Le nove volte di Beirut
Racconti e ricordi da una città in mezzo all'ennesima crisi della sua storia, che «era la Parigi del Medio Oriente, e oggi è la Raqqa del Mediterraneo»
di Luigi Farrauto
La pandemia è piombata su Beirut in pieno fermento per la thawra – “la rivoluzione”, una serie di manifestazioni di piazza contro l’establishment libanese che chiedevano le dimissioni del governo. L’agosto scorso una delle esplosioni più potenti della storia ha letteralmente squarciato la città, oltre a uccidere 215 persone. Nel frattempo il Libano sta attraversando la crisi più grave dal 1850. Dopo la fine della guerra civile nel 1990, l’economia del paese ha contato molto sulle rimesse dei libanesi all’estero. Dal 2011, però, con la crisi globale queste hanno iniziato a diminuire, e per favorire gli investimenti il governo – peraltro notoriamente corrotto – ha introdotto interessi fino al 15%. Finché la bolla non è scoppiata, e la valuta ha perso ogni valore.
Oggi in Libano i prezzi di alcuni prodotti sono triplicati e gli stipendi sempre più bassi. Manca il governo da un anno e negli ospedali iniziano a mancare i medicinali. Metà della popolazione è ai limiti della soglia di povertà. L’elettricità c’è solo qualche ora la mattina e la sera. I miei amici mi consigliano di evitare la carne nei ristoranti, poiché i frigoriferi vanno a singhiozzo; ma fy kahraba’, non c’è corrente: la frase più utile da sapere in questi giorni. In casa chi se lo può permettere fa da sé e usa generatori privati, per i quali il gasolio però scarseggia ed è sempre più caro. I benzinai hanno le cisterne vuote, le pompe aprono solo quando arriva il rifornimento, e nel frattempo gli automobilisti lasciano le auto in code lunghe anche 3 chilometri, in attesa di sapere quando tornare per mettersi in fila. Per quanto tempo, però, lo sanno tutti: «Almeno quattro ore, in sha’ Allah. Forse cinque»
Io invece sono alla festa di compleanno dell’amico di un amico, al quattordicesimo piano di un palazzo di quelli con le facciate in vetro. Sulla terrazza dell’appartamento c’è persino una piscina, pure in vetro, che pare sospesa nel vuoto e mi fa venire i brividi solo a immaginarmici a mollo. Ho un cocktail in mano e nell’altra lo smartphone acceso. Beirut abitua a cambiamenti di tono e registro repentini, fatta com’è della somma di una miriade di comunità e religioni che creano una rigogliosa complessità urbana.
Sono a Gemmayzeh, quartiere cristiano, in una zona abitata da gente molto ricca. Incontro il proprietario di casa, Roger. Belloccio, mocassini di Prada, pantaloni stretti sulle caviglie, camicia di lino a righe. «Bel panorama, complimenti». Lui ne è ovviamente assuefatto, come quando si passa di corsa in una piazza del Duomo e la cattedrale rimane solo un pezzo di scenografia. «Il 4 agosto dell’anno scorso non era così bello fidati» mi risponde spiazzandomi, come ad anticiparmi una sorta di depressione collettiva che nei giorni successivi avrei visto incisa ovunque nella memoria della città.
«Ma è molto bello, sì. Certo, il porto ce l’ho proprio davanti, lo vedi il deposito?». Lo punta con l’indice, noto una serie di cicatrici, piccole ma profonde. La luna è quasi piena. Io penso a una casa tutta di vetro che si trova nella traiettoria dell’inferno e gli fisso il dito. Non riesco a non chiedergli com’era messa casa sua un anno fa. «Un disastro. Tutto completamente distrutto. C’è voluto un mese per sistemare». Reprimo nel silenzio un “Be’ hai risolto veloce, dai” e continuo a scattare. Dal balcone vedo un tizio che armeggia dietro un suv parcheggiato reggendo quella che mi pare una tanica. Guardo Roger incuriosito. «Benzina habiby, benzina di contrabbando. Costa il quadruplo, ma chi può evita la fila».
