Cambiare le compagnie petrolifere, da dentro

Un piccolo "fondo attivista" è riuscito a entrare nel consiglio di amministrazione di Exxon e vuole modificarne le scelte ambientali

di Leonardo Siligato

(Dean Mouhtaropoulos/Getty Images)
(Dean Mouhtaropoulos/Getty Images)
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Il piccolo fondo d’investimento Engine No. 1 è riuscito mercoledì 26 maggio a far eleggere due propri candidati fra i 12 membri che compongono il consiglio di amministrazione (cda) della società petrolifera statunitense ExxonMobil, più comunemente nota come Exxon, una delle più grandi al mondo. Nato a fine 2020, Engine No. 1 è quello che in gergo si definisce un “fondo attivista”, cioè un’entità che raccoglie soldi da investitori e li reinveste in una o più società con l’intento di esercitare pressione affinché cambino le loro politiche.

L’obiettivo di Engine No. 1 è quello di entrare nel cda di Exxon per far cambiare strategia alla multinazionale, accusata dal fondo di non avere ancora un piano credibile per affrontare la transizione energetica da fonti fossili a fonti rinnovabili nella quale molti paesi si sono impegnati per i prossimi decenni. Questa transizione potrebbe rendere insostenibile il modello di business di Exxon, ancora fortemente incentrato sull’estrazione di idrocarburi.

Exxon è una delle più grandi società petrolifere al mondo: estrae circa il 3 per cento del petrolio e offre il 2 per cento dell’energia a livello globale, ma ottiene la maggior parte dei propri introiti dalla vendita di carburanti con i marchi Exxon, Mobil e Esso.

Quello di Engine No. 1 non è un caso isolato: fa parte di una forma di investimento sostenibile chiamata shareholder activism (attivismo degli azionisti) che, a differenza di altre strategie d’investimento sostenibile molto diffuse, non si limita a selezionare società ritenute già sostenibili (strategia chiamata in gergo integrazione ESG) o a escludere dai propri investimenti imprese poco virtuose (negative screening), ma consiste spesso nell’investire proprio nelle società ritenute meno sostenibili per cambiarle da dentro.

Il fenomeno è in forte espansione, e ha interessato recentemente anche Chevron e ConocoPhillips, altre grandi imprese petrolifere.

Proprio mercoledì, l’assemblea degli azionisti di Chevron ha approvato con il 61 per cento dei voti la proposta di tagliare le emissioni di anidride carbonica (CO2) del gruppo avanzata dall’organizzazione olandese Follow This, un’associazione di azionisti attivisti, cui il consiglio di amministrazione si era opposto. L’11 maggio, la stessa organizzazione era riuscita a convincere il 58 per cento dell’azionariato di ConocoPhillips a votare contro il parere del consiglio di amministrazione in favore della definizione di obiettivi di riduzione delle emissioni che includessero nel loro calcolo non solo le emissioni dell’impresa, ma anche quelle prodotte dai suoi clienti, cioè da chi utilizza gli idrocarburi che essa produce (le cosiddette scope 3 emissions).

Eventi come questi segnalano che la questione del cambiamento climatico sta avendo un impatto sempre maggiore (anche se ben lontano dall’essere decisivo) sui modelli di business delle società petrolifere. Molti azionisti si sono accorti dell’insostenibilità di questi modelli sul lungo periodo e stanno tentando di usare il proprio potere per accelerare il cambiamento di queste società verso modelli più sostenibili. Ma ci sono casi in cui il cambiamento è stato imposto addirittura dall’alto: proprio mercoledì, per la prima volta un tribunale dell’Aia, nei Paesi Bassi, ha ordinato alla società petrolifera anglo-olandese Shell di ridurre le proprie emissioni in maniera più marcata rispetto a quanto promesso.

