Iniziò tutto con una lista di nomi buffi

Ed è finita con un'azienda che ha perso un terzo dei dipendenti, in una vicenda che insegna qualcosa su come stia cambiando il lavoro nell'industria tecnologica americana

Basecamp è un’azienda informatica statunitense, esiste da 22 anni e fino alla scorsa settimana impiegava una sessantina di persone: in pochi giorni ha perso circa un terzo dei propri dipendenti. Non sono stati licenziati per un esubero o per problemi finanziari, ma hanno deciso di andarsene volontariamente dopo che i dirigenti dell’azienda hanno vietato di discutere di politica e società nelle chat che i dipendenti utilizzano per lavorare.

È una storia tutto sommato piccola, Basecamp non è certo grande e ricca quanto Google o Amazon, ma secondo diversi osservatori è esemplare su come si siano evolute certe dinamiche lavorative, su come le aziende si percepiscano nella società e su quali responsabilità abbiano, non solo nei confronti dei propri dipendenti e in un mondo sempre più complicato. Potrebbe essere inoltre un’avvisaglia di cosa accadrà, o sta già accadendo, in aziende molto più grandi e che impiegano centinaia di migliaia di persone.

“Migliori nomi di sempre”
Con Basecamp iniziò tutto nel 2009, quando alcune persone nell’azienda si misero a tenere una lista di nomi e cognomi di clienti, la cui combinazione era ritenuta buffa e divertente. Nell’elenco c’erano sia nomi di persone dagli Stati Uniti e dall’Europa, sia dall’Asia e dall’Africa. L’idea della lista “Migliori nomi di sempre” (“Best Names Ever”) era nata per gioco e come occasione di svago, e a detta di chi l’aveva consultata ricordava un po’ i nomi inventati usati da Bart Simpson per fare gli scherzi telefonici al barista Boe.

Era qualcosa da far circolare nel sistema di messaggistica interno di Basecamp, che vende proprio servizi online per organizzare il lavoro nelle aziende con bacheche virtuali sulle quali si possono appuntare le cose da fare, gli obiettivi da raggiungere, commenti sul lavoro svolto e attraverso le quali si possono anche condividere documenti e compiti da affidare a singoli dipendenti.

Con il passare del tempo, alcuni dipendenti – vecchi e nuovi – iniziarono a non sentirsi molto a loro agio sapendo dell’esistenza della lista, preoccupati soprattutto dai risvolti razzisti delle annotazioni sui nomi di clienti asiatici o africani. Le loro preoccupazioni divennero evidenti nei primi mesi di quest’anno, in seguito all’avvio di un progetto su una bacheca interna per valutare politiche e problemi legati alle diversità all’interno dell’azienda.

L’iniziativa era nata dall’idea di una persona da poco assunta e aveva poi attirato l’interesse di una ventina di altri dipendenti. Confrontandosi sul sistema di messaggi interno, il gruppo iniziò ad analizzare i criteri di assunzione impiegati da Basecamp, le tipologie di clienti dell’azienda e la possibilità di invitare qualche personalità per parlare di questi temi agli impiegati.

Dibattito interno
Avendo uno spazio dove confrontarsi apertamente, lo scorso aprile fu sollevata anche la questione della lista dei “Migliori nomi di sempre”. Il dipendente che l’aveva creata non lavorava più nell’azienda, ma altri due impiegati che avevano contribuito a compilarne una parte si erano comunque fatti avanti scusandosi per la scarsa sensibilità dimostrata. Nei giorni seguenti diverse altre persone contribuirono al dibattito, mostrando di essere soprattutto interessate a capire le dinamiche che avessero portato a creare la lista, a ritenerla divertente e infine a vederla come una scelta infelice, se non pericolosa nell’avallare certe forme di razzismo.

Nella discussione intervenne anche David Heinemeier Hansson, cofondatore di Basecamp: spiegò di avere condotto qualche verifica sulle origini della lista e su come si fosse diffusa tra i dipendenti; la definì un fallimento dal punto di vista aziendale, ma respinse i pareri che indicavano l’elenco come il primo passo verso iniziative razziste ben più gravi. Hansson pensava in questo modo di chiudere la questione, ma alcuni dipendenti proseguirono il confronto e il cofondatore non la prese molto bene, andando per esempio a cercare vecchi messaggi interni dei lavoratori coinvolti in cui avevano commentato un nome che ritenevano essere divertente.

Nuove regole
In risposta alle varie iniziative e discussioni dei dipendenti, il 26 aprile Jason Fried, CEO di Basecamp e tra i cofondatori dell’azienda, pubblicò un post sul blog dell’azienda contenente alcune nuove indicazioni sulle regole da seguire in azienda, compreso il divieto di portare avanti «discussioni di carattere sociale e politico»:

Le acque del dibattito sociale e politico in questi giorni sono particolarmente agitate. La sensibilità è oltre il livello massimo e ogni confronto che riguardi la politica, i diritti e la società in generale diventa rapidamente poco piacevole. […] È una forte distrazione. Consuma le nostre energie, e spinge il dibattito verso brutti lidi. Non è salutare, non ci ha portato benefici. E siamo stufi di avere tutto questo sul nostro account aziendale di Basecamp, dove si lavora.