Ho in tasca un centinaio di dollari. So che dai bancomat non si può più prelevare in valuta estera e che la lira libanese si è svalutata quasi del novanta per cento. Entro in un negozio di cellulari per comprare una sim e chiedo informazioni sul cambio. «Se vuoi per 100 dollari ti do un milione e ottocento mila lire». Solo un anno fa sarebbero state 160 mila, è una cifra esorbitante. Col portafogli gonfio di banconote che scivolano sempre più verso l’essere carta usomano sporca cammino tra Ashrafiyeh e Mar Mikhael, due quartieri che un tempo erano il cuore della “movida” beirutina, diabolicamente vicini al porto.
Qui la traccia dell’onda d’urto è un grande vuoto. Molti dei locali storici per fortuna un anno dopo sono ancora aperti e alcuni scorci mi paiono identici a prima, altri meno: noto la struttura di un benzinaio collassata e infiocchettata da un nastro rosso e bianco, danger no entrance. In un vicolo c’è un’auto con i vetri ancora frantumati e le ruote a terra, congelata nel tempo. In alcune macchine ci sono fogli stampati appoggiati sul parabrezza, contengono messaggi contro il governo, richieste di giustizia, foto di vittime.
Sotto un sole cocente e sfidando un raro deserto urbano mi avvicino al porto. Mi sento ingenuamente agitato. La rabbia dei libanesi è scritta in caratteri cubitali su enormi striscioni appesi ai fianchi dei palazzi in ricostruzione: “YOU’VE LOST YOUR IMMUNITY”, “HOSTAGES OF A MURDEROUS STATE”. In una piazzola dove un anno prima le galline giravano felici e ora c’è un vuoto nucleare alcuni giovani hanno lasciato una ghigliottina di legno, rimasta inchiodata nella sua eloquenza dal corteo organizzato un anno dopo il disastro.
Sui muri leggo scritte di ogni tipo, quella che mi colpisce di più è un vero ritratto dei libanesi: “Our space is destroyed, but we are not”. Una X rossa cancella la parola ‘destroyed’ e la sostituisce con ‘restored’. In un anno molto è stato ricostruito a Beirut, ma la gente non ce la fa più. Vedere il punto da cui è partita l’esplosione è inquietante, il ricordo di tutti quei video che ce l’hanno mostrata da ogni angolo possibile mi inchioda sul marciapiede come se mi aspettassi una nuova deflagrazione. Anche il muretto che separa la strada dal porto è completamente ricoperto di disegni e scritte. Davanti a me leggo: “My government did this”.
Torno a Mar Mikhael ed entro in un caffè pieno di giovani che ricaricano ogni apparecchio possibile. Mi dicono che si può ordinare fino a mezzogiorno, poi salta la luce. Puntando il qr code nel menu digitale appare una nota: “La condizione finanziaria del Libano al momento è tutt’altro che giusta. Se sei nel lato fortunato di questa situazione disperatamente sfortunata e desideri aiutarci a riprenderci un attimo, chiedi al cameriere di aggiungere al tuo conto una ‘big fat tip’ di 50.000 lire. Il totale andrà interamente, in cash, ai membri dello staff.” Al cambio attuale è una mancia irrisoria, di meno di tre dollari.
Il conto dei miei mezzeh, caffè e spremuta d’arancia è 40.000 lire. Ripenso a quel milione e ottocentomila. Colto da un senso di colpa da uomo seduto comodo nel primo mondo lascio centomila lire di mancia. Nel pomeriggio cerco il mio bar preferito di Gemmayzeh: c’è ancora. È composto solo da un bancone e tre tavolini, arredato in legno, con un’insegna al neon rossa sulla vetrina e una bella atmosfera rétro. Il proprietario è stranito dal vedere un turista. «Non ci sono più abituato, sai? Sei nel paese sbagliato, comunque. Siamo spacciati, non abbiamo speranze». Mi parla con l’aria stanca, più che triste.
