Chimamanda Ngozi Adichie e come funzionano certe accuse su Twitter

La scrittrice nigeriana è partita dagli attacchi subiti dopo una sua frase sulle donne transgender per criticare certe dinamiche dei social

(Dia Dipasupil/Getty Images)
(Dia Dipasupil/Getty Images)

La scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie, autrice di romanzi come Americanah L’ibisco viola, oltre che del pamphlet di grande successo Dovremmo essere tutti femministi, ha raccontato sul suo sito due episodi in cui giovani persone a cui era legata l’hanno attaccata duramente sui social network per una sua intervista del 2017 in cui aveva fatto una distinzione tra l’esperienza di genere delle donne cisgender, cioè il cui sesso biologico corrisponde a quello percepito, e donne transgender, nate cioè in un corpo maschile. Adichie, una scrittrice nota per il suo impegno femminista e antirazzista, ha raccontato le dinamiche di quei due episodi per fare alcune riflessioni su quelle che secondo lei sono modalità pericolose e controproducenti con cui vengono condotte alcune battaglie per i diritti sui social network, e in particolare – secondo lei – tra alcuni gruppi di giovani.

La prima storia riguarda una giovane scrittrice che aveva partecipato a un suo seminario a Lagos, in Nigeria. Era molto brillante, e Adichie decise di iniziare a frequentarla anche dopo il corso, nonostante «le mie esperienze passate con i giovani nigeriani mi avessero lasciata sospettosa nei confronti delle persone calcolatrici, false e che vogliono sfruttarmi come opportunità». Adichie e la giovane strinsero amicizia, ma poi nel 2017 le cose cambiarono: Adichie diede un’intervista che conteneva un passaggio sulle donne transgender che fu molto criticato online, e la giovane – che pure la conosceva, e conosceva le sue idee e principi – la insultò sui social, senza nemmeno contattarla di persona.

L’intervista incriminata risale al 2017. Adichie aveva detto che «le donne trans sono donne trans»: e non aveva invece detto, avevano protestato in tante e tanti su Twitter, semplicemente che «le donne trans sono donne». Adichie era stata accusata di essere transfobica per aver fatto distinzioni tra una donna la cui identità di genere corrisponde con il sesso di nascita (una donna cisgender) e una donna invece nata in un corpo maschile (transgender). Per molti, rimarcare questa divisione potrebbe suggerire una gerarchia discriminatoria tra donne cisgender e donne transgender.

Adichie aveva poi spiegato la sua scelta di parole in un post su Facebook. Aveva riconosciuto che una persona può essere transfobica anche se in generale sostiene come lei le cause LGBT+, e che quindi non voleva usare il suo impegno passato come difesa generica per respingere le accuse. E aveva proseguito dicendo che le donne trans «sono persone che, essendo nate uomini, hanno goduto dei privilegi che il mondo garantisce agli uomini, perciò non dobbiamo dire che l’esperienza di una persona nata femmina è la stessa di una donna trans». Cioè, diceva Adichie, «senza sminuire la sofferenza della confusione di genere o le difficili complessità che vivono in un corpo che non sentono come loro», le donne trans non hanno vissuto e subito le stesse cose delle bambine, «fatte socializzare in modi che danneggiano il loro senso di sé, per sminuirle, per assecondare l’ego degli uomini, per pensare che i loro corpi siano depositi di vergogna».

«L’impulso di dire che le donne transgender sono donne esattamente come le donne nate donne» secondo Adichie dipende dalla volontà di rendere il tema mainstream, cioè largamente diffuso: con l’obiettivo di ridurre le molte forme di oppressione vissute dalle persone transgender. Secondo lei però è una strategia capziosa per raggiungere un obiettivo giusto: «la diversità non deve voler dire divisione». Riconoscere le differenze, aveva scritto, deve poter essere conciliato con il sostenere le cause trans, senza però dire che è tutto uguale «perché corriamo il rischio di ridurre il genere a una singola cosa essenzialista».

La stessa Adichie riconosceva però che c’era un modo meno equivoco per esprimere quel concetto: avrebbe potuto dire che «le donne trans sono donne trans e le donne cisgender sono donne cisgender». Ma cisgender, spiegava, «non è una parte organica del mio vocabolario. E probabilmente non sarebbe compreso dalla maggior parte delle persone». Cisgender continua a essere un termine poco diffuso fuori da contesti più istruiti e attenti al dibattito sulle questioni di genere: allora, nel 2017, era conosciuto da una percentuale ancora inferiore di persone. Ammetteva, comunque, che per come l’aveva messa potesse sembrare che stesse suggerendo che l’esperienza delle donne trans fosse non solo diversa, ma anche meno valida di quella delle donne nate donne.

Continuava poi:

La verità sul privilegio sociale è che non riguarda come ti senti: le persone bianche antirazziste godono lo stesso dei privilegi di razza negli Stati Uniti. Riguarda come il mondo ti tratta, le cose subdole e non così subdole che interiorizzi e assorbi.

