Una canzone di Frank Zappa

E la sua strana storia di pubblica fama

(Ron Case/Keystone/Getty Images)
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Le Canzoni è la newsletter quotidiana che ricevono gli abbonati del Post, scritta e confezionata da Luca Sofri (peraltro direttore del Post): e che parla, imprevedibilmente, di canzoni. Una per ogni sera, pubblicata qui sul Post l’indomani, ci si iscrive qui.
C’è un account su YouTube che nel giro di due mesi ha messo online una catasta di concerti di Crosby, Stills, Nash e Young.
Nel weekend pesarese del Post, dieci giorni fa, con Matteo Bordone abbiamo anche brevemente dissentito sui Kings of Convenience: lui si mantiene fedele, io mi sono stufato, sono la versione acustica (ma anche estetica) di quello che Bo Burnham prende in giro con quella canzone di cui dicemmo, quella sui conformismi di Instagram. Comunque, rispettosamente, segnalo ai Bordone tra voi questo documentario di mezz’ora che hanno messo su YouTube.
Playlist da pomeriggio d’estate, una cosa di dieci anni fa oggi.

Joe’s garage
Frank Zappa

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Che strana storia di pubblica fama, quella di Frank Zappa. Quando era ragazzo io era celebrato come il più creativo e inarrivabile genio del rock, al punto che tra noi che eravamo ragazzi ci si sentiva inadeguati a non percepire esattamente la misura del genio così come veniva promossa dagli esperti più adulti: un po’ come con Proust («Alain Proust», esatto).

Poi col tempo uno li capiva, il genio e l’inventiva, ferma restando una cosa che scrissi spericolatamente anni dopo in Playlist:
“Il criterio che vorrebbe riunirle tutte quante è che siano delle belle canzoni: senza nessuna puzza sotto il naso, e sapendo appunto che a volte una bella canzone arriva da dove meno te l’aspetti. E che, per esempio, i Duran Duran hanno dato al mondo più belle canzoni di Frank Zappa, per citarlo reverentemente ancora”.

E però a un certo punto si perse anche quella presenza monumentale e superiore, nel dibattito e nelle allusioni sulle cose della musica, e Frank Zappa sparì insieme alla reverenza nei suoi confronti. Oggi è inesistente, quasi mai citato, ed esentato da recuperi e celebrazioni: un documentario su di lui a lungo rinviato è uscito – un po’ uscito – alla fine dell’anno scorso, senza grandi attenzioni e non facile da vedere.

Lo sopravvalutavamo allora? Lo sottovalutiamo adesso? Le sue cose sono diventate anacronistiche? Chissà, non sono il più adeguato a dirlo, ché non ne diventai mai un grande esperto: nemmeno quando cominciai a conoscere meglio le sue cose e a innamorarmi di alcune, che tuttora occhieggiano stabilmente nelle mie stanze – anche dopo il trasloco – perché Zappa viene per ultimo in ordine alfabetico (già, e dove è finito allora il disco degli ZZ Top? Vedi, il disordine dei traslochi).

E insomma, scrivo per quelli che non ebbero la mia fortuna di approfondire un po’, o per quelli venuti dopo: da oggi saprete una canzone di Frank Zappa, che dura sei minuti, è del 1979, e racconta fortune e sfortune di una band: raccontata nella canzone per fare un po’ delle satire sociali molto care a Zappa. E malgrado la ricchezza di suoni e la varietà di passaggi, ne uscì un singolo più accessibile che divenne probabilmente la cosa più programmata dalle radio nella carriera di Zappa (in Norvegia e Svezia andò pure forte nelle classifiche).

It wasn’t very large
There was just enough room to cram the drums


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