In Italia pagare le tasse sui bitcoin è complicato

Molti hanno accumulato dei patrimoni in criptovalute, ma la normativa fiscale per convertirli in euro è confusa e frammentata

di Eugenio Cau

(Pavlo Gonchar/SOPA Images via ZUMA Wire)
(Pavlo Gonchar/SOPA Images via ZUMA Wire)

Negli ultimi anni il numero di persone che hanno investito in criptovalute è aumentato enormemente, man mano che da valuta digitale di cui parlava ossessivamente una nicchia di internet diventavano uno strumento di investimento molto conosciuto e discusso. Non ci sono dati certi, ma si stima che oltre 100 milioni di persone nel mondo possiedano criptovalute, un numero cresciuto a ritmo molto elevato nell’ultimo periodo. Chi investe in criptovalute ha probabilmente fatto ottimi affari in questi mesi, poiché tutto il settore è in forte crescita: chi per esempio ha investito 1.000 euro in bitcoin alla fine del 2020 oggi ha già quasi quadruplicato l’importo iniziale.

Ma chi volesse cominciare a godersi il suo patrimonio ha un problema: rispetto ad altri tipi di investimenti, capire come pagare le tasse può essere complicato. Per questo, tante persone non sono ancora riuscite a riscuotere i guadagni, per il momento immagazzinati in formato digitale su qualche sito specializzato.

In Italia la normativa fiscale sulle criptovalute non si basa su una fonte univoca, come potrebbe essere una legge approvata dal Parlamento, ma su varie opinioni dell’Agenzia delle entrate e su sentenze di tribunali. Questo ha creato una varietà di interpretazioni, soprattutto online, che per i piccoli investitori possono diventare un problema: chi ha comprato criptovalute spesso non sa quali sono gli adempimenti che deve rispettare e nemmeno che nella maggior parte dei casi rischia di trovarsi in una situazione di irregolarità.

Rispetto agli investimenti finanziari più istituzionali – come i titoli di stato – le criptovalute hanno infatti caratteristiche piuttosto peculiari. Tradizionalmente, specie fino a qualche anno fa, la maggior parte degli investimenti finanziari era fatta tramite un intermediario, come una banca, che faceva anche da sostituto d’imposta: si occupava cioè della maggior parte delle tasse. Le cose sono in parte cambiate con l’introduzione di app di trading come Robinhood o eToro, che non offrono questo servizio, ma buona parte delle banche, anche quelle online, fornisce diverse garanzie e consulenze sulla tassazione degli investimenti.

Le criptovalute sono differenti: si comprano e si scambiano senza intermediari su piattaforme quasi tutte estere che consentono tra l’altro un buon grado di anonimato, e degli adempimenti con il fisco deve preoccuparsi l’investitore. Questo non è un problema per gli investitori grandi e strutturati, che possono pagare consulenti fiscali specializzati: ma potrebbe diventarlo per i singoli, anche perché in molte circostanze le criptovalute non sono state comprate necessariamente come investimento. Soprattutto qualche anno fa, molte persone compravano criptovalute per gioco, per provare una cosa nuova, nella speranza di poterle usare come valuta o per sostenere la causa un po’ anarchica che accomunava gli appassionati all’epoca. Comprare criptovalute era un po’ come comprare del credito su un sito di e-commerce, e perciò non era scontato prevedere di doverci pagare le tasse.

Le cose con gli anni sono cambiate, e molto. Chi aveva investito anni fa adesso si trova spesso con patrimoni di valore ingente, e capire come fare per essere a posto con il fisco può diventare complicato: online si trovano opinioni di ogni tipo, e anche i commercialisti, se non sono esperti della materia, rischiano di dare consigli a volte fuorvianti. «L’amministrazione pubblica ha una certa responsabilità nel non chiarire in maniera inequivocabile cosa bisogna fare» dice Ferdinando Ametrano, professore all’Università Milano-Bicocca esperto di criptovalute, oltre che imprenditore attivo nel settore.

Il problema è piuttosto diffuso: «Una delle prime questioni che interessano ai nostri clienti è quella della tassazione. I piccoli investitori in particolare hanno paura di trovarsi in difficoltà davanti al regolatore» spiega Andrea Ferrero, CEO e cofondatore di Young Platform, una piattaforma italiana per la compravendita di criptovalute uscita dall’incubatore di startup del Politecnico di Torino (I3P).

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Cosa dice la norma
Per chi ha esperienza e sa dove guardare, capire come funziona la tassazione delle criptovalute è complicato ma tutto sommato fattibile. «La norma è complessa come è complessa tutta la normativa che riguarda gli investimenti finanziari, e inoltre è piuttosto frammentata, ma le sue conseguenze sono abbastanza chiare» dice Serena Pietrosanti, responsabile del dipartimento di diritto fiscale dello studio legale Hogan Lovells in Italia.

Il problema principale è la frammentazione: poiché non esiste una norma univoca, le indicazioni principali su cosa fare derivano da una serie di chiarimenti di prassi dell’Agenzia delle entrate, cioè da precisazioni fornite ai cittadini – alcune delle quali sono state fornite a un singolo ma non pubblicate ufficialmente, e sono note soltanto perché sono state diffuse nella comunità di esperti e appassionati.