Questo non significa che le donne trans non attraversano momenti difficili da bambini. Ma non attraversano quelle difficoltà specifiche legate al nascere donna, e questo è importante perché queste esperienze condizionano come le donne adulte nate donne interagiscono col mondo. E dato che essere una persona è un amalgama delle esperienze di ciascuno, è capzioso dire che nascere maschio non ha effetti sull’esperienza del genere per le donne trans.

Quello di Adichie era ed è ancora oggi un punto di vista che in molti contesti di attivismo progressista americano viene visto con sospetto, criticato e spesso associato alle posizioni di quel pezzo di femminismo (descritto con connotazioni dispregiative come TERF, che sta per “femminista radicale transescludente”) che non fa sue le battaglie delle donne trans e le esclude dalle proprie. Oggi è largamente minoritario rispetto al femminismo intersezionale, che tiene invece assieme la reciproca dipendenza delle forme di oppressione legate al genere, all’etnia, all’orientamento sessuale, alla classe e altro, e quindi coinvolge tutte le minoranze nella rivendicazione di maggiori diritti.

Adichie aveva di nuovo attirato delle critiche su questo tema quando qualche mese fa aveva detto al Guardian che un lungo, discusso e criticatissimo post di J.K. Rowling, la scrittrice britannica autrice di Harry Potter, era «perfettamente ragionevole». Il post di Rowling era stato a sua volta accusato di transfobia, con modalità ed estensioni molto superiori rispetto all’intervista di Adichie del 2017.

La giovane scrittrice amica di Adichie che l’aveva insultata sui social per quell’intervista aveva provato a contattarla nei mesi seguenti, dicendosi dispiaciuta che il loro rapporto si fosse interrotto, e poi in una seconda occasione scusandosi. Poi però era tornata a raccontare delle falsità sul suo conto sui social, secondo la versione di Adichie.

La seconda vicenda riguarda invece una persona che Adichie non nomina, ma che è facilmente identificabile con Akwaeke Emezi, a sua volta nigerianə, il cui romanzo d’esordio del 2018 si chiama Acquadolce. Anche Emezi aveva partecipato a un seminario di Adichie, facendosi notare e apprezzare dalla scrittrice. Dopo l’intervista del 2017, anche Emezi aveva criticato Adichie, dandole della transfobica. Poi però il nome di Adichie era stato incluso nella biografia di Emezi sulla copertina del romanzo, presentandola come una sua specie di mentore.

Emezi continuò in più occasioni ad attaccare Adichie, che nel frattempo aveva chiesto di rimuovere il suo nome dalla copertina del libro. A un certo punto Emezi aveva accusato Adichie di contribuire agli omicidi di persone trans con le sue parole. Adichie racconta anche che in un’occasione Emezi aveva sostenuto che la morte dei genitori di Adichie, avvenuta durante la pandemia, fosse stata una punizione, dicendo di avere fede nel fatto che ci fossero persone pronte «ad alzare i machete per difenderci dai transfobici come Adichie e Rowling».

Dopo aver raccontato questi due episodi, Adichie chiude il suo post con una riflessione su come a suo dire «certi giovani di oggi», molto attivi sui social nel portare avanti campagne politiche e per i diritti, siano accumunati da alcuni tratti che dice di trovare «osceni».

Un’avidità cinica, la smania di prendere e prendere senza mai dare; un enorme senso di presunzione, l’incapacità di dimostrare gratitudine, una naturalezza nella disonestà e pretenziosità e nell’egoismo, che si nasconde nel linguaggio del self-care. La pretesa di essere sempre aiutati e ricompensati indipendentemente dal merito; un linguaggio sciolto e raffinato che contiene poca intelligenza emotiva; un incredibile livello di egocentrismo; un’irrealistica pretesa di puritanesimo dagli altri; una sovrastima delle proprie abilità o del proprio talento, quando ne hanno; l’incapacità di scusarsi davvero senza giustificazioni; una dimostrazione appassionata di virtù ben eseguita nello spazio pubblico di Twitter, ma non nella sfera privata dell’amicizia.

Adichie continua elencando molti altri supposti difetti di questa categoria di persone «che sguazza nella bigotteria ma è incapace di mostrare compassione» e che «dice di amare la letteratura – le storie incasinate della nostra umanità – ma che è anche ossessionata monomaniacalmente da qualsiasi sia l’ortodossia ideologica prevalente». Il problema, secondo lei, è che queste persone non sono interessate a rispondere e confrontarsi con chi fa loro domande o esprime curiosità e dubbi. Questa categoria di persone sui social, dice Adichie, fa sì che ci sia una generazione di giovani «terrorizzata dall’avere le opinioni sbagliate» e di scrivere male un semplice tweet ricevendo per questo attacchi. In questo modo, secondo Adichie, ai giovani viene tolta l’opportunità di pensare, imparare e crescere.