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  • Venerdì 18 giugno 2021

Oggi si vota in Iran

A meno di sorprese vincerà il candidato degli ultraconservatori, Ebrahim Raisi, mettendo fine a otto anni di amministrazione dei moderati

Il candidato presidente Ebrahim Raisi vota in un seggio di Teheran, 18 giugno 2021 (AP Photo/Ebrahim Noroozi)
Il candidato presidente Ebrahim Raisi vota in un seggio di Teheran, 18 giugno 2021 (AP Photo/Ebrahim Noroozi)

Sono in corso in Iran le elezioni per votare il nuovo presidente che sostituirà il moderato Hassan Rouhani, che dopo due mandati consecutivi non ha potuto ricandidarsi. I candidati ammessi alle elezioni sono quattro, ma i principali osservatori dentro e fuori dall’Iran sono convinti che a meno di grosse sorprese vincerà Ebrahim Raisi, attualmente capo del sistema giudiziario dell’Iran ed espressione degli ultraconservatori. Dopo otto anni di presidenza Rouhani l’amministrazione iraniana si sposterà quasi certamente verso destra, rendendo assai più complicata la già fragile relazione con i paesi occidentali, e soprattutto con gli Stati Uniti.

In Iran, un paese del Medio Oriente che dal 1979 è governato da un regime autoritario islamico, le elezioni non sono considerate né libere né democratiche, soprattutto per il rigidissimo sistema di selezione dei candidati. Per finire sulla scheda elettorale, ciascun candidato deve ricevere l’approvazione formale del Consiglio dei Guardiani, l’organo che si occupa arbitrariamente di selezionare i candidati prima di ogni elezione, molto vicino ai conservatori e agli ultraconservatori, che quindi hanno un efficacissimo strumento per condizionare il voto degli iraniani. Lo si è visto di recente alla fine di maggio, quando il Consiglio ha escluso i più importanti politici riformisti e moderati che avevano chiesto di far parte delle liste dei candidati, fra cui soprattutto il vicepresidente di Rouhani, Eshaq Jahangiri.

– Leggi anche: L’Iran si sposterà ancora più a destra?

Fra i quattro candidati rimasti, tutti uomini, l’unico moderato è Abdolnaser Hemmati, ex direttore della banca centrale e in buoni rapporti con l’attuale amministrazione, tanto che in caso di vittoria ha promesso di mantenere al suo posto il potente ministro degli Esteri, Javad Zarif. Nei due dibattiti televisivi avvenuti nelle scorse settimane fra i candidati presidenti, Hemmati è stato l’unico ad avvertire che l’elezione di un presidente conservatore o ultraconservatore contribuirà ad isolare ancora di più l’Iran dalla comunità internazionale.

Le esclusioni sono state l’ultima conseguenza di un processo politico che era in atto da diverso tempo in Iran, iniziato con la decisione presa nel 2018 dall’allora presidente statunitense Donald Trump di ritirare gli Stati Uniti dall’accordo che impegnava l’Iran all’uso esclusivamente civile dell’energia nucleare, di fatto affossandolo.

Già allora molti esperti e osservatori avevano messo in guardia sul rischio che quella decisione potesse indebolire chi in Iran aveva fortemente voluto l’accordo – i moderati di Rouhani, i più aperti al dialogo con l’Occidente – e rafforzare chi l’aveva invece sempre criticato, cioè gli ultraconservatori. Rouhani aveva puntato molto sull’intesa, facendosi rieleggere nel 2017 con la promessa che la rimozione delle sanzioni avrebbe portato enormi benefici all’economia dell’Iran. Dopo il ritiro del 2018, però, Trump non si era limitato solo a ripristinare le sanzioni tolte dal suo predecessore Barack Obama, ma ne aveva introdotte di nuove, dando nuovi argomenti agli ultraconservatori per accusare i moderati di essersi fatti ingannare da un paese nemico.

Trump aveva adottato la strategia della “massima pressione”, che puntava a indebolire così tanto il regime iraniano da costringerlo a rinegoziare un nuovo accordo sul nucleare molto più favorevole per gli Stati Uniti rispetto a quello concluso da Obama, o da provocarne il definitivo crollo: è una strategia che però non sembra avere funzionato, e che anzi sembra avere provocato l’indebolimento delle fazioni politiche moderate e riformiste che vorrebbero cambiare l’Iran dall’interno.

Difficilmente il favorito Raisi, se sarà eletto presidente, manterrà le aperture fatte da Rouhani (la cui amministrazione nel frattempo sta cercando di rinegoziare l’accordo sul nucleare). Raisi è molto conservatore ed è il candidato preferito dalla Guida suprema Ali Khamenei, il leader assoluto dell’Iran e rappresentante della fazione più radicale del regime, di cui è anche accreditato come potenziale successore. Raisi ha anche un passato piuttosto controverso: nel 1988, alla fine della guerra che l’Iran stava combattendo contro l’Iraq, fece parte di una delle cosiddette “commissioni della morte” che ordinarono esecuzioni di massa di migliaia di prigionieri politici e combattenti nemici.

Più di recente, da capo del sistema giudiziario, «ha lavorato per restringere gli spazi online che godevano di una certa libertà», ha raccontato a BBC News Mahsa Alimardani, ricercatrice all’Oxford Internet Institute. Alimardani ha aggiunto che in particolare il sistema giudiziario guidato da Raisi «ha arrestato gli amministratori di gruppi Telegram o singoli utenti di Instagram che postavano contenuti a favore dei diritti delle minoranza, degli omosessuali, o contro l’obbligo di indossare l’hijab per le donne».

Un importante indicatore per giudicare la stabilità del regime sarà il dato sull’affluenza: parte degli iraniani potrebbe essere talmente frustrata dalla crisi economica alimentata dalle sanzioni, dalla gestione deficitaria della pandemia da coronavirus e dalla repressione delle proteste organizzate in varie città a partire dal 2019 che potrebbe rimanere a casa senza votare alcun candidato.

Stamattina la televisione statale, controllata dal regime, ha parlato di lunghe code fuori dei seggi in diverse città, ma l’informazione è difficilmente verificabile (in Iran sono ammessi pochissimi giornalisti occidentali). I seggi chiuderanno alle 19.30 ora locale, le 17 italiane. I risultati dovrebbero essere diffusi entro sabato.