Per un giorno la rotta balcanica si ferma a Oulx

In fondo alla Val di Susa volontari e sacerdoti assistono i migranti che si preparano ad attraversare le montagne diretti in Francia

di Isaia Invernizzi e Valentina Lovato

I migranti in partenza da Oulx verso le montagne che portano in Francia (Foto di Valentina Lovato)
I migranti in partenza da Oulx verso le montagne che portano in Francia (Foto di Valentina Lovato)

Mancano pochi minuti alle sette di sera, scende qualche goccia di pioggia e Reza ha appena indossato gli scarponi per la difficile camminata che affronterà nella notte, insieme ad altri tredici migranti. Ha vent’anni e ha fatto un lungo viaggio prima di questa tappa: una delle ultime prima della Germania, spera. Dice che i duemila metri di altitudine del Colle del Monginevro non lo spaventano, nemmeno il freddo, la neve o il rischio di perdersi nei boschi, come è successo a molti negli ultimi giorni. Piuttosto, teme i droni e i visori notturni della polizia francese che controlla la frontiera con l’Italia. «Ma dopo la Bosnia e la Croazia sarà come bere un bicchiere d’acqua», spiega.

È quello che dicono tutti i migranti che arrivano qui a Oulx, in Piemonte, l’ultimo avamposto italiano della rotta balcanica, che migliaia di persone continuano a percorrere ogni anno, nonostante il rafforzamento dei controlli a partire dal 2016.

Sulle mappe tramandate via WhatsApp da chi è già oltreconfine, Oulx (si pronuncia ulcs) è un puntino minuscolo, quasi invisibile. Si trova al fondo della lunga Val di Susa, ha poco più di tremila abitanti e arrivando per la prima volta si ha subito la sensazione che sia un luogo di passaggio. Quando le nuvole sono basse tutto diventa grigio e il vento freddo si infila lungo la valle. Al bivio che si incontra poche centinaia di metri dopo il paese si può scegliere se salire verso Bardonecchia o prendere la strada per Claviere, un piccolo comune a 1.760 metri di quota da cui partono molte piste da sci. Camminando lungo i sentieri, nei boschi di larici, si può oltrepassare il confine con la Francia senza rendersene conto.

 

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Sono le stesse vie percorse tutte le notti dai migranti per arrivare a Monginevro e infine a Briançon dopo almeno quattro ore di cammino, se tutto va bene. Oulx è uno dei diversi “colli di bottiglia” del percorso seguito nei flussi migratori dal Medio Oriente e dall’Africa, i luoghi di confine – come Ventimiglia, 150 chilometri in linea d’aria più a sud, da un paio d’anni molto meno frequentato – in cui molte delle persone che cercano di raggiungere l’Europa settentrionale si fermano per qualche ora o qualche giorno, per prepararsi ad attraversamenti che presentano difficoltà fisiche o politiche, e spesso entrambe. Per i tanti diretti in Germania, passare da qui dopo aver attraversato i Balcani è una lunga deviazione, ma la strada che taglia attraverso l’Austria è complicata da confini meno permeabili e più ostili dal punto di vista geografico.

Alla stazione di Oulx si notano in particolare due rumori, tra i tanti: l’avviso che rimbomba dagli altoparlanti per annunciare l’arrivo dei treni da Torino e le voci indistinte provenire dal “Safe Point”, una tenda di plastica allestita dalla Croce Rossa per dare riparo ai tanti migranti che sanno di dover scendere qui. Reza è seduto nell’angolo in fondo a destra, accanto ad Ali, con cui ha condiviso parte del cammino dall’Iran.

Attorno al tavolo, davanti a bottigliette d’acqua e pacchetti di biscotti appena scartati, ci sono altri giovani in attesa. Si fanno largo nel groviglio di cavi e prese elettriche: controllano che la batteria degli smartphone sia carica al cento per cento, pronti per la partenza. Non vedono l’ora di superare il confine, anche se non sarà così facile: molti di loro lo sanno già, perché qualche notte fa sono stati scoperti dalla polizia francese e respinti. Arrivano dall’Afghanistan, dall’Iran, altri dal Marocco e dalla Tunisia.