Il post, che Fried avrebbe poi modificato più volte cercando di riformulare alcuni concetti e ammorbidire i toni, non piacque ai dipendenti e attirò l’attenzione di esperti e giornalisti che si occupano di come funziona il lavoro nelle aziende tecnologiche, spesso organizzate con criteri diversi rispetto a quelli delle società in altri settori e più strutturate. Il fatto che sia Fried e Hansson fossero molto seguiti sui social network e considerati esperti delle nuove dinamiche lavorative attirò ulteriore interesse.

Anche per questo motivo alcuni giorni dopo Hansson provò a chiarire meglio la situazione con un nuovo post, che manteneva comunque gli assunti di Fried e al tempo stesso annunciava per i dipendenti interessati l’opportunità di dimettersi, ottenendo una buonuscita: «Nessun rancore e nessuna domanda. Con chi non riesce a immaginare il proprio futuro a Basecamp con queste nuove regole ci impegneremo a trovare un’altra soluzione altrove».

Dimissioni e scuse
Il 30 aprile nel corso di una riunione a distanza su Zoom divenne evidente che molti impiegati avrebbero accettato la buonuscita, non sentendosi più a proprio agio nell’azienda. Circa un dipendente su tre nei giorni seguenti avrebbe avviato le pratiche per lasciare Basecamp, portando evidentemente nuova pressione sui dirigenti.

All’inizio di questa settimana, Fried ha pubblicato un nuovo post sul blog aziendale con il quale si è scusato per come sono andate le cose, seppure senza riferimenti a casi specifici né a una revisione delle nuove limitazioni introdotte pochi giorni prima. Fried ha ringraziato chi ha deciso di rimanere in azienda e ha poi rassicurato i clienti sul mantenimento dei servizi offerti.

Aziende, chat e società
Nonostante abbia interessato un’azienda e un numero ristretto di persone, la vicenda di Basecamp ha ricevuto molte attenzioni negli Stati Uniti da parte di chi si occupa di come stanno cambiando i luoghi e le dinamiche intorno al lavoro. Il confronto sui temi sociali e la politica è naturalmente sempre esistito tra i dipendenti delle aziende, ma un tempo queste conversazioni erano per lo più orali ed effimere, mentre oggi finiscono all’interno delle email, dei forum interni e dei sistemi di messaggistica come Skype, Microsoft Teams e Slack.

Il confronto avviene in forma scritta e viene trasformato in qualcosa di permanente da questi servizi, che aggiornano di continuo i loro archivi con tutto ciò che i dipendenti si sono scritti e hanno condiviso. Molte di queste conversazioni sono visibili a tutti, e possono essere facilmente condivise pubblicamente, a differenza di quanto poteva avvenire un tempo quando si sentiva qualcuno chiacchierare alla macchinetta del caffè: diventano inevitabilmente una parte degli elementi che definiscono la stessa azienda e il modo in cui si vede e si colloca nel mondo.

Al momento buona parte di queste conversazioni avviene senza che ci sia un effettivo controllo, o per lo meno una gestione diretta, da parte aziendale. In alcuni contesti, come nel caso di Basecamp, il tentativo di gestirle in modo spiccio può avere grandi e deleterie conseguenze, come perdere in pochi giorni un terzo della propria forza lavoro magari in settori dove è richiesta una certa specializzazione e conoscenza del prodotto.

Soprattutto le aziende tecnologiche, a cominciare da quelle della Silicon Valley, hanno a lungo promosso l’idea di ridurre i confini tra lavoro e vita privata, di fondere insieme aspetti dell’uno e dell’altra. Apple e Google hanno realizzato campus avveniristici dove “vivere” ancora prima che lavorare, puntando naturalmente sulla possibilità di estendere la giornata lavorativa. In un contesto simile, in cui quasi tutte le interazioni sociali avvengono tra colleghi di lavoro, è inevitabile che si parli anche di altro e che possano nascere discussioni fuori dai canoni aziendali.

L’attenzione generale del mondo anglosassone sul modo con cui si parla pubblicamente di questioni politiche, sociali, razziali o di genere, può facilmente creare dei casi mediatici intorno a commenti o discussioni interni che, resi pubblici, vengano giudicati inopportuni o offensivi. Che si tratti effettivamente di episodi di razzismo o discriminazione, o che conversazioni relativamente innocue vengano stravolte dopo essere state riferite fuori dal loro contesto, le conseguenze possono essere disastrose in termini di relazioni pubbliche per le aziende coinvolte.

Per provare a tenere sotto controllo il fenomeno, o per lo meno a gestirlo, numerose aziende prevedono sessioni di domande e risposte aperte ai dipendenti e ai dirigenti, nelle quali porre questioni non solo sulle politiche aziendali, ma anche sul ruolo stesso della propria azienda nella società. Molto sfugge ugualmente e pone un tema enorme sull’organizzazione del lavoro, ma consente comunque di mantenere un miglior rapporto con i dipendenti rispetto alla pubblicazione di un post sul blog dell’azienda.