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  • Sabato 17 aprile 2021

L’interminabile scontro per il potere in Iran

I rapporti tra moderati e ultraconservatori sono peggiorati con il sabotaggio alla centrale iraniana di Natanz: ma è una storia di cui continueremo a parlare

di Elena Zacchetti

La Guida suprema Ali Khamenei, a sinistra, e il presidente Hassan Rouhani, a Teheran il 3 agosto 2017 (Iranian Presidency Office via AP)
La Guida suprema Ali Khamenei, a sinistra, e il presidente Hassan Rouhani, a Teheran il 3 agosto 2017 (Iranian Presidency Office via AP)

Il sabotaggio dell’importante impianto nucleare iraniano di Natanz, compiuto la scorsa settimana probabilmente da Israele, sta avendo conseguenze sulla politica dell’Iran, già in fermento a causa delle tensioni con i nemici regionali e per la crisi economica provocata in buona parte dalle sanzioni internazionali. Negli ultimi giorni lo scontro tra ultraconservatori e moderati, le due principali fazioni politiche del paese, è diventato ancora più intenso: non solo ha esacerbato le tensioni tra i due gruppi, guidati rispettivamente dalla Guida suprema Ali Khamenei (la principale figura politica e religiosa del paese) e dal presidente Hassan Rouhani, ma potrebbe condizionare anche i colloqui relativi al nucleare iraniano in corso a Vienna, con cui l’Iran e diversi paesi occidentali, tra cui gli Stati Uniti, stanno cercando di ripristinare l’accordo sul nucleare del 2015.

È difficile dire con precisione quali saranno gli effetti di tutto questo sulla politica iraniana, soprattutto in vista delle importanti elezioni presidenziali fissate per giugno, ma per ora sembra che la crisi possa avvantaggiare lo schieramento politico più intransigente e aggressivo, più ostile a qualsiasi apertura verso l’Occidente e verso piani di riforme interne: quello ultraconservatore guidato da Khamenei, il più potente, che sembra anche il favorito a imporsi nel voto di giugno.

Le ultime tensioni sono cresciute dopo l’attacco all’impianto di Natanz, che si trova poco meno di 300 chilometri a sud dalla capitale Teheran. Israele avrebbe attaccato l’impianto con l’obiettivo di rallentare in maniera significativa il programma nucleare dell’Iran, che Stati Uniti e altri paesi ritengono abbia finalità belliche (Israele non ha confermato né smentito, come sempre dopo questo tipo di operazioni, ma ci sono pochi dubbi sulle sue responsabilità).

Le motivazioni che avrebbero spinto Israele ad attaccare sono legate anche allo scontro politico tra ultraconservatori e moderati che ha segnato la politica iraniana degli ultimi anni e all’accelerazione del programma nucleare iraniano avviata nell’ultimo biennio come conseguenza della decisione dell’ex presidente americano Donald Trump di ritirare gli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare del 2015.

Il presidente iraniano Hassan Rouhani, a destra, e il ministro degli Esteri, Mohammad Javad Zarif, che potrebbe candidarsi alle prossime presidenziali di giugno (AP Photo/Vahid Salemi, File)

Molto in sintesi, l’accordo prevedeva la rimozione di parte delle sanzioni economiche imposte all’Iran in cambio di un importante rallentamento del programma nucleare iraniano. La decisione di Trump era stata presa unilateralmente, senza alcuna violazione significativa dell’accordo da parte dell’Iran. Nei mesi successivi, Trump aveva imposto vecchie e nuove sanzioni – 1.500 in tutto, un numero altissimo – producendo conseguenze devastanti sull’economia iraniana. L’Iran aveva poi risposto iniziando a violare i termini dell’intesa, per esempio annunciando livelli più alti di arricchimento dell’uranio e la costruzione di centrifughe di ultima generazione (i grandi macchinari che servono per arricchire l’uranio).

Quello di Trump era stato visto come un “tradimento” da molti iraniani, anche dai moderati di Rouhani, ma soprattutto aveva fatto infuriare gli ultraconservatori, da sempre contrari all’accordo, che avevano incolpato il governo guidato dai moderati di essersi “fatto fregare” dagli americani.

