I problemi di un ipotetico “museo unico” della Roma antica

Carlo Calenda propone di crearlo al posto dei Musei Capitolini, ma oltre agli ostacoli tecnici ci sono anche delle resistenze di concetto

I Musei Capitolini il giorno della riapertura dopo le limitazioni contro il coronavirus, il 27 aprile 2021 (Cecilia Fabiano/ LaPresse)
I Musei Capitolini il giorno della riapertura dopo le limitazioni contro il coronavirus, il 27 aprile 2021 (Cecilia Fabiano/ LaPresse)

La scorsa settimana una proposta di Carlo Calenda, leader di Azione e candidato sindaco a Roma, ha generato una lunga discussione su giornali e social network intorno all’offerta museale della capitale. In un video dalla piazza romana del Campidoglio, Calenda ha criticato l’allestimento dei Musei Capitolini che si trovano proprio nei palazzi che affacciano sulla piazza. La sua proposta è stata di accorpare le collezioni di arte antica della città per creare un unico grande museo, più facile da fruire per visitatori e turisti, stravolgendo l’allestimento dei Musei Capitolini. Seppur presentata come soluzione logica e pragmatica, e nonostante sia stata sostenuta anche tra studiosi di storia dell’arte, ci sono diversi esperti ed esperte in disaccordo, con ragioni più concrete che riguardano i problemi tecnici e altre più concettuali, legate alla convinzione che l’approccio proposto da Calenda sia perlopiù superato.

Nel video, Calenda dice che i Musei Capitolini sono «di concezione vecchia» perché mettono insieme «tante cose differenti» senza spiegarle a chi visita le collezioni. Tra i maggiori e più importanti istituti museali appartenenti al comune, i Musei Capitolini furono creati nel 1471 da papa Sisto IV per donare alcune opere al popolo romano. Oggi conservano una gran quantità di statue e quadri importantissimi come la Buona ventura di Caravaggio, ma la maggior parte delle collezioni riguarda Roma e la sua storia.

Secondo Calenda, però, la visita risulta difficoltosa perché le collezioni sono conservate in «sale affastellate» che non fanno comprendere davvero la storia della città, non illustrano i vari passaggi né i princìpi fondamentali, come la funzione del Senato e dei consoli o l’importanza del cursus honorum. E siccome poco lontano ci sono i Fori Imperiali, dice Calenda, chi ha visitato il museo va a vederli «e non capisce nulla».

In virtù di tutto questo, e in virtù del fatto che le collezioni riguardanti l’antica Roma sono frammentate in varie sedi in giro per la città – Palazzo Altemps, Crypta Balbi, Palazzo Massimo, Centrale Montemartini e altre, in larga parte statali – Calenda vorrebbe realizzare al Campidoglio un unico grande museo solo di arte antica incentrato sulla «civiltà romana», spostando quindi i quadri della pinacoteca dei Musei Capitolini in un’altra sede e traslocando anche il municipio e tutti i suoi uffici. Come si legge nella proposta, i modelli di riferimento sono il Louvre di Parigi o il British Museum di Londra, cioè musei giganteschi rappresentativi della loro città, nonché mete turistiche molto note.

Anche se l’idea di Calenda è stata accolta con favore da alcuni, come il critico d’arte Vittorio Sgarbi e il curatore d’arte contemporanea Francesco Bonami, molti altri esperti ed esperte l’hanno invece profondamente rigettata, ritenendola priva di basi solide per essere realizzata, soprattutto per due motivi: il primo è che mentre i Musei Capitolini sono di proprietà del comune, altre collezioni romane di arte antica appartengono allo stato, e perciò accorparle sarebbe molto complicato; il secondo motivo è che i Musei Capitolini sono considerati il primo museo del mondo ad aprire al pubblico e a concepire un catalogo e un allestimento, già nel 1734.

 

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Una parte dell’attuale sistemazione è la stessa di allora, e cambiarla non solo sarebbe un problema a livello accademico, ma sarebbe anche difficile dal punto di vista pratico. «L’allestimento dei Musei Capitolini non si può smontare» dice Marcello Barbanera, docente di archeologia classica alla Sapienza di Roma. «Perché è un contesto in sé, prezioso, una testimonianza: fu fatto per la prima volta un catalogo, un progetto di design con precisi accostamenti anche di colori. Ci sono alcuni allestimenti, come anche il museo Pio Clementino ai Vaticani fatto alla fine del Settecento, che sono capolavori museografici e non possono essere modificati. Non si possono semplicemente prendere gli oggetti e spostarli a piacimento».

