In Italia prevale ancora l’aborto chirurgico

Il numero delle interruzioni volontarie di gravidanza è diminuito, ma la percentuale di ricorso all’aborto farmacologico è ancora bassa rispetto ad altri paesi europei

di Maria Francesca Mortati

(Phil Walter/Getty Images)
(Phil Walter/Getty Images)

Rispetto a gran parte degli altri paesi europei, in Italia vengono eseguiti molti più aborti chirurgici che aborti farmacologici, nonostante siano più invasivi e associati a un maggior rischio di complicanze. Secondo gli ultimi dati disponibili, nel 2018 il ricorso all’aborto farmacologico è stato pari al 24,4 per cento sul totale delle interruzioni volontarie di gravidanza (IVG). L’aborto chirurgico, invece, è stato eseguito nel 63,6 per cento dei casi. Questo divario è dovuto principalmente alle linee guida in vigore fino allo scorso anno, che rendevano difficile per le donne l’accesso all’aborto farmacologico. 

I dati degli aborti in Italia 
A più di quarant’anni dall’entrata in vigore della legge 194 del 22 maggio 1978, il numero di aborti in Italia è drasticamente diminuito: nel 2018 ci sono state 76.328 interruzioni volontarie di gravidanza, mentre nel 1982 – l’anno con il numero più alto mai registrato – furono 234.801. 

Questo andamento è confermato anche dal tasso di abortività, vale a dire il numero di interruzioni di gravidanza per mille donne tra i 15 e i 49 anni di età. Si tratta del principale indicatore per valutare il cambiamento nel tempo perché permette di tenere conto di altre variabili, come il calo della natalità in corso nell’ultimo decennio. Il tasso di abortività nel 2018 è stato pari a 6 IVG ogni mille donne tra i 15 e i 49 anni. È più che dimezzato rispetto al 1982. Anche il rapporto di abortività – cioè il numero di IVG rispetto a mille nati vivi – nel 2018 è diminuito rispetto all’anno precedente, passando da 177,1 a 173,8. 

Al calo degli aborti hanno contribuito diversi fattori: l’aumento dei tassi di consapevolezza e istruzione delle donne, una maggiore diffusione dell’educazione sessuale – seppur permangano diversi problemi legati al fatto che non sia obbligatoria nelle scuole – e anche della contraccezione.

Tuttavia, in Italia l’accesso alla contraccezione e i livelli di informazione sui contraccettivi sono più problematici che in altri paesi europei. Nell’Atlas italiano sull’accesso alla contraccezione – realizzato da AIDOS (Associazione italiana donne per lo sviluppo) nell’ambito del Contraception Atlas di EPF (European Parliamentary Forum for Sexual & Reproductive Rights) – l’Italia occupa il 26esimo posto nella classifica dei 45 paesi europei presi in esame. 

Anche l’aumento nell’uso della contraccezione di emergenza ha inciso positivamente sulla riduzione delle IVG. Sia la “pillola del giorno dopo” sia la cosiddetta “pillola dei cinque giorni dopo” sono disponibili in farmacia e parafarmacia senza obbligo di prescrizione per le donne maggiorenni, rispettivamente da marzo 2016 e da maggio 2015. Dal 10 ottobre 2020, la pillola dei cinque giorni dopo è disponibile senza ricetta anche per le donne minorenni. 

Aborto chirurgico e aborto farmacologico
Il ricorso al diritto all’aborto è previsto dalla legge entro i primi 90 giorni dall’inizio della gravidanza per la donna che, come recita l’art. 4, «accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito». Dopo i 90 giorni, può essere effettuato solo l’aborto terapeutico, quando ci sono rischi per la vita della donna o per la sua salute fisica e mentale. 

Sono due i metodi utilizzati per effettuare l’IVG: l’aborto chirurgico e l’aborto farmacologico.