La banchina della stazione di Oulx (Foto di Valentina Lovato)

Alcuni di loro – pochi, in realtà – hanno seguito la rotta del Mediterraneo centrale, che ha condotto in Val di Susa migliaia di migranti dal 2017 al 2019 dopo il blocco del passaggio da Ventimiglia deciso dalla polizia francese. La maggior parte, invece, è passata dai Balcani, dai campi tra la Bosnia e la Croazia, dove negli ultimi mesi migliaia di afghani, pakistani e iraniani sono rimasti bloccati nella neve a temperature molto rigide, in condizioni estreme. Dal marzo dello scorso anno, dopo il primo lockdown a causa della pandemia da coronavirus, sono cambiate tante cose: le rotte migratorie hanno portato a Oulx più famiglie, anche madri con figli nati da pochi giorni, e meno giovani provenienti dall’Africa sub-sahariana.

– Leggi anche: Lo stallo sulla rotta balcanica, spiegato

Non è facile calcolare quante persone siano passate da qui. Secondo un report dell’associazione Medici per i diritti umani, dal 2017 al luglio del 2020 più di 7.500 persone hanno attraversato il passo e sono arrivate a Briançon. A Ventimiglia, invece, tra il 2018 e il 2019 sono stati respinti 18mila migranti, secondo i dati del ministero dell’Interno.

Reza è partito dall’Iran un anno fa. Ha deciso di scappare dopo la crisi economica a cui sono seguite manifestazioni popolari represse con la violenza dal regime, negli ultimi mesi del 2019. Dice che in Iran ci sono pochi soldi e non c’è lavoro per lui che ha studiato informatica. La Germania, invece, è un paese in cui «ci sono le leggi», cosa che gli dà speranza. Non sa bene dove andrà, una volta lì: forse lavorerà in un ristorante, aiutato da qualche connazionale.

«Iran, Turchia, tre giorni di cammino prima di arrivare in Grecia, poi altri dieci giorni per andare in Albania, Montenegro, Serbia e Bosnia» racconta scandendo i nomi dei paesi che ha attraversato nell’ultimo anno. Ali, al suo fianco, annuisce. Entrambi, in Bosnia, sono stati picchiati e derubati dalla polizia, anche se non sono riusciti a capire se quelle persone vestite di nero fossero davvero poliziotti. Sono stati costretti a consegnare i soldi che avevano, le giacche, i vestiti e gli smartphone, fondamentali per sapere dove andare.

«Siamo rimasti otto mesi in Bosnia, bloccati», raccontano mentre altri si avvicinano incuriositi, anche se conoscono fin troppo bene questa storia. «Siamo rimasti senza cibo e ci hanno preso tutto, anche le scarpe. Abbiamo proseguito scalzi fino a quando non ne abbiamo trovate altre per strada. Ci siamo rifugiati nei boschi per quaranta giorni, senza niente. Solo quando siamo riusciti ad arrivare a Trieste siamo entrati in Europa. Prima l’Europa non c’è».

Negli ultimi anni da Oulx sono passate migliaia di persone che hanno vissuto le stesse brutalità. Ma qui, rispetto a tante altre frontiere, i migranti sanno che possono contare su una rete solidale di associazioni e attivisti che offrono un prezioso sostegno a chi passa dalla Val di Susa. A poche decine di metri dalla stazione c’è il rifugio “Fraternità Massi” gestito dalla fondazione cattolica Talità Kum. È aperto dal pomeriggio fino alle prime ore della mattina e chiunque può presentarsi al cancello grigio per chiedere un letto o un piatto di pasta.

Il rifugio Fraternità Massi, a Oulx (Foto di Valentina Lovato)

Nel cortile ci sono alcuni container con letti a castello e brande: nonostante l’aspetto spartano, all’interno si respira aria di casa. Sotto la tettoia, accanto alle scale che portano al primo piano, sono stati allineati alcuni scaffali con decine di paia di scarponi. In un magazzino si trovano scatole con giacche, guanti, cappelli, tute da sci. Tutti questi indumenti, essenziali per oltrepassare le montagne, vengono raccolti nella valle e donati ai migranti.

