• Mondo
  • Sabato 17 aprile 2021

L’invasione della Baia dei Porci, 60 anni fa

La disfatta sulle spiagge cubane è ricordata ancora oggi con imbarazzo dagli Stati Uniti, a cui però sarebbe potuta andare persino peggio

Resti di artiglieria sulla Playa de Giron, a Cuba, spiaggia della Baia dei Porci (Graf/Three Lions/Getty Images)
Resti di artiglieria sulla Playa de Giron, a Cuba, spiaggia della Baia dei Porci (Graf/Three Lions/Getty Images)

Il 17 aprile 1961, sessant’anni fa, era lunedì. Quel giorno, di mattina molto presto, un gruppo di circa 1.400 soldati approdò sulle spiagge della Baia dei Porci, a Cuba, una profonda insenatura della provincia di Matanzas duecento chilometri a sudest dell’Avana. Gli uomini erano in gran parte esuli cubani, istruiti dalla CIA. Si trovavano lì per un’operazione militare diretta segretamente dal governo degli Stati Uniti per rovesciare il regime di Fidel Castro, che all’epoca era al potere da poco più di due anni. Nel giro di tre giorni, però, la truppa di esuli fu messa in rotta e i soldati si rifugiarono in mare o nelle paludi, dove vennero catturati dall’esercito di Castro.

Per gli Stati Uniti il fallimento dell’operazione fu un duro colpo non solo dal punto di vista militare, ma anche per l’immagine del paese: in un momento in cui gli americani venivano da una lunga serie di vittorie (avevano contribuito in modo sostanziale alla risoluzione di due guerre mondiali) e si sentivano particolarmente fiduciosi del loro potenziale militare, subirono una sconfitta da un paese più piccolo della Pennsylvania. Un generale americano la definì addirittura la peggior sconfitta dai tempi della Guerra del 1812 contro il Regno Unito.

Gli antefatti e il contesto
Tra gli anni Quaranta e Cinquanta la scena politica cubana era stata dominata dal generale Fulgencio Batista, prima da presidente eletto e poi da dittatore dopo il colpo di stato del 1952. Nonostante le tendenze autoritarie, Batista riceveva il sostegno politico ed economico del governo statunitense per il suo ruolo nella repressione del movimento comunista locale, che però dopo il colpo di stato intensificò l’opposizione al regime. Tra i leader del movimento c’era Fidel Castro, allora giovane avvocato.

– Leggi anche: A Cuba poteva mancare tutto, ma non il gelato

Prima di riuscire a rovesciare il regime, Castro fece alcuni tentativi che però fallirono: prima in tribunale, denunciando Batista di aver violato la Costituzione, e poi con le armi, assaltando un’importante base militare, la Caserma Moncada. A seguito di questo episodio, Castro fu processato per insurrezione e condannato. Durante il processo si difese da solo e pronunciò un discorso rimasto poi celebre:

Nascemmo in un paese libero che ci lasciarono i nostri padri, e sprofonderà l’Isola nel mare prima che acconsentiremo ad essere schiavi di qualcuno […]. In quanto a me so che il carcere sarà duro come non lo è mai stato per nessuno, pieno di minacce, di vile e codardo rancore, però non lo temo, così come non temo la furia del tiranno miserabile che ha preso la vita a settanta fratelli miei.

[…] Condannatemi, non importa, la storia mi assolverà.

Grazie a un’amnistia, Castro uscì di prigione anzitempo e nel 1955 se ne andò da Cuba per progettare la rivoluzione dall’estero, prima dagli Stati Uniti e poi dal Messico. Rientrato a Cuba, diede inizio alla guerriglia insieme agli altri leader del movimento che si era formato a seguito dell’insurrezione contro la Caserma Moncada: suo fratello Raúl, Ernesto “Che” Guevara e Camilo Cienfuegos. Le vittorie militari ottenute grazie alla guerriglia fecero scappare Batista e infine, il 16 febbraio del 1959, Castro giurò come primo ministro di Cuba.

Fidel Castro, primo da sinistra, “Che” Guevara, terzo da sinistra, e altri rivoluzionari cubani nel 1960 (Wikimedia Commons)

Gli Stati Uniti consideravano Cuba e in generale l’America Latina come una specie di loro protettorato (viene definita spesso America’s backyard, cioè il “cortile di casa” degli Stati Uniti), perciò l’idea di avere un governo comunista in un paese così vicino ai propri confini preoccupò da subito l’amministrazione statunitense. In quegli anni le tensioni legate alla Guerra fredda erano al loro apice, e la dottrina americana in politica estera prevedeva di evitare a tutti i costi che in qualsiasi paese prendesse il potere un partito comunista, secondo la strategia chiamata containment, cioè “contenimento”. Il principio alla base di questa strategia dava per scontato che un paese comunista in più rischiava di innescare un effetto domino che avrebbe portato in breve alla diffusione del comunismo in tutto il mondo.