Camminando per Beirut non vengono altre domande alla mente, la rassicurazione pare la prima necessità di ogni viaggiatore, dunque gli chiedo se il suo locale abbia ricevuto danni dall’esplosione. «Pochi» mi risponde mentre mi spilla una birra. «Si sono solo rotti la vetrina, il bancone, la tivù e ovviamente tutte le bottiglie». Essendo un posto di venti metri quadri mi sarebbe parso accettabile anche rispondere una cifra, ma inizio a familiarizzare con la resilienza di cui tutti parlano. I libanesi ne offrono una versione molto sincera.
«L’anno scorso stavo per aprire un locale sulla spiaggia, dato che gli affari andavano bene nonostante la pandemia. Poi c’è stato il 4 agosto e tutto è andato a rotoli. E ora manca l’elettricità, figuriamoci i clienti. Ho dovuto aumentare i prezzi, questa birra prima costava 8.000 lire, ora te la devo far pagare 28.000. Ma le mie spese sono quadruplicate, anche una cosa banale come gestire il ghiaccio è diventato uno sbattimento. Non ci sono più soldi, quelli che abbiamo valgono sempre meno. Ma io non chiudo, non se ne parla, we are staying».
È un leitmotiv costante. Chi è riuscito a rimediare ai danni dell’esplosione prova a tenere duro, si adatta. «Anche se guadagno poco, è meglio che niente. Meglio che stare a casa, il lockdown l’abbiamo già fatto». Noto una cicatrice notevole sul suo gomito. «Te la sei fatta quel giorno, suppongo». Lui si solleva la manica della maglietta e mi mostra il resto: una cartografia di squarci che gli arriva alla spalla, è il chiaro segno di una pioggia di vetri e io quasi mi strozzo con la birra. «Yes man. Ero una maschera di sangue» – non so come facesse, ma sorrideva mentre spiegava – «ma alla fine mi son salvato. It’s okay». Come okay? Io con uno squarcio del genere un anno dopo sarei ancora traumatizzato dal vedere anche solo un bicchiere di vetro nella credenza.
Al Beirut Digital District, a due passi da Piazza dei Martiri, incontro Eddy, un giovane libanese che avevo conosciuto due anni fa. Fa parte di Live Love Beirut, una ONG che si occupa di responsabilità civile ed ecologica in tutto il Libano. Organizzano campagne digitali di promozione turistica ma anche azioni molto tangibili e su vari fronti: pulizia delle spiagge, raccolta dei rifiuti; piantano persino gli alberi e distribuiscono cibo nelle zone colpite da ogni tipo di crisi. Dopo l’esplosione sono scesi in campo coordinando come dei ninja la gestione dei soccorsi, e oggi seguono anche le ricostruzioni dei quartieri che hanno subito danni.
«Finestra per finestra, una alla volta, stiamo ricostruendo tutto. C’è ancora moltissimo da fare, la gente non sta bene» mi spiega mentre mi mostra il nuovo ufficio, «ma da qualche parte si deve cominciare. Leggi sul vetro, l’abbiamo scritto: “If not us, who? If not now, when?”». La sede dell’ONG è molto più grande di come la ricordavo. «Il 5 agosto qui non c’era più niente. Quando abbiamo ristrutturato, già che c’eravamo ci siamo ingranditi. Fino a 2 anni fa eravamo solo in 9, ora siamo 39». La centrale operativa è un brulicare di ragazze e ragazzi di varie religioni e estrazioni sociali, tutte e tutti molto giovani. Vedo intrecciarsi jeans e hijab, sneaker e sandali, abiti tradizionali e marchi italiani. «Sai che le religioni ufficiali in libano sono diciotto? Credo le rappresentiamo tutte, atei compresi» esulta mentre mi presenta Dana, l’addetta allo smistamento delle medicine.