Anche Ilaria Miarelli Mariani, docente di museologia all’Università di Chieti che è intervenuta sulla questione dibattendo con Sgarbi e Calenda, la pensa allo stesso modo. «Ho già detto che un museo non è un emporio» spiega Miarelli Mariani. «E mi sembra utile ricordarne la definizione ICOM [International Council of Museums, un’organizzazione internazionale di musei e professionisti del settore]: “Il museo è un’istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società, e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che effettua ricerche sulle testimonianze materiali ed immateriali dell’uomo e del suo ambiente, le acquisisce, le conserva, e le comunica e specificatamente le espone per scopi di studio, educazione e diletto”. Mi sembra molto diverso dal prospettare un allestimento evocativo dell’antica Roma mettendo insieme dipinti, un numero infinito di sculture e audio che declamano testi antichi».

Un altro problema dei musei di Roma, che la proposta del museo unico vorrebbe risolvere, è la frammentazione del patrimonio artistico, figlio di una stratificazione storica lunga secoli che oggi si riflette nel fatto che collezioni, palazzi storici e aree archeologiche sono divise tra comune, ministero dei Beni culturali e Vaticano. «Basti pensare che il Foro romano e il Colosseo sono statali, ma la Colonna di Traiano, il Foro di Traiano e il Foro di Cesare sono del comune» racconta Barbanera. «Siccome sono contigui, in questo caso si potrebbe anche fare un biglietto unico. Ma l’idea di raggruppare e di spostare le collezioni dal Museo Nazionale Romano [che è statale, ndr] ai Musei Capitolini non è realizzabile, anche perché in passato ci sono state gelosie tra stato e comune».

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Inoltre, come fa notare Miarelli Mariani, la collezione permanente di un museo nella maggior parte dei casi è impossibile da smembrare: «Una volta che un’opera entra in una collezione museale viene registrata e protetta dalla normativa del Codice civile italiano e dal Codice dei beni culturali. Non è dunque possibile disperdere opere e collezioni, salvo rari casi di spostamenti da un museo all’altro che devono però essere motivati dalla congruenza dello spostamento».

Nella proposta di Calenda (PDF) si fa riferimento al numero molto basso di visitatori che i Musei Capitolini riescono ad attrarre, rispetto a quelli dei musei delle principali capitali europee. Il problema però non è tanto dovuto alla frammentazione delle collezioni, spiega Barbanera, quanto a una comunicazione pubblica deficitaria e a un contesto urbano che non permette facili spostamenti, per via dei noti problemi del trasporto pubblico romano. «Non è solo una questione di capolavori, perché nel Museo Nazionale Romano ci sono due dei più importanti bronzi dell’antichità, e dovrebbe esserci la fila fuori. Invece non c’è, quindi c’è qualcosa che non va, un problema nel comunicare l’offerta».

Il modello preso a riferimento, peraltro, cioè quello del grande museo accentratore, è ritenuto in parte superato dagli accademici, e si adatta piuttosto male alla realtà di Roma. «La legislazione pontificia e la pratica del fedecommesso, uno strumento legislativo che ha consentito di far pervenire fino a noi più o meno integre le collezioni delle grandi famiglie, ci hanno regalato musei unici conservati in quelli che oggi chiamiamo “contenitori” originali» spiega Miarelli Mariani. «Ossia le dimore che ospitano da secoli le collezioni, perché i musei non raccontano solo le opere, ma anche la storia del gusto dei collezionisti che le hanno riunite, delle loro famiglie, dell’idea che di un dato periodo si aveva di quelle opere, della loro modalità di esporle e dunque dei loro allestimenti. Allestimenti che sono raramente sopravvissuti».

Secondo Miarelli Mariani, quindi, il punto «non è la “quantità” delle opere ma un sistema moderno, didatticamente evoluto, che crei una rete mediante biglietti accorpati, segnaletica, comunicazione, agevolazioni per turisti ma anche per i cittadini», dato che la pandemia e le limitazioni agli spostamenti hanno «fatto emergere il cosiddetto “pubblico di prossimità”, ossia i cittadini che hanno riscoperto la bellezza di visitare i siti e i musei della propria città. L’accessibilità è oggi al centro del dibattito dei nuovi musei».

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