• Mondo
  • Mercoledì 19 maggio 2021

L’inusuale unità di palestinesi e arabi israeliani contro Israele

Martedì comunità molto diverse fra loro a Gaza, in Cisgiordania e in Israele hanno partecipato a uno sciopero generale senza precedenti

Sciopero a Ramallah (Ibrahim Attaia/APA Images via ZUMA Wire)
Sciopero a Ramallah (Ibrahim Attaia/APA Images via ZUMA Wire)

Martedì moltissimi palestinesi e arabi israeliani hanno partecipato a uno sciopero generale per protestare contro le politiche discriminatorie e oppressive di Israele nei loro confronti, e contro i recenti bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza. Lo sciopero e le conseguenti proteste hanno riguardato sia palestinesi della Cisgiordania e della Striscia, sia gli arabi che hanno cittadinanza israeliana, molti dei quali si definiscono “palestinesi in Israele” (discendono dai palestinesi che abitavano questi territori prima della nascita dello stato israeliano, nel 1948).

Molti esperti hanno definito le manifestazioni di martedì una «rara dimostrazione di unità», nonché il vero elemento di novità delle proteste degli ultimi giorni, perché hanno riunito comunità che negli ultimi decenni erano state spesso divise tra loro per ragioni sia geografiche che politiche.

Le aree di Israele, della Cisgiordania e di Gerusalemme est abitate dai palestinesi e dagli arabi israeliani sono state a lungo deserte martedì, a causa della chiusura dei negozi e delle altre attività. Moltissime persone si sono riunite nelle piazze principali sventolando bandiere palestinesi e scandendo slogan contro Israele e le politiche adottate dal governo del primo ministro Benjamin Netanyahu, nazionalista di destra.

Le proteste non si sono concentrate solo contro i bombardamenti israeliani in corso sui gruppi armati della Striscia, e in particolare su Hamas (finora nella guerra sono stati uccisi più di 219 palestinesi e 12 israeliani). Ci sono state forti contestazioni anche contro altri due eventi che avevano preceduto l’inizio della guerra: l’intervento della polizia israeliana contro i palestinesi dentro e fuori la moschea di al Aqsa, nel complesso della Spianata delle Moschee, a Gerusalemme; e lo sfratto di tre famiglie palestinesi da Sheikh Jarrah, un quartiere di Gerusalemme est che ha una storia molto ingarbugliata e controversa.

Polizia israeliana e manifestanti palestinesi nella Città vecchia di Gerusalemme (AP Photo/Mahmoud Illean)

Negli ultimi dieci giorni c’erano stati anche scontri molto violenti tra arabi ed ebrei israeliani in diverse città di Israele in cui vive una significativa minoranza araba, tra cui Lod, Acri, Haifa, Bat Yam e Tiberiade: in molti casi le proteste si sono dirette contro le discriminazioni di fatto adottate dal governo di destra di Netanyahu nei confronti degli arabi israeliani, spesso trattati come “cittadini di serie B”, situazione risultato di leggi di recente approvazione come quella sullo “Stato della nazione ebraica” del 2018 che definiva ufficialmente Israele come uno stato esclusivamente ebraico.

– Leggi anche: Perché gli scontri fra Israele e Palestina sono ripresi proprio adesso

Come ha scritto Jack Khoury su Haaretz, il fatto che i palestinesi della Striscia e della Cisgiordania e gli arabi israeliani abbiano trovato ragioni per unirsi e protestare insieme contro Israele è stata una cosa di per sé rilevante, oltre che inusuale: nel corso degli ultimi decenni, infatti, queste comunità sono state separate geograficamente, sottoposte a regole diverse, e governate da entità diverse, spesso in competizione tra loro: hanno quindi in parte sviluppato identità differenti.

Nella Striscia di Gaza non abitano cittadini israeliani. La Striscia è un’area separata dal resto dei territori palestinesi e fu occupata da Israele durante la Guerra dei Sei giorni, combattuta nel 1967 fra Israele e una coalizione di stati arabi che stavano per attaccare per primi allo scopo di difendere gli interessi dei palestinesi: allora l’esercito israeliano la sottrasse al controllo dell’Egitto. Israele la occupò fino al 2005, anno in cui decise unilateralmente di smobilitare le sue colonie e ritirare i militari. Nel 2007, al termine di una guerra civile per il controllo di Gaza, il gruppo radicale Hamas riuscì a cacciare dalla Striscia la fazione più moderata Fatah; come conseguenza, nello stesso anno Israele impose sulla Striscia un rigidissimo embargo, che dura ancora oggi ed è considerato “disumano” da moltissimi osservatori. Dura ancora oggi anche l’intensa rivalità tra Fatah e Hamas.

La Cisgiordania, cioè la fascia di territorio che si estende da Gerusalemme fino alla sponda occidentale del fiume Giordano, fu anch’essa occupata da Israele nel 1967. Prima della guerra, la Cisgiordania era sotto il controllo del governo giordano ed era abitata per lo più da persone di etnia araba; dopo la guerra, Israele cominciò a fondare in Cisgiordania le cosiddette “colonie”, cioè insediamenti civili di ebrei che i governi israeliani hanno continuato ad espandere nonostante la contrarietà della maggior parte della comunità internazionale. La Cisgiordania è governata oggi dall’Autorità Palestinese, dominata dal partito moderato di Fatah, anche se Israele mantiene diversi importanti poteri, tra cui il controllo militare di buona parte del territorio.

