«Potreste essere colpiti da un proiettile alla testa»
È stato l'avvertimento del regime del Myanmar ai manifestanti prima del giorno più sanguinoso dal colpo di stato, con decine di morti
Sabato in Myanmar decine di persone sono state uccise dall’esercito che ha represso le ennesime manifestazioni contro il golpe militare dello scorso febbraio, organizzate in varie città mentre nella capitale Naypyidaw (si pronuncia “Nepidò”) erano in corso le tradizionali parate militari organizzate per celebrare la giornata delle forze armate, in cui si ricorda la resistenza contro l’occupazione giapponese durante la Seconda guerra mondiale. Non ci sono conteggi ufficiali dei morti, ma secondo la stima di Myanmar Now, un sito di notizie che ha anche una versione in inglese, sarebbero almeno 114 in tutto il paese. È stata la giornata più sanguinosa dal colpo di stato.
«Dovreste imparare dalle terribili morti che ci sono state, potreste correre il rischio di essere colpiti da un proiettile alla testa o alla schiena» aveva detto venerdì alla radio e alla televisione nazionale il regime militare, cercando di dissuadere la popolazione dal partecipare alle manifestazioni previste per sabato. Prima del messaggio la giunta non aveva ancora ammesso l’alta frequenza di ferite da proiettili, spesso fatali, tra le vittime delle repressioni avvenute durante le manifestazioni.
Fino a venerdì il regime aveva sostenuto che l’esercito e la polizia usassero «la forza in modo molto limitato» per sedare le proteste e aveva negato l’uso dei proiettili veri da parte delle forze armate, dichiarando che fossero stati usati esclusivamente proiettili di gomma e che venissero sparati solo «sotto la vita».
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Le proteste vanno avanti da due mesi con manifestazioni, grandi scioperi generali e dimostrazioni di disobbedienza civile. Sono particolarmente partecipate durante i fine settimana, e cominciarono subito dopo il colpo di stato e l’arresto di Aung San Suu Kyi e di altri membri del suo partito, la Lega nazionale per la democrazia (NLD), che aveva vinto nettamente le elezioni dello scorso novembre. I militari sostengono senza prove che siano state il risultato di brogli. Suu Kyi è tuttora agli arresti ed è accusata di aver violato le restrizioni alle importazioni e una legge sulla gestione dei disastri naturali. Prima del golpe la NLD si stava preparando a formare un nuovo governo.
Non esiste un conteggio ufficiale delle persone morte durante le proteste: le agenzie di stampa internazionali riportano quelli delle organizzazioni coinvolte nelle manifestazioni e dei giornali locali, che al momento non possono essere verificati in modo indipendente. Un portavoce dell’esercito si è rifiutato di rispondere alle domande di Reuters sul numero dei morti.
Tutti i conteggi disponibili comunque dicono che quella di sabato è stata la giornata più sanguinosa dal primo febbraio. Come già detto, il sito di notizie Myanmar Now parla di 114 morti, tra cui una ragazzina di 13 anni uccisa a Mandalay, la seconda città più popolosa del Myanmar, e un ragazzino di 13 anni ucciso nella regione di Sagaing, nel centro del paese. Almeno 40 persone sono state uccise a Mandalay e almeno 27 nell’agglomerato urbano di Yangon, secondo Myanmar Now.
At least 114 people were killed in brutal attacks by the junta's armed forces in more than 40 cities across Myanmar on Saturday. Our reporting has been updated to reflect these figures. https://t.co/tcjRxkWICm pic.twitter.com/kkUtLCNP4L
— Myanmar Now (@Myanmar_Now_Eng) March 27, 2021
The Irrawaddy, un altro sito di notizie birmano disponibile anche in inglese, parla di almeno 102 morti, tra cui quattro bambini e ragazzi di età compresa tra i 5 e i 15 anni. «La maggior parte delle vittime sono state uccise da proiettili sparati da soldati e poliziotti dal grilletto facile durante la repressione delle proteste», dice il sito di notizie: «Un bambino è stato colpito da un proiettile sparato a casaccio mentre giocava». Il gruppo di attivisti “Associazione di assistenza per i prigionieri politici” stima che dall’inizio delle proteste i morti siano stati più di 400: la precedente giornata più violenta era stata il 14 marzo, quando erano state uccise tra le 74 e le 90 persone a seconda delle stime.
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Nel corso della giornata l’esercito si è scontrato anche con i gruppi etnici armati che controllano alcune parti del paese. Un villaggio abitato dalla minoranza Karen è stato colpito da un attacco aereo in cui sono morte almeno tre persone. L’Unione Nazionale Karen, un gruppo armato, ha detto di avere ucciso 10 persone nell’attacco di una postazione dell’esercito vicino al confine con la Thailandia.
Intanto a Naypyidaw si tenevano le parate per celebrare la giornata delle forze armate e il generale Min Aung Hlaing, il capo dell’esercito, ha tenuto un discorso in cui ha detto che i militari proteggono la popolazione, ha ripetuto che le elezioni dello scorso novembre erano state decise da una serie di brogli e ha sostenuto che saranno organizzate nuove elezioni, senza però dire quando.
Ad assistere alle parate c’erano rappresentanti di otto paesi stranieri: Bangladesh, Cina, India, Laos, Pakistan, Russia, Thailandia e Vietnam; di questi rappresentanti quello di grado più alto era il russo Alexander Fomin, viceministro della Difesa.
Dopo le violenze di sabato i ministri della Difesa di dodici paesi, tra cui gli Stati Uniti, il Regno Unito, il Giappone e l’Italia, hanno firmato un documento di condanna contro l’esercito del Myanmar: «Un esercito professionista deve seguire gli standard di condotta internazionali e ha la responsabilità di proteggere, non di danneggiare, il popolo che serve. Sollecitiamo le forze armate del Myanmar a cessare le violenze».
Tom Andrews, relatore speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani in Myanmar, ha detto che la comunità internazionale deve intervenire, se non attraverso il Consiglio di sicurezza dell’ONU – di cui fanno parte Russia e Cina, che possono esercitare il diritto di veto su eventuali proposte di intervento in Myanmar – almeno con una riunione internazionale di emergenza. Andrews ritiene che il regime militare dovrebbe essere sanzionato economicamente (più di quanto abbiano fatto finora gli Stati Uniti e i paesi dell’Unione Europea) e che gli dovrebbe essere impedito l’accesso ad armi straniere.