L’invasione
Il piano di invadere la Baia dei Porci fu ideato inizialmente durante l’amministrazione del presidente Repubblicano Dwight Eisenhower, alla fine degli anni Cinquanta. Eisenhower volle fortemente che il ruolo degli Stati Uniti restasse segreto, e quando nel 1960 venne eletto alla Casa Bianca John Fitzgerald Kennedy la nuova amministrazione – Democratica – concordò con la precedente. Kennedy sapeva che l’Unione Sovietica doveva restare all’oscuro dell’operazione: di fatto era un’aggressione militare contro uno stato sotto l’influenza del blocco nemico, e tanto bastava a causare una rappresaglia da parte dei sovietici.

Il rischio insito nell’invadere Cuba inizialmente fece vacillare Kennedy, ma i Democratici avevano fatto campagna elettorale contro Eisenhower spingendo molto sull’anticomunismo e sulla minaccia cubana. Perciò si trovarono in un certo senso costretti a mettere in atto l’operazione.

Soldati cubani e dell’Armata Rivoluzionaria festeggiano la vittoria sui mercenari esuli a Playa Giron, parte della Baia dei Porci. Si fecero fotografare intorno a un’imbarcazione sequestrata ai mercenari. (Keystone/Getty Images)

La missione fu avviata il 15 aprile e doveva iniziare con una serie di attacchi aerei per neutralizzare la difesa di Castro. Dopodiché i 1.400 soldati anti-castristi sarebbero dovuti sbarcare sulla baia e, grazie alla copertura aerea, rovesciare il governo comunista con un’offensiva lampo. Le cose non andarono come previsto fin dal primo momento: gli aerei bimotore B-26 usati dagli esuli mancarono buona parte degli obiettivi. Nel frattempo, a terra, le imbarcazioni degli anti-castristi erano rimaste incagliate a causa dei fondali bassi e dei coralli.

Il 16 aprile doveva esserci una seconda serie di bombardamenti aerei, che però venne cancellata, non senza una certa perplessità da parte dei piloti. Questa decisione fece sì che la flotta aerea cubana restasse quasi intatta, e lasciò a Castro il tempo di preparare la difesa in vista dello sbarco delle truppe di terra, che avvenne solo il 17 aprile. Una volta sbarcati, i soldati anti-castristi si trovarono da soli contro una difesa ben preparata, che conosceva meglio il territorio e dotata di copertura aerea. In breve furono sconfitti e in gran parte catturati dall’esercito di Castro.

Le conseguenze
Anche se la sconfitta alla Baia dei Porci viene ricordata dagli americani con un certo disagio, secondo lo scrittore e giornalista Jim Rasenberg l’operazione sarebbe potuta andare persino peggio: «C’è chi dice che per Kennedy la sconfitta fu in realtà lo scenario migliore. Lui andò fino in fondo, perciò passò per quello forte contro il comunismo, però fallì, quindi non dovette avere a che fare le conseguenze terribili che avrebbe potuto avere la vittoria». Conseguenze che avrebbero potute essere simili a quelle viste più di quarant’anni dopo in Iraq. Se gli Stati Uniti avessero vinto, infatti, avrebbero dovuto occupare il paese e gestire la transizione a un nuovo regime.

L’operazione e il suo esito disastroso contribuirono a creare le condizioni che l’anno successivo avrebbero portato alla crisi dei missili di Cuba: la debolezza e l’impreparazione dimostrata dagli Stati Uniti, unita ad altre circostanze concomitanti sviluppatesi nel contesto della Guerra fredda, convinsero il leader sovietico Nikita Chruščëv a posizionare delle testate atomiche a Cuba. La crisi segnò il momento in cui Stati Uniti e Unione Sovietica arrivarono più vicini alla guerra nucleare, sventata da giorni di tesissimi negoziati.

Rasenberg nel 2011 ha scritto un libro interamente dedicato all’invasione della Baia dei Porci, intitolato The Brilliant Disaster. A un certo punto fa un’analisi delle conseguenze di lungo periodo di quell’episodio, che avrebbero riguardato un bel pezzo di storia americana successiva:

Anche se vorremmo dimenticarci della Baia dei Porci, lei non dimenticherà noi. Lì tra le paludi di mangrovie e le acque impreziosite dai coralli, una parte della storia americana è finita e una nuova è iniziata. Come un prologo ben confezionato, la Baia dei Porci suonò la sigla iniziale, prefigurò i conflitti, e gettò le fondamenta per i decenni a venire. E ciò che venne fu, in una misura non trascurabile, una conseguenza degli eventi di Cuba nel 1961. […]

Tre delle maggiori catastrofi americane degli anni Sessanta e dell’inizio dei Settanta – l’assassinio di John Kennedy, la Guerra del Vietnam e il Watergate – furono correlate per concatenazione alla Baia dei Porci. Non meno di quattro presidenti furono toccati dalla questione, da Dwight Eisenhower, che per primo approvò il “Programma di Operazioni Segrete” contro Castro, fino a Richard Nixon e le sei famigerate parole con cui ostacolò la giustizia nel 1972: «the whole Bay of Pigs thing» [“l’intera questione della Baia dei Porci”, ndr].

– Leggi anche: La storia del Watergate