Don Luigi Chiampo ha 61 anni ed è il responsabile della pastorale migranti della diocesi di Susa. Tre anni fa ha aperto il rifugio, dove lavorano operatori e volontari che ogni notte assistono mediamente una quarantina di persone. Spiega che i migranti hanno iniziato a salire fino alle montagne dopo l’inasprimento dei controlli a Ventimiglia, in Liguria, dove migliaia di persone erano rimaste bloccate per mesi e dove tuttora è molto difficile superare il confine. «La migrazione è come l’acqua: va dove trova un varco, non passa dove ci sono le barriere», dice don Chiampo. Per questo dal 2017 in Val di Susa hanno iniziato ad arrivare giovani provenienti dall’Africa sub-sahariana. All’inizio passavano il confine da Bardonecchia, dal valico del Colle della Scala oppure in treno e a piedi dalla galleria ferroviaria del Frejus. Poi dal 2018 i flussi sono aumentati e il cammino si è spostato verso Claviere, Monginevro e Briançon.

Gli scarponi che vengono donati ai migranti per attraversare le montagne (Foto di Valentina Lovato)

È proprio a Bardonecchia che il 30 marzo del 2018 era scoppiato un caso diplomatico tra l’Italia e la Francia: cinque doganieri transalpini avevano fatto irruzione nella sala di aspetto della stazione, dove all’epoca operava l’associazione Rainbow for Africa, per sottoporre un uomo nigeriano che sospettavano fosse uno spacciatore a un test dell’urina. Il campione è risultato negativo e l’uomo era poi stato rilasciato.

Sempre nel marzo del 2018 la rete di volontari e attivisti di “Briser les Frontières”, “sbriciolare le frontiere”, aveva occupato uno scantinato della chiesa di Claviere. “Chez Jesus”, il nome dato allo spazio, era un punto di appoggio per i migranti che da Claviere iniziano la lunga camminata verso la Francia. La diocesi di Susa aveva tollerato per qualche mese l’occupazione prima dello sgombero, avvenuto a ottobre del 2018, nello stesso periodo in cui don Chiampo iniziò a lavorare all’apertura del rifugio Fraternità Massi, un luogo più istituzionale, lontano dal confine e sostenuto economicamente dalla fondazione Magnetto.

(Foto di Valentina Lovato)

Nonostante sia un’iniziativa privata, negli ultimi anni il rifugio è stato riconosciuto dal territorio: è iniziato un dialogo con i comuni e la prefettura, anche se finora l’accoglienza è stata sostenuta concretamente dalle sole associazioni. Sono state coinvolte la Croce Rossa e l’associazione Rainbow For Africa, che garantiscono un presidio sanitario soprattutto nelle ore notturne, quando i migranti hanno più bisogno di aiuto dopo essersi persi nei boschi o essere stati respinti dalla polizia francese. La diaconia valdese insieme all’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (ASGI) offrono invece assistenza legale gratuita, grazie al finanziamento diretto di DRC Italia.

Don Luigi Chiampo (Foto di Valentina Lovato)

Nella cucina del rifugio, di fronte a un cartello con la scritta “Futuro in corso” e ai piatti appena lavati, Don Chiampo spiega che le famiglie, spesso numerose, sono molto determinate: si fermano poco, riposano quanto basta e poi tentano di passare il confine fino a quando non riescono a raggiungere Briançon. Negli ultimi mesi sono arrivate anche molte donne incinte o con figli neonati partoriti in viaggio. «Le famiglie afghane cercano il passaggio in alta montagna, un cammino più rischioso, ma dove è anche più difficile essere scoperti dalla polizia francese», dice.

