Le rischiose infezioni fungine tra i malati gravi di COVID-19

Stanno interessando migliaia di ricoverati negli ospedali indiani, ma alcune forme passano inosservate in Occidente

Un intervento chirurgico per rimuovere i tessuti danneggiati dalla malattia da fungo nero da un paziente malato di COVID-19 - Allahabad, India (Ritesh Shukla/Getty Images)
Un intervento chirurgico per rimuovere i tessuti danneggiati dalla malattia da fungo nero da un paziente malato di COVID-19 - Allahabad, India (Ritesh Shukla/Getty Images)

Negli ultimi mesi in India sono stati documentati oltre 35mila casi di mucormicosi (o malattia da fungo nero), un’infezione con un alto tasso di letalità causata da alcuni tipi di fungo, tra i malati di COVID-19 ricoverati in ospedale con sintomi gravi dovuti al coronavirus. Le autorità sanitarie indiane hanno parlato di un’epidemia dentro la pandemia, perché l’incidenza dei casi è aumentata notevolmente rispetto al normale, con i medici che faticano a trattare la malattia e al tempo stesso la COVID-19. Pericolose infezioni fungine sono state riscontrate in diversi pazienti anche nei paesi occidentali, dove ci sono comunque maggiori possibilità di diagnosi precoci per trattarle prima che causino seri danni.

I funghi sono tra gli organismi più diffusi al mondo e vivono praticamente ovunque: nel terreno, nell’acqua, nell’aria e nel nostro organismo. Le difese immunitarie di cui disponiamo ci aiutano a tenere sotto controllo i loro tentativi di invasione, ma nel caso di problemi congeniti o in presenza di farmaci che riducono l’attività immunitaria può accadere che i funghi superino le difese e inizino a proliferare.

Tra i farmaci più impiegati per trattare i casi gravi di COVID-19 ci sono gli steroidi, sostanze che contribuiscono a ridurre l’attività del sistema immunitario. Il loro impiego può apparire controintuitivo, considerato che spetta proprio alle cellule immunitarie il compito di identificare e distruggere il coronavirus. In alcuni casi, però, la reazione del sistema immunitario finisce fuori controllo, causando forti infiammazioni ai tessuti dell’apparato respiratorio, dove è presente il coronavirus, che finiscono per danneggiarli gravemente. Gli steroidi e altri farmaci consentono di calibrare questa risposta, in modo da ricondurla entro livelli tollerabili.

Ridurre la risposta immunitaria ha però diverse implicazioni. Comporta per esempio che altri patogeni, come i batteri, se ne approfittino per accrescere le loro colonie a danno del nostro organismo. Per questo, temendo infezioni secondarie batteriche, i medici in terapia intensiva somministrano spesso antibiotici ad ampio raggio ai ricoverati per COVID-19, in via preventiva e come precauzione.

Tra sistema immunitario che non funziona a pieno regime, mancanza di batteri utili per la nostra salute e forti infiammazioni a livello polmonare, si creano condizioni ideali per le infezioni fungine. Alcune di queste non solo sono difficili da diagnosticare, ma anche da trattare.

La malattia da fungo nero deriva dalla crescita dei funghi all’interno e intorno ai vasi sanguigni. Ne esistono varie forme, con le più diffuse che interessano i seni nasali e il cervello, e altre che attaccano soprattutto i polmoni e parte dell’apparato gastrointestinale. La malattia diventa riconoscibile quando ha ormai intaccato la mucosa nasale e il palato, solitamente in seguito alla comparsa di lesioni dovute alla morte dei tessuti interessati, che diventano nerastri (necrosi). L’infezione può poi progredire verso la zona cerebrale, causando convulsioni e trombosi, spesso con esito letale.

L’impiego di alcuni antimicotici consente di trattare l’infezione, ma l’esito è difficilmente positivo se si è immunodepressi. I medici che trattano i pazienti per COVID-19 in terapia intensiva devono quindi trovare il giusto equilibrio, modulando gli steroidi e gli antimicotici, in modo che l’organismo riesca a superare l’infezione fungina senza causare ulteriori danni ai tessuti provati dal coronavirus.

Il tasso di letalità della malattia da fungo nero è molto alto, soprattutto nella sua forma disseminata (oltre il 90 per cento), ma la patologia è molto rara in buona parte del mondo. In India la mucormicosi aveva tassi di incidenza superiori alla media già prima della pandemia, ma la violenta ondata di COVID-19 della scorsa primavera ha acuito il problema, soprattutto tra i pazienti diabetici, più a rischio di sviluppare la malattia.

Infezioni secondarie da funghi nei pazienti trattati per sintomi gravi da COVID-19 sono emerse anche in diversi altri paesi oltre l’India, nell’ultimo anno e mezzo. La maggior parte è stata causata dai funghi appartenenti al genere Aspergillus e Candida. In particolare l’aspergillosi, un’infezione da funghi relativamente comune, è stata riscontrata negli ospedali di Stati Uniti, Francia, Pakistan e Regno Unito.

Un’analisi di 19 studi osservativi condotti in vari ospedali su un totale di 1.421 pazienti malati di COVID-19 ha evidenziato la presenza di aspergillosi nel 13,5 per cento dei casi. Le terapie sono consistite nella somministrazione di antimicotici, ma gli esiti non sono stati sempre positivi. L’analisi ha infatti riscontrato la morte di circa la metà dei pazienti interessati da infezione fungina.

Diagnosticare per tempo l’aspergillosi non è semplice per chi ha forme gravi di COVID-19, sia perché i sintomi della malattia nascondono quelli dell’infezione fungina, sia perché per avere la conferma della presenza del fungo è necessario prelevare un campione di fluidi dai polmoni. Questa operazione è di routine negli ospedali statunitensi ed europei, mentre viene effettuata con minore frequenza altrove a causa dei costi della procedura e della necessità di eseguirla con molte precauzioni, perché fa aumentare il rischio di contagio da coronavirus tra i ricoverati in terapia intensiva con altri problemi di salute.

È molto probabile che numerosi casi di aspergillosi tra i malati gravi di COVID-19 passino quindi inosservati, non finendo nelle statistiche sulle complicazioni dovute alla malattia causata dal coronavirus. Per questo motivo alcuni medici e ricercatori propongono di somministrare antimicotici in via preventiva, come viene già fatto con gli antibiotici ad ampio spettro. Sono già state avviate alcune ricerche per valutare terapie di questo tipo, ma l’impiego combinato di antibiotici e antimicotici può portare a interazioni ed eventi avversi da non sottovalutare, soprattutto in pazienti già provati dalla COVID-19.

Studi e analisi svolti finora hanno comunque messo in evidenza l’importanza per i medici in terapia intensiva di tenere sempre in considerazione l’eventualità che alcuni loro pazienti sviluppino infezioni fungine, in modo da trattarle il più precocemente possibile.