– Leggi anche: Un tribunale olandese ha ordinato a Shell di ridurre le emissioni più di quanto aveva promesso

Il fondo Engine No. 1 è riuscito a entrare nel consiglio di amministrazione di Exxon benché possieda una quota molto piccola della società: 50 milioni su un totale di 253 miliardi di dollari di valore. Con una quota così esigua, solitamente non è possibile entrare a far parte del consiglio di amministrazione di una società, ma Engine No. 1 ce l’ha fatta attraverso una campagna di sensibilizzazione di altri grandi investitori. Il conteggio dei voti è ancora preliminare, ma dei quattro candidati proposti da Engine No. 1 due sembrano essersi assicurati un posto nel consiglio, mentre gli altri due fanno parte di un gruppo di cinque candidati per cui è necessario un riconteggio delle preferenze. L’esito definitivo si avrà probabilmente nella prossima settimana.

Il cda di ExxonMobil in carica fino a mercoledì era fortemente contrario a includere i membri proposti da Engine No. 1, ai quali secondo l’azienda «mancano l’esperienza, la competenza e la conoscenza necessarie a guidare una società delle dimensioni di Exxon attraverso le opportunità e le sfide poste dalla transizione energetica». Dal canto suo, Engine No. 1 sostiene che i propri candidati abbiano «esperienza in trasformazioni di successo e redditizie nell’industria energetica».

Di sicuro, a una prima occhiata, i curriculum dei due candidati eletti ieri, Gregory Goff e Kaisa Hietala, non sembrano quelli di due sprovveduti: Gregory Goff è l’ex amministratore delegato di Andeavor, che è stata una delle più grandi società di raffinazione di idrocarburi degli Stati Uniti, mentre Kaisa Hietala è stata vicepresidente esecutiva per i prodotti rinnovabili presso l’impresa di raffinazione finlandese Neste Oyj.

Per contrastare la campagna di Engine No. 1, costata al fondo 30 milioni di dollari, Exxon ha speso almeno 35 milioni di dollari, facendo di questa proxy fight una delle più costose di sempre. Proxy fight è il termine tecnico usato in finanza per indicare una contesa tra un investitore che cerchi di ottenere consenso tra gli altri azionisti di una società per influenzarne le politiche e la società stessa, che intende perseguire strategie diverse.

All’elezione dei candidati di Engine No. 1 sembra aver contribuito in maniera sostanziale il supporto di BlackRock, il più grande fondo di investimenti al mondo, che detiene una quota del 6,7 per cento in Exxon ed è uno dei tre maggiori investitori nella società assieme ai fondi Vanguard e State Street. BlackRock, che negli ultimi anni ha puntato molto sugli investimenti sostenibili e pare non sia soddisfatta di come Exxon stia affrontando il problema del cambiamento climatico, avrebbe sostenuto tre dei quattro candidati di Engine No. 1. Oltre a quello di BlackRock, Engine No. 1 ha ottenuto il sostegno di altri grandi investitori istituzionali in Exxon, come gli stati americani della California e di New York, la Chiesa d’Inghilterra e il fondo Legal & General. A questi si sono aggiunte le società di consulenza Institutional Shareholder Services e Glass Lewis, le quali assistono grandi investitori istituzionali come fondi comuni e fondi pensione nel processo di voto in assemblea, avendo perciò una forte influenza su di essi.

La campagna di Engine No.1, benché considerata come una vittoria per gli ambientalisti, si basa su argomentazioni economiche. Il fondo sostiene che Exxon non sia pronta a sostenere economicamente la transizione da combustibili fossili a fonti rinnovabili perché non sta facendo gli investimenti necessari ed è ancora troppo dipendente dalla vendita di idrocarburi. Insomma, l’obiettivo dichiarato del fondo è assicurarsi che la società riesca a continuare a creare valore per i propri azionisti (tradotto: fare profitti) anche in un contesto totalmente diverso da quello attuale e sempre più probabile, dove gli idrocarburi verranno usati sempre meno. Questo approccio pragmatico è probabilmente alla base del successo della campagna del fondo tra altri grandi azionisti di Exxon.