Nel cortile, Reza e gli altri attendono il loro turno prima di entrare nel container della doccia. Pochi minuti prima avevano ricevuto le tute da sci: si guardano ridendo di un abbigliamento insolito per chi arriva da città in cui in estate le temperature superano i cinquanta gradi. Devono aspettare ancora un po’ prima di prendere l’ultimo pullman per Claviere, dove arriveranno quando inizierà a fare buio.

I container del rifugio di Oulx (Foto di Valentina Lovato)

Fino a un mese fa, molti di loro sarebbero stati accolti nella casa cantoniera dell’Anas occupata nel dicembre del 2018 e ribattezzata “Chez JesOulx”. È stata gestita da attivisti “no border” fino al 23 marzo del 2021, quando è stata sgomberata dalla polizia dopo le tante sollecitazioni presentate dal comune: all’interno c’erano 53 migranti tra cui venti bambini, e tredici volontari, poi denunciati. Secondo l’associazione Medici per i diritti umani, nella casa cantoniera hanno trovato un riparo temporaneo settecento persone nel mese di febbraio e ottocento e nei primi venti giorni di marzo. Adesso le porte e le finestre sono state murate, mentre all’esterno sono rimasti vestiti e scarpe ormai inutilizzabili, abbandonati sotto la pioggia.

La casa cantoniera occupata, sgombrata lo scorso 28 marzo (Foto di Valentina Lovato)

La casa cantoniera era uno dei nodi della rete solidale transfrontaliera che mette in contatto Oulx con un altro luogo di accoglienza, il Refuge solidaire di Briançon, dove i migranti arrivano dopo aver percorso i sentieri in montagna. Dal 2018, pur fuori dall’istituzionalità, è stato un punto di appoggio di cui molti, anche la diocesi, hanno riconosciuto una certa importanza. È anche grazie a queste realtà, secondo le persone del posto, che in Val di Susa non si sono radicati i cosiddetti passeur o smugglers, trafficanti che assicurano il passaggio delle frontiere a pagamento.

Dopo lo sgombero della casa cantoniera i flussi non si sono ridotti, e i problemi sono aumentati: l’accoglienza è stata presa in carico totalmente dal rifugio Fraternità Massi, che nell’ultimo mese ha dovuto ospitare molte più persone, con la non indifferente necessità di garantire il distanziamento fisico e le misure di prevenzione dei contagi. Solo negli ultimi giorni sembra che la situazione sia tornata sotto controllo: non si può sapere quanto durerà questa calma apparente, perché è difficile prevedere quanti migranti arriveranno nei prossimi mesi.

(Foto di Valentina Lovato)

Piero Gorza è un antropologo, referente per il Piemonte dell’associazione Medici per i diritti umani. Negli ultimi anni ha documentato l’arrivo dei migranti in Val di Susa e ne ha ospitati molti nella sua casa, in centro al paese, «come hanno fatto molte altre persone che abitano a Oulx». Secondo Gorza, questo luogo è diverso dalle altre tappe delle rotte migratorie, perché altrove è difficile incontrare reti solidali così strutturate. «Qui sono nati tre rifugi nell’arco di trenta chilometri e tutti e tre fornivano aiuti in modo gratuito», spiega. «Nei primi tre mesi dell’anno sono riuscite a passare novecento persone, che hanno avuto bisogno di giacche a vento, sciarpe, cappelli e cibo: è evidente che tutto ciò è possibile solo con il sostegno dei volontari. Non è il paradiso, ma c’è una grande solidarietà».

Anche Gorza è nel cortile del rifugio Fraternità Massi quando i volontari distribuiscono i vestiti. Una delle sue più grandi preoccupazioni è che i migranti non si facciano male durante la notte, che non si perdano nei boschi. Stimare i decessi tra i migranti che hanno provato ad attraversare le montagne in questa zona è difficile, se non impossibile. In due anni, tra il 2018 e il 2019, quattro sono certamente morti: Mohammed Fofana nel 2018, a Bardonecchia; Alpha (di cui non si conosce il nome preciso) e una giovane nigeriana, Blessing Mathew, caduta in un torrente cercando di sfuggire alla polizia di frontiera, entrambi verso Briançon; Tamimou, morto assiderato nel febbraio del 2019 cercando di passare dal Colle del Monginevro. Molte altre morti sono state evitate grazie agli interventi del Soccorso alpino, della Croce Rossa e dei marauders, attivisti che perlustrano i boschi per prestare soccorso ai migranti in difficoltà.