Anche Eddy è pieno di cicatrici sulle braccia. Mi rivela che l’ultimo anno è stato l’anno più difficile, a livello emotivo, di tutta la sua vita. «Siamo esausti e depressi, metà di noi è in psicoterapia. Siamo pieni di tagli e cicatrici, abbiamo le case distrutte. La mia è in Rue Gouraud, hai presente? A trecento metri da lì. È venuto giù tutto. Ma teniamo duro, siamo libanesi». Ogni persona che incontro ha un pezzo in meno: un segno da mostrare, una ferita da raccontare. Sembra che condividere allevii il loro dolore. Eddy mi mostra anche un sito a cui hanno lavorato, con un database di testimonianze audio, video, fotografiche, scritte, tutte georeferenziate in base all’autore. Una memoria collettiva di quel 4 agosto. Accende il suo Mac e sulla parete vedo proiettata una mappa di Beirut strapiena di pin, a ognuno corrisponde un ricordo e alcuni fanno rabbrividire.
«Ora chiudo, poi te lo guardi bene, ma fallo quando sei da solo in casa, perché a un certo punto ti viene da piangere». Ancora un po’ frastornato da quell’anteprima lo scongiuro di raccontarmi qualcosa di positivo. «Dimmi tutto ciò che avete organizzato in questo anno». Lo fa, e sono tante cose, tutte belle, tutte visibili qui.
Ad Hamra, sul fianco occidentale della città, l’esplosione non è arrivata, ma la crisi la sentono eccome, e forse non hanno smesso di sentirla dagli anni della guerra civile. Sono nella zona che fu complice del fascino bohémien del Libano degli anni Sessanta, quando era frequentata da divi e dive di Hollywood e solo a Beirut c’erano 150 tra cinema e teatri – la seconda città al mondo dove si staccavano più biglietti per gli spettacoli: in media 22,5 a persona in un anno; superata solo da Hong Kong. Oggi quei cinema non esistono più; si intravede solo il Piccadilly Theatre, ma è chiuso e l’insegna luminosa ha perso alcune lettere.
Noto molta immondizia per le strade del quartiere arabo più tradizionale e un po’ mi piange il cuore. Lungo Bliss Street le luci dei negozi di spezie sono spente. I pochi clienti sono accolti con una torcia elettrica e invitati a districarsi tra zaatar, sumak e pepe di Aleppo che però nella penombra appaiono dello stesso colore e si perde parte della magia. Una busta di zaatar mi costa 80.000 lire, e con 3.000 compro una bottiglia di acqua tiepida in un bar. Tutto è così fuori scala.
Mi convinco di voler far girare l’economia anche senza l’elettricità ed entro in un barbiere. «Let’s go wireless my friend». Il proprietario del negozio mi guarda dubbioso, ma comunque mi avvolge al collo un asciugamano sulla cui pulizia nutro forti dubbi e mi spalma la schiuma da barba. Fisso il volto del barbiere riflesso nello specchio. Avrà trent’anni, rasatura impeccabile e ciuffo che sfida la gravità; una maglietta con scritto Armorio Empani. Si chiama Imad. Anche a lui chiedo come vada in questo periodo, domanda a cui forse si sarebbe risposto facilmente “Vedi tu sto lavorando senza corrente se mi si scarica il rasoio ti lascio la barba a metà, come vuoi che vada”. Invece mi ha detto: «It’s alright habiby, se dio vuole».
Seduto su quella poltrona in pelle mi viene da girarmi e dirgli “Ma come alright!”, ma non è il momento per movimenti repentini, c’è pur sempre una lama di media generazione che scorre non lontanissima dalla mia giugulare. «Stessa vita di sempre» mi racconta, «un po’ più faticosa ma ad Hamra ci aiutiamo tra noi. Manca la benzina? Un’auto nel quartiere la trovi, in caso di bisogno. Siamo una grande famiglia». Intanto sbatte il rasoio sul lavandino prima di sciacquarlo. «Negli ultimi mesi guadagno pochissimo, i prodotti per il salone sono sempre più cari, ormai non li uso più, altrimenti farsi la barba costerebbe come una cena a downtown».