Uno status particolare è quello attribuito a Gerusalemme est, occupata in gran parte militarmente da Israele dal 1967, nonostante l’armistizio del 1948, alla fine della prima guerra fra arabi e israeliani, la affidasse al controllo dei palestinesi. Gerusalemme est è separata dal resto della Cisgiordania da un muro costruito dagli israeliani per proteggere i propri insediamenti, e i suoi abitanti non sono cittadini israeliani, ma hanno un diritto di residenza permanente: questa situazione consente loro di avere una vita più facile dei palestinesi che abitano in Cisgiordania – hanno una maggiore libertà di movimento e possono usare gli stessi servizi degli israeliani – ma molti di loro raccontano spesso di subire un trattamento comunque inferiore rispetto agli ebrei israeliani.

Infine lo sciopero e le proteste di martedì hanno coinvolto gli arabi israeliani, la cui identità palestinese si è andata progressivamente rafforzando a partire dal 1967.

Gli arabi israeliani sono una minoranza pari a circa il 20 per cento dell’intera popolazione israeliana: discendono per lo più dai palestinesi che abitavano i territori dell’attuale Israele prima della nascita dello stato d’Israele, nel 1948, e abitano nelle città arabe o miste, come per esempio Lod, dove si sono verificate le violenze più intense degli ultimi dieci giorni. Sono cittadini israeliani a tutti gli effetti, e quindi possono votare alle elezioni che si tengono in Israele, e possono essere votati.

La principale forza politica che rappresenta gli arabi israeliani è un cartello elettorale fatto da diversi partiti, la Lista Comune, che ormai da diversi anni riesce regolarmente ad entrare in Parlamento. Alle ultime elezioni però si è presentata senza la sua componente più conservatrice, Ra’am, che prima dell’inizio della guerra era in trattative per entrare in un governo di coalizione fra i partiti che si oppongono a un nuovo governo Netanyahu. Finora, comunque, nella storia della politica israeliana non è mai accaduto che un partito di arabi israeliani sia entrato nella maggioranza di governo.

Proteste a Nablus, Cisgiordania (Ayman Nobani/Xinhua)

Lo sciopero e le proteste di martedì hanno coinvolto tutte queste comunità, ciascuna con obiettivi che nel corso degli ultimi decenni si sono differenziati a seconda delle criticità locali: le esigenze degli abitanti della Striscia, stritolati dall’embargo israeliano e governati da una leadership molto radicale, si sono sviluppate in maniera molto diversa da quelle per esempio degli arabi israeliani, la cui rabbia si è diretta per lo più contro il trattamento discriminatorio adottato dai governi israeliani di destra nei loro confronti, e che negli anni hanno spesso formato un giudizio su Israele comunque meno pesante rispetto agli arabi che vivono in Cisgiordania oppure a Gaza.

Gli ultimi sviluppi – le proteste alla moschea di al Aqsa, gli sfratti a Shiekh Jarrah, e i bombardamenti sulla Striscia – si sono però aggiunti alle storiche frustrazioni di palestinesi e arabi israeliani nei confronti di Israele, e secondo alcuni potrebbero avere segnato l’inizio di una «nuova era per la causa palestinese», che potrebbe risultare più coordinata ed efficace rispetto al recente passato.

Jack Khoury ha scritto su Haaretz che «c’è stata poca pianificazione e nessuna leadership» e le proteste di martedì sono state partecipate per lo più da giovani «che ne hanno stabilito intensità e caratteristiche». Le proteste sono comunque state sostenute sia da Fatah che da Hamas, oltre che da alcuni leader delle comunità arabe in Israele (ma non da tutti: sembra che Mansour Abbas, leader di Ra’am, fosse contrario allo sciopero generale).

Castro Otham, arabo israeliano della città settentrionale israeliana di Tamra, ha detto al Times of Israel: «È la prima volta che vediamo chiunque partecipare allo sciopero. Ci avevamo già provato in precedenza, ma non avevamo mai visto un risultato simile. Ci sentiamo come se fossimo dentro a una battaglia di tipo esistenziale». Mudar Younes, direttore dell’unione dei comuni arabi israeliani, ha detto: «Da quanto ne so, questa è la prima volta che uno sciopero generale di questo tipo avviene dentro Israele, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza». Anche in Cisgiordania è stata sottolineata l’unità dei palestinesi. Mustafa Barghouti, rispettato politico palestinese non affiliato né a Fatah né ad Hamas, ha parlato di «un giorno molto significativo. Riflette quanto i palestinesi abbiano un’unica battaglia da combattere, contro lo stesso sistema di apartheid» (sistema che Israele nega di avere imposto sui palestinesi).

Secondo alcuni osservatori, le ultime dimostrazioni di unità potrebbero costringere il governo israeliano a cambiare il suo approccio nei confronti dei palestinesi, che negli ultimi decenni ha considerato un popolo profondamente diviso. Non è detto comunque che questa unità continui anche in futuro, ed è ad oggi difficile prevedere se potrà portare a cambiamenti radicali allo status quo.