione e, in particolare, per superarne alcuni limiti pratici.

Uno dei limiti principali dell’approccio tradizionale è rappresentato dalla difficoltà nel trovare e configurare scenari di esposizione iniziale che il paziente affetto da una fobia specifica ritenga accettabile affrontare. Nel caso dell’aracnofobia, per esempio, la paura dei ragni è in alcuni casi tale da rendere qualsiasi esposizione inaccettabile e la terapia sostanzialmente impraticabile. L’utilizzo della realtà aumentata e virtuale ha permesso in parte di aggirare questa difficoltà, producendo risultati incoraggianti e paragonabili a quelli ottenuti in condizioni di esposizione reale.

Una revisione di studi precedenti sulla terapia dell’esposizione nella cura delle fobie, pubblicata nel 2019 sulla rivista Frontiers in Psychology, ha concluso che il metodo basato sulla realtà virtuale è efficace quanto l’esposizione “in vivo” per quanto riguarda le fobie specifiche (come l’aracnofobia) e l’agorafobia (la paura di trovarsi in situazioni in cui potrebbe non essere disponibile una via di fuga né un aiuto).

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Nello stesso studio di revisione la terapia basata sulla realtà virtuale non era invece giudicata efficace quanto l’approccio basato su altre forme più convenzionali di terapia cognitivo-comportamentale e sulle interazioni sociali per quanto riguarda la cura della fobia sociale (o disturbo d’ansia sociale). La fobia sociale è definita come una condizione di paura intensa e clinicamente significativa sperimentata in situazioni sociali in cui l’individuo è esposto all’osservazione e alla possibile valutazione da parte di altre persone (parlare in pubblico, per esempio).

L’efficacia della realtà virtuale nella cura di alcune fobie specifiche è ritenuta per diversi aspetti poco sorprendente. Con il crescere del grado di coinvolgimento fornito dall’esperienza virtuale – un’immagine che, per esempio, riempie abbastanza la visione periferica – il cervello passa dal trattare le informazioni visive come provenienti da uno schermo al trattarle come se si trovasse immerso nello spazio fisico contenente quelle informazioni. «Una volta che l’input visivo è trattato come il tuo ambiente fisico reale (per costruire la percezione della realtà da parte del tuo cervello), tutte le reti cerebrali a valle sono coinvolte, inclusa la paura», ha scritto Steven Novella, neurologo statunitense e docente alla scuola di Medicina dell’Università di Yale.

Secondo Novella, anche se il soggetto è consapevole di trovarsi di fronte a una realtà virtuale, «le parti più primitive del cervello reagiscono come se fosse la realtà fisica». E l’utilizzo di questi nuovi strumenti nella cura delle fobie, eventualmente anche in aggiunta alle terapie tradizionali, potrebbe comportare diversi vantaggi, inclusi i costi più bassi e la disponibilità per un maggiore numero di pazienti. «Un simulatore di aeroplani in VR che puoi utilizzare a casa tua è più conveniente che riprodurre l’esperienza di volare in aereo nella realtà fisica».