Alcune di queste precisazioni, inoltre, non vengono dalla sede centrale dell’Agenzia delle entrate, che è a Roma, ma da sedi regionali come quelle della Lombardia e della Liguria. «Questo di solito accade perché nella direzione centrale di Roma non c’è unanimità di vedute su una questione, e l’Agenzia stessa preferisce non sbilanciarsi ufficialmente in attesa in un intervento legislativo», dice Francesco Avella, commercialista esperto di criptovalute.

Tutte queste interpretazioni, in ogni caso, indicano in maniera piuttosto chiara che dal punto di vista dell’Agenzia delle entrate le criptovalute devono essere equiparate a investimenti in valuta estera con corso legale. Questo crea alcuni problemi, perché sebbene la normativa sulla tassazione degli investimenti in valuta estera sia chiara e consolidata da tempo, molti aspetti delle criptovalute sfuggono all’equiparazione. «L’operatività delle valute estere ha certe caratteristiche ed è gestita prevalentemente dalle banche. Inoltre, mentre le valute estere sono relativamente poche, le criptovalute sono tantissime, e hanno caratteristiche molto diverse fra loro», spiega Giorgio D’Amico, commercialista esperto di criptovalute.

In ogni caso, navigando tra molte interpretazioni e varie sentenze (ci sono tra le altre un’importante sentenza della Corte di Giustizia europea del 2015 e una del Tar del Lazio del 2020 da tenere in considerazione) tra commercialisti ed esperti legali italiani si è creato un certo consenso su come operare in questo campo. Semplificando al massimo, e prendendo in considerazione soltanto il caso molto basilare di una persona che ha comprato una criptovaluta e l’ha tenuta in un portafoglio digitale, il fisco italiano chiede all’investitore due cose: che indichi il valore delle criptovalute in suo possesso in dichiarazione dei redditi, a fini informativi, e che paghi un’imposta sui redditi del 26 per cento quando grazie alle criptovalute ottiene delle plusvalenze, cioè un guadagno. Per esempio vendendo bitcoin in cambio di euro. Le imposte sulle plusvalenze però vanno pagate soltanto se il valore della giacenza media nell’ultimo anno è stato superiore a 51.645,69 euro, cioè l’equivalente di 100 milioni di lire.

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I problemi
In teoria la norma è piuttosto conveniente per i piccoli investitori, che se non detengono criptovalute il cui valore supera i 51 mila euro in pratica non devono pagare tasse. Chi compra criptovalute oggi deve semplicemente indicarle in una sezione della dichiarazione dei redditi che si chiama “Quadro RW”: questa indicazione ha puro valore informativo e non prevede nessuna tassazione. Quando poi l’investitore deciderà di vendere le sue criptovalute, sarà tenuto a pagare un’imposta soltanto se queste superano i 51 mila euro.

In realtà ci sono numerose difficoltà. Poiché non ci sono soglie minime per quanto riguarda la compilazione del Quadro RW (anche chi possiede criptovalute del valore di pochi euro dovrebbe indicarle in dichiarazione dei redditi), «ci si trova in una situazione in cui anche investitori molto piccoli hanno comunque degli obblighi fiscali», dice Giorgio D’Amico. Il problema è che buona parte degli investitori più piccoli potrebbe non sapere di averli: magari comprano criptovalute perché interessati dalla novità e non sanno che poi dovranno indicarle in dichiarazione dei redditi. Secondo Serena Pietrosanti, «spesso si crede che agire su una piattaforma virtuale non generi obblighi ai fini fiscali, e questo potrebbe aver creato delle sacche di irregolarità nei piccoli investitori».

Inoltre la norma, che è stata pubblicata soltanto pochi anni fa, è retroattiva, perciò anche chi ha comprato criptovalute negli anni precedenti e non le ha dichiarate si trova teoricamente in uno stato di irregolarità.

In sostanza, molto probabilmente la maggior parte degli investitori in criptovalute in Italia si trova in una posizione di irregolarità agli occhi del fisco. «Il fenomeno che vediamo è che molti utenti tengono le loro criptovalute in exchange esteri come Binance o Coinbase e non sanno nemmeno cos’è il Quadro RW perché non hanno mai avuto la necessità di farlo e in ogni caso non saprebbero bene come comportarsi», dice Andrea Ferrero. È impossibile stimare quanti investitori si trovino in posizione di irregolarità, anche perché le criptovalute sono in gran parte irrintracciabili, ma alcuni esperti sentiti dal Post hanno stimato che in Italia sono sicuramente più del 50 per cento.

Non è un’irregolarità grave: per sanarla bisogna fare un’operazione che si chiama “ravvedimento operoso”, che richiede di pagare una sanzione piuttosto piccola per ogni anno di mancata dichiarazione. Ma anche qui interviene la scarsa chiarezza della norma, perché i commercialisti sono in disaccordo su quale sia il valore di riferimento su cui calcolare il pagamento della sanzione. Anche per questo, alcuni investitori preferiscono evitare di regolarizzare la propria posizione, sicuri che in ogni caso sia quasi impossibile essere rintracciati dal fisco.