Lo svuotamento strumentale è la metodologia più diffusa nell’ambito dell’aborto chirurgico. Nello specifico, la tecnica scelta dipende dal periodo di gestazione. Entro le prime otto settimane, principalmente tra la quarta e la sesta, viene utilizzata l’isterosuzione: consiste nell’aspirazione dell’embrione e dell’endometrio (il tessuto che ricopre la cavità interna dell’utero che cresce, si sfalda e viene espulso durante le mestruazioni) attraverso una cannula (detta cannula di Karman) che viene introdotta nell’utero. Dall’ottava alla dodicesima settimana si eseguono la dilatazione e la revisione della cavità uterina (D&R): in questo caso è prevista la dilatazione della cervice per poter utilizzare una cannula di diametro maggiore. 

Oltre le 12 settimane la legge italiana non prevede più l’interruzione volontaria di gravidanza. Solo in caso di rischi per la salute fisica e mentale della donna, legati spesso a malformazioni del feto, si utilizzano la dilatazione e lo svuotamento (D&S). La procedura consiste nella dilatazione meccanica del canale della cervice per la rimozione del prodotto del concepimento. 

L’aborto farmacologico o medico non richiede invece il ricorso all’intervento chirurgico: viene indotto da un farmaco, che contiene uno steroide, il mifepristone. Si tratta della cosiddetta pillola RU486 o pillola abortiva (da non confondere con la pillola del giorno dopo, che non è in alcun modo un farmaco abortivo bensì un contraccettivo di emergenza).

Il farmaco abortivo è associato spesso al misoprostolo (analogo sintetico della prostaglandina E1), che viene assunto due giorni dopo. Il misoprostolo induce le contrazioni uterine per favorire l’espulsione dell’embrione.

L’aborto medico è considerato una metodologia sicura, appropriata fino a 9 settimane (63 giorni) di gestazione. L’Organizzazione mondiale della sanità ha inserito mifepristone e misoprostolo nella lista dei farmaci essenziali. L’OMS sostiene inoltre che l’aborto medico svolga un ruolo cruciale nel facilitare l’accesso ad aborti sicuri ed efficaci, in quanto riduce la necessità di operatori qualificati nell’aborto chirurgico e offre un’opzione non invasiva per le donne.

L’aborto farmacologico in Italia 
L’aborto farmacologico venne proposto come alternativa all’aborto chirurgico a partire dalla fine degli anni Ottanta. In Italia l’utilizzo della pillola RU486 è stato autorizzato dall’Agenzia italiana del farmaco (AIFA) nel 2009, dopo qualche anno di sperimentazione. Nei dieci anni precedenti veniva utilizzata esclusivamente per feti affetti da sindrome di Cushing. 

Dal 12 agosto 2020 il ministero della Salute ha disposto nuove linee guida per l’utilizzo della pillola abortiva. In precedenza, l’aborto farmacologico poteva essere effettuato in Italia solo fino a 7 settimane di gestazione ed era prevista un’ospedalizzazione obbligatoria di tre giorni, anche se alcune regioni avevano nel tempo deciso diversamente a riguardo prevedendo la somministrazione del farmaco in day hospital. Attualmente l’aborto farmacologico in Italia può essere effettuato fino a 63 giorni (9 settimane), in day hospital, e anche in strutture ambulatoriali pubbliche adeguatamente attrezzate e consultori. 

Secondo i dati ISTAT del 2018, gli ultimi disponibili, l’utilizzo della pillola RU486 combinata alla prostaglandina è pari al 21 per cento del totale delle interruzioni volontarie di gravidanza. Se consideriamo sia la somministrazione di mifepristone e prostaglandina che quella di solo uno dei due farmaci, possiamo considerare che l’utilizzo dell’aborto farmacologico in Italia nel 2018 è stato del 24,4 per cento.  

Risulta una lieve incongruenza tra i dati ISTAT e quelli contenuti nella relazione del ministro della Salute. La relazione, utilizzando altri parametri oltre ai dati raccolti dall’ISTAT, registra un maggior numero di aborti (76.328 contro i 76.044 registrati dall’istituto di statistica), ma un minore uso di mifepristone combinato con prostaglandina (20,8%). Tuttavia, la differenza è lieve e la situazione mostrata rimane chiara: in Italia prevale ancora l’aborto chirurgico. 