Accuse simili sono state rivolte ai moderati anche dopo il sabotaggio di Natanz. La stampa ultraconservatrice iraniana ha infatti accusato gli Stati Uniti – dipinti come amici dei moderati – di essere dietro l’attacco e di avere collaborato con Israele. L’agenzia di news Tasnim ha scritto per esempio che gli Stati Uniti sono «un partner dei sionisti nelle azioni terroristiche», mentre sull’agenzia Mehr si è sostenuto che un attacco di quel tipo non sarebbe potuto accadere senza l’approvazione del presidente americano, Joe Biden. La maggior parte dei giornali iraniani, molti dei quali considerati vicini all’ala più a destra del regime, ha inoltre insistito molto sulla necessità che l’Iran si ritiri dai colloqui di Vienna, iniziati questa settimana proprio con l’obiettivo di ripristinare l’accordo sul nucleare.

L’inizio dei colloqui a Vienna è una delle ragioni che potrebbero avere spinto Israele ad attaccare l’impianto di Natanz, con l’obiettivo di favorire la reazione furiosa degli ultraconservatori iraniani, aumentare la diffidenza reciproca tra le parti e spingere l’Iran a ritirarsi dai negoziati.

Manifestanti di un gruppo antigovernativo iraniano vicino all’hotel di Vienna dove si stanno tenendo i colloqui sul nucleare (AP Photo/Lisa Leutner)

Israele, infatti, è sempre stato contrario all’accordo sul nucleare. Già nel 2015 non si fidava delle garanzie date dagli iraniani e aveva gli stessi dubbi che avevano molti Repubblicani americani e qualche analista: cioè che la rimozione delle sanzioni avrebbe permesso al regime iraniano di ottenere benefici economici tali da aumentare i finanziamenti al suo programma missilistico e verso i gruppi e le milizie sciite vicine all’Iran che operano in Medio Oriente, considerate terroristiche da diversi paesi (come Hezbollah in Libano, i ribelli houthi in Arabia Saudita, e così via).

Per il momento Israele non è riuscito a far naufragare i negoziati, ma la sua azione ha comunque dato nuovi argomenti all’ala più conservatrice del regime iraniano, soprattutto contro i moderati “colpevoli” di volersi continuare a fidare del governo americano.

Il sabotaggio dell’impianto di Natanz, ha scritto Najmeh Bozorgmehr, corrispondente del Financial Times a Teheran, è stato l’ultimo di una serie di eventi che in un certo senso hanno incoraggiato gli elementi più conservatori dell’Iran ad assumere posizioni sempre più intransigenti, perché convinti di poter superare qualsiasi azione punitiva degli Stati Uniti. Il regime ha fatto leva più volte sull’idea di essere sopravvissuto alla strategia di «massima pressione» imposta da Trump, fatta di sanzioni molto dure e di forti alleanze con i principali nemici dell’Iran, come Israele e Arabia Saudita. Il sistema non è crollato, hanno ripetuto gli ultraconservatori: né per le sanzioni, né per le grosse proteste antigovernative degli ultimi due anni, né per le tensioni nel Golfo Persico, né dopo l’uccisione del potente generale Qassem Suleimani, considerato uno degli esponenti più influenti dell’intero regime.

Questa crescente retorica nazionalista, alimentata anche da molti media iraniani vicini all’ala più conservatrice del regime, ha danneggiato in maniera significativa i moderati, che avevano puntato molto sull’accordo del 2015 e che stanno puntando molto sui colloqui di Vienna.

– Leggi anche: La strategia di Trump verso l’Iran ha funzionato?

Non si sa ancora quali saranno effettivamente le conseguenze del sabotaggio dell’impianto di Natanz sulla politica iraniana, tanto meno quali saranno gli effetti sul risultato delle elezioni di giugno.

Si possono però dire due cose: che l’attacco ha mostrato quanto sia difficile per Biden ribaltare le politiche aggressive e ostili verso l’Iran adottate nei quattro anni di presidenza Trump, come d’altronde era già stato rilevato da alcuni analisti nei mesi scorsi; e che se non si riuscirà in qualche maniera a cambiare questa situazione, è molto probabile che il rafforzamento degli ultraconservatori continuerà, e che influirà sia sulle prossime elezioni presidenziali di giugno, a cui Rouhani non potrà più ricandidarsi, sia eventualmente sulla scelta del successore di Khamenei, tema molto dibattuto e importante per il futuro dell’Iran.