Piero Gorza (Foto di Valentina Lovato)

Molte delle persone che vengono soccorse hanno sintomi di ipotermia, di congelamento degli arti e forte stress. Lo scorso 26 marzo una bambina afghana di dodici anni è stata ricoverata all’ospedale Regina Margherita di Torino dopo essere stata respinta al confine dalla polizia francese insieme alla sua famiglia. Era in stato di shock: non riusciva più a parlare e a muoversi. Gorza spiega che questi sono gli effetti della militarizzazione della frontiera. «I controlli, sempre più sofisticati e pressanti, anche con l’aiuto dei droni e dei visori notturni, non hanno fatto diminuire i passaggi. Costringono le persone a scegliere strade più lunghe e pericolose, ad alta quota, dove aumentano i rischi».

Uno dei sentieri che portano nei boschi di Claviere, al confine con la Francia (Foto di Valentina Lovato)

Anche negli ultimi giorni molti migranti sono stati soccorsi dalla Croce Rossa. Nella notte tra il 24 e il 25 aprile i vigili del fuoco, gli operatori della Croce rossa e del soccorso alpino hanno salvato due migranti sul Col Saurel: non riuscivano a trovare il sentiero nella neve. La notte successiva, tra sabato e domenica, il 112 ha ricevuto una chiamata d’emergenza di altri due migranti in difficoltà nella zona della valle Gimont. Uno era rimasto ferito a causa di una caduta. I soccorritori hanno perlustrato la zona tutta la notte anche con un elicottero dei vigili del fuoco, senza trovare traccia delle due persone. «Non abbiamo trovato nessuno, speriamo che il motivo sia che sono riusciti ad andare in Francia» dice Michele Belmondo del comitato Croce Rossa di Susa.

I boschi di Claviere, al confine con la Francia (Foto di Valentina Lovato)

In montagna le condizioni meteo cambiano molto velocemente. Con il passare degli inverni, compaiono e scompaiono i sentieri, coperti dalle foglie o dalla neve. Spesso le mappe seguite dai migranti sono vecchie, poco precise, e possono portare in luoghi da cui è difficile tornare indietro. «Il periodo più critico sono le settimane in cui cambiano le stagioni, soprattutto i mesi di novembre e aprile», spiega Belmondo. «In paese, a quote più basse, non c’è più la neve e le persone si sentono incentivate a partire. Ma a oltre duemila metri le temperature sono ancora molto rigide. Per fortuna la maggior parte dei migranti ce la fa: non chiedono soccorsi e riescono a superare il confine».

Reza ha visto la neve per la prima volta in Bosnia. È convinto di poter superare la montagna senza problemi, anche se gli operatori del rifugio hanno spiegato a tutti i pericoli a cui vanno incontro. I cartelli scritti in tutte le lingue ricordano di salvare i numeri di emergenza sullo smartphone. Quando si aprono le porte del cancello grigio, c’è una certa euforia che aiuta a scrollare di dosso la stanchezza del cammino. Tutti ringraziano gli operatori e salutano chi rimane in attesa, ancora per un giorno o due. Qualcuno si abbraccia, sperando di poterlo fare anche dall’altra parte della montagna.

Il pullman parte un quarto d’ora prima delle otto di sera. Fa molto freddo, il vento non dà tregua. A Claviere, Reza e altri tredici compagni di viaggio si nascondono in attesa del buio prima di iniziare la salita lungo i sentieri che costeggiano la pista da sci di fondo. Le strade sono deserte, le luci accese sono poche: tutto fa pensare a una notte tranquilla. Inizia la marcia nel buio. Il mattino dopo, uno di loro invia un messaggio: «Siamo arrivati a destinazione alle quattro di notte». Per un giorno, Oulx è stata la loro casa.