Perché la percentuale di aborti farmacologici è così bassa
Se confrontiamo il dato italiano dell’aborto farmacologico con quello di altri paesi europei, risulta chiaro che in Italia la percentuale di IVG con metodo farmacologico è decisamente bassa, seppur in crescita. La Finlandia, con il 97,7 per cento registrato nel 2019, è la nazione con la percentuale più alta e si può considerare un caso limite. In generale in tutti i paesi del Nord Europa vengono eseguiti molti più aborti farmacologici sul totale delle IVG: in Svezia il 92,7 per cento, in Norvegia l’89 per cento, in Danimarca il 77,3 per cento, in Islanda il 75,3 per cento. 

Nel Regno Unito la situazione è più particolare. Mentre Inghilterra e Galles registrano una percentuale di aborto farmacologico del 73 per cento e la Scozia dell’86,1 per cento, in l’Irlanda del Nord l’aborto è diventato legale solo nell’aprile 2020 e per ora non si hanno dati sufficienti a disposizione. La Spagna si attesta invece al pari dell’Italia, con una percentuale di aborti con mifepristone pari al 22,88 per cento, così come i Paesi Bassi al 26,3 per cento e la Germania al 25 per cento. Ma ci sono Paesi che non pubblicano statistiche ufficiali. Tra questi l’Austria, perché l’aborto non è coperto dalla previdenza sociale. 

Dal momento che l’aborto farmacologico è una pratica sicura, e ha il vantaggio di non sottoporre la donna ad un intervento chirurgico, perché in Italia non è il metodo più usato? Il limitato ricorso all’aborto farmacologico è dovuto soprattutto alle linee guida che sono rimaste in vigore fino ad agosto 2020 e che ne rendevano l’accesso più complicato.

Il limite posto alle prime 7 settimane di gestazione – nonostante quello consigliato fosse di 9 settimane – riduceva il tempo entro cui una donna poteva avere accesso all’aborto farmacologico, considerato anche che tra il periodo di gravidanza e quello di gestazione ci sono solitamente due settimane di differenza. Inoltre, a causa della necessità di ricovero di tre giorni, non tutte le strutture ospedaliere rendevano possibile la scelta tra aborto farmacologico e aborto chirurgico, privilegiando il secondo metodo.

Intorno alla pillola abortiva c’è anche molta disinformazione, portata avanti dai gruppi antiabortisti che si servono di una falsa narrazione sull’aborto. Ne è un esempio recente la campagna di ProVita dello scorso dicembre che paragonava la pillola RU486 ad un veleno, sostenendo – contro le conclusioni della più autorevole letteratura scientifica internazionale – che fosse pericolosa per la vita della donna. 

In mancanza di dati aggiornati dopo l’introduzione delle nuove linee guida di agosto 2020, non è possibile conoscere con precisione se ci siano stati cambiamenti negli ultimi mesi. In generale, l’adeguamento alle nuove linee guida da parte delle regioni sembra che non stia proseguendo in maniera lineare. Invece di esser facilitato dalle nuove linee di indirizzo, nelle regioni governate dal centrodestra l’accesso all’aborto farmacologico sta subendo un forte ostruzionismo.

Inoltre la pandemia ha reso ancora più problematico l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza, già difficile a causa dell’alto numero di medici obiettori. Ci sono stati paesi, come il Regno Unito, che hanno disposto misure straordinarie per praticare l’aborto farmacologico in telemedicina, per agevolare le donne ad abortire in sicurezza. L’Italia ha esteso il periodo in cui è possibile somministrare la pillola abortiva, ma nessun provvedimento è stato preso per favorire la telemedicina. È significativo notare come in un paese in cui sulla carta è legale abortire siano aumentati del 67,9% gli accessi al sito di Women on Web, un’organizzazione canadese senza scopo di lucro che sostiene e facilita l’accesso alla contraccezione e all’aborto farmacologico. 

Questo e gli altri articoli della sezione L’aborto in Italia sono un progetto del corso di giornalismo 2021 del Post alla scuola Belleville, pensato e completato dagli studenti del corso.