Un suo amico ha assistito al mio sbarbamento seduto su una sedia di plastica sull’uscio. «Sei italiano? Come ci si sente ad avere una vita stabile?». È la prima volta che devo rispondere a questa domanda e non so bene cosa dire. Accenno un: «Fortunato?». Mi racconta che si occupa di decorazioni floreali per feste, hotel e negozi. «Durante la pandemia non c’era niente da festeggiare però, e i negozi erano chiusi. Ora i matrimoni hanno budget molto ridotti, i fiori sono l’ultimo dei problemi degli sposi, il primo dei miei. Anche volendo, a Beirut ora si trovano solo rose, e di bassa qualità. Non c’è acqua per i vivai, sono tutti chiusi. Un bel girasole… me lo sogno di notte. Mi sveglio la mattina e mi domando che senso abbia alzarsi, se non c’è niente da fare. Poi ho il motorino in riserva, e chi si muove più? Le hai viste le file al benzinaio?».
Scopro che si chiama Marwan e accetto il suo invito per un tè dopo cena. «Sai che sono stato due volte a San Siro? Tifo Milan ei-si, odio Inter e Juve. Sto mettendo i soldi da parte per tornare a Milano, in questo periodo però non se ne parla. Vedremo in futuro in sha’ Allah. Ma come avete fatto a vendere Donnarumma? Dove la vedi la partita col Caliari?».
La sera su Beirut palesa l’inganno: le strade sono un cielo scuro e i locali aperti gli astri di una costellazione irregolare, uniche stelle fisse per orientarsi. Non c’è nessuno per strada, camminare al buio è persino spaventoso. Occorre abituarsi a decifrare la penombra, schivare buche e vari oggetti sporgenti, spazzatura e cacca di cani. La luna mi viene incontro. Marwan ride: «Beirut era la Parigi del Medio Oriente, oggi è la Raqqa del Mediterraneo».
Quando arrivo in Piazza dei Martiri non credo ai miei occhi: non avevo mai visto i minareti della moschea Al Amin spenti. La cattedrale maronita di San Giorgio è proprio alle sue spalle; in genere il suo campanile si fonde con i minareti in una bella crasi architettonica; ora il bagliore della chiesa, unico edificio illuminato in tutta la piazza, oscura e sovrasta tutto il resto. Attorno, palazzi sgangherati in stile ottomano fanno sempre da cornice a enormi banche con facciate ultramoderne, a loro volta adiacenti a brandelli di case art déco con le porte divelte. Mura crivellate di colpi, pareti crollate e macerie affiancano ancora edifici rianimati dalle grandi archistar. I segni della distruzione sono da sempre le cicatrici pulsanti di Beirut, le vene aperte sullo scorrere del tempo sulla città. La distruzione del 4 agosto sembra però diluita dall’aspetto già un po’ sfregiato della città; almeno urbanisticamente sembra avere attutito il colpo. Ha aggiunto una serie di cicatrici a un corpo già a tratti segnato. «È come se Fedez si facesse un tatuaggio nuovo». Marwan scuote la testa: «Chi è Fedez?».
Oggi Beirut è una città sempre più piena di spazi vuoti, ingranaggi inceppati nel meccanismo della ricostruzione post-bellica e ora post-esplosione. Nei secoli ha vissuto il finimondo ed è tornata in piedi, come se niente fosse mai accaduto, cicatrici a parte, conto delle vittime a parte. Tra un buco e l’altro, molti locali restano a modo loro affollati di donne e uomini di ogni età, a far nubi con le loro pipe d’acqua, la menta che affonda nell’hummus, i dadi che rotolano nel backgammon di una stanza illuminata a candele, le birre tiepide spillate dietro ai banconi. Mi rivolgo al mio amico: «Ho letto che nella sua storia Beirut è stata distrutta sette volte. L’esplosione al porto è stata l’ottava, temo». Dal cavalcavia vicino Ashrafiyeh si vede tutta la città. Il cielo è dominato dalle gru. «Ecco» aggiunge Marwan indicando triste l’oscurità di un viale «allora questa crisi è la nona». La luna era incastrata tra le impalcature, io fissavo ancora il dito.