Qui si inserisce un’altra casistica, quella di chi magari è entrato nel mondo delle criptovalute nei primi anni, quando erano un progetto un po’ anarchico che aveva l’intento di rivoluzionare il sistema bancario e finanziario. In questi casi, la decisione di non regolarizzare la propria posizione può dipendere non dalla mancanza di informazioni o dalla paura delle complessità del fisco, ma dall’ideologia: «Molti partono dal presupposto che le criptovalute siano per antonomasia fuori dalle regole istituzionali, comprese quelle fiscali», dice Francesco Avella.

Un altro timore degli investitori è che la norma cambi. Davide Zanichelli è un deputato del Movimento 5 Stelle che alla fine dell’anno scorso, assieme ad alcuni colleghi, aveva presentato un emendamento alla legge di bilancio per regolare in maniera definitiva la tassazione delle criptovalute. L’emendamento è stato stralciato, e lui stesso lo definisce più come una provocazione e una proposta di partenza, il cui scopo era diffondere l’idea che è necessario dare più certezze agli investitori. «Non serve necessariamente una legge intesa come norma primaria, basterebbe anche un decreto del ministero dell’Economia, ma serve un punto fermo», dice. «Il problema attuale è che l’interpretazione di oggi potrebbe facilmente cambiare un domani. Negli ultimi anni ho parlato con molti investitori preoccupati che mi hanno detto: oggi so di dover pagare una certa somma in tasse, ma non ho la garanzia che in futuro il fisco non tornerà a cercarmi». Secondo Zanichelli, «quest’incertezza è potenzialmente una grande perdita di opportunità».

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Cosa si perde
Secondo gli esperti, per ora le perdite subite dal fisco italiano a causa della normativa poco chiara sono molto limitate, perché le imposte scattano soltanto nel momento in cui si realizza una plusvalenza, e la tendenza generale degli investitori in questo momento è quella di tenersi strette le proprie criptovalute con l’aspettativa che aumenteranno di valore. Anche se buona parte degli investitori si trovasse in una posizione irregolare, dunque, finché non decidono di vendere non devono niente al fisco, che non perde entrate potenziali.

Le cose potrebbero cambiare nei prossimi anni, soprattutto se il prezzo delle criptovalute più note comincerà a stabilizzarsi e gli investitori cominceranno a voler godere dei propri guadagni. A quel punto sarà piuttosto importante avere una norma chiara e definita, perché sarà allora che gli investitori dovranno decidere se pagare quanto dovuto al fisco italiano o usare uno dei metodi per eludere le tasse (sono tanti, già molto usati e piuttosto creativi).

In ogni caso, tutti gli esperti stanno notando che nell’ultimo periodo sempre più persone hanno cercato di regolarizzare la propria posizione o quanto meno hanno iniziato a porsi il problema, in gran parte perché, con l’aumento di valore delle criptovalute, hanno cominciato a trovarsi in mano patrimoni ingenti.

Una perdita immediata riguarda però tutto il sistema economico. Secondo gli esperti, l’Italia ha un buon potenziale di sviluppo nell’ambito delle criptovalute, che però rischia di andare perduto perché il paese è poco attraente sia per gli investitori sia per le imprese attive nel settore. «Il fatto di non avere una normativa chiara non solo in termini di tassazione ma anche in termini di regolamentazione è una perdita di competitività pazzesca», dice Ferrero.

Come rimediare
Il problema principale con la tassazione delle criptovalute comincerà dunque a porsi tra qualche anno, quando bitcoin e altri cominceranno a uscire dai wallet e a essere usati nell’economia reale. Per prepararsi a dovere, il fisco potrebbe creare norme più chiare e particolareggiate. Secondo Giorgio D’Amico, per esempio, potrebbe essere auspicabile la creazione di una distinzione più netta tra i piccoli investitori, che potrebbero godere di un percorso semplificato, e gli investitori di maggiori dimensioni. Bisognerebbe anche normare con precisione le altre forme di impiego delle criptovalute che comunque generano reddito, come il mining (cioè il processo informatico di creazione di bitcoin e altre criptovalute) e lo staking (un’altra pratica simile al mining).

Tra gli esperti, non senza un certo grado di interesse privato, si parla molto anche di una sanatoria: per via delle circostanze eccezionali in cui sono nate e si sono diffuse le criptovalute, potrebbe essere ragionevole immaginare che lo stato decida di non imporre sanzioni a chi decidesse di regolarizzare la propria posizione con un ravvedimento operoso, come invece succede adesso, adottando precauzioni per evitare il riciclaggio di denaro.

Un sistema di incentivi potrebbe essere utile soprattutto perché, secondo gli esperti, nei prossimi anni potrebbe crearsi una certa competizione tra paesi, che cercheranno di portare nei propri sistemi finanziari le ricchezze generate dalle criptovalute.