Una canzone di Dennis Wilson

«Aveva una doppia personalità: per metà era un bambino, per metà era pazzo»

(Keystone/Hulton Archive/Getty Images)
(Keystone/Hulton Archive/Getty Images)

Le Canzoni è la newsletter quotidiana che ricevono gli abbonati del Post, scritta e confezionata da Luca Sofri (peraltro direttore del Post): e che parla, imprevedibilmente, di canzoni. Una per ogni sera, pubblicata qui sul Post l’indomani, ci si iscrive qui.
I Polyphonic Spree, originale complesso di cui parlammo per questa canzone, hanno fatto un disco nuovo, di cover: non ha niente di cui ci fosse bisogno, ma Could it be magic è sempre una bellezza: un giorno ne diciamo meglio, ché ha una storia di autori illustri.
Venerdì ci sarà una nuova canzone dei Kings of Convenience, band norvegese di successo e culto a inizio millennio, assenti da più di dieci anni, e di leader adottato in Sicilia.
L’intervista che ha irritato St.Vincent che ho linkato ieri sera è stata rimossa anche dal blog dell’autrice, che dice di esserci stata costretta, poi è stata espunta da ogni archivio online, ma se volete è qui.
40 anni fa oggi si sposarono Ringo Starr e Barbara Bach: lui si è ricordato.
Il disco nuovo di Billie Eilish esce il 30 luglio, la canzone nuova giovedì.

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Dennis Wilson

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Dennis Wilson morì nei giorni tra Natale e Capodanno del 1983, affogando ubriaco nel mare davanti alla spiaggia di Los Angeles: aveva 39 anni, aveva passato i giorni precedenti in diversi ospedali dopo aver fatto a botte, viveva per strada o dove capitava.
Quindici anni prima aveva frequentato e ospitato a casa propria il gruppo di squilibrati omicidi di Charles Manson e i loro eccessi.
Vent’anni prima, invece, la band in cui suonava con i suoi due fratelli era una delle più popolari del mondo, i Beach Boys.

La storia e le storie di Dennis Wilson sono pazzesche. In queste newsletter lo avevamo citato perché c’è una vecchia ipotesi che abbia scritto lui You are so beautiful, che ha cantato spesso. Lui era fighissimo, molto squinternato, e l’unico surfista vero della band, in cui suonava la batteria e scrisse un po’ di canzoni, passando sempre come il meno talentuoso della famiglia. Qui c’è un documentario BBC su di lui, intitolato The real beach boy, e qui un articolo sulla sua scellerata morte.

Nel 1977 Wilson pubblicò un disco da solo: coi Beach Boys aveva rotto e recuperato diverse volte, soprattutto a causa dei casini che aveva con droghe e alcol. E aveva delle sue canzoni che gli sembravano molto meglio delle cose che faceva la band. Il disco andò così e così – lui era ingestibile – ma negli anni divenne molto amato: si chiama Pacific ocean blue. Lui dopo ebbe una storia lunga con Christine McVie dei Fleetwood Mac, che poi disse di lui: «aveva una doppia personalità: per metà era un bambino, per metà era pazzo». I Beach Boys lo cacciarono e lo ripresero ancora, lui fece tutte le follie autolesioniste, violente e scriteriate possibili, compreso sposare (e separarsi) la figlia di suo cugino e compagno di band Mike Love, con cui si era messo che lei aveva sedici anni (ma i conflitti e tormenti tra i membri della band sono un pezzo drammatico ed estessimo della storia dei Beach Boys). E infine morì, in quel modo: tuffandosi nell’oceano per cercare, ubriaco, di ritrovare delle cose della sua precedente moglie che lui stesso aveva gettato in mare quando avevano divorziato.

Ma insomma, fece questo disco, nel 1977: bello, un disco californiano, marino, ma da tramonto. Con una stupenda copertina. All’inizio del lato B c’era Time.

Home, home sweet home
I’m going home
To where she waits
To share love with me, yeah

Che era piuttosto autobiografica, e metteva insieme sentimentalismo e intemperanze dell’autore, non solo nel testo, ma anche nello sviluppo della musica (che suona ondosa, ma sarà suggestione di certo), dalla dolcezza iniziale all’aggressività conclusiva.

I’m the kind of guy
Who loves to mess around
Know a lot of women
But they don’t feel my heart
With love, completely free
Ooh, I love you, I really do


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