Una canzone dei Travis

Di quelle che a un certo punto deragliano dalle attese, e dal loro cammino prevedibile

(Photo by Stuart C. Wilson/Getty Images)
(Photo by Stuart C. Wilson/Getty Images)

Le Canzoni è la newsletter quotidiana che ricevono gli abbonati del Post, scritta e confezionata da Luca Sofri (peraltro direttore del Post): e che parla, imprevedibilmente, di canzoni. Una per ogni sera, pubblicata qui sul Post l’indomani, ci si iscrive qui.
Nell’introduzione di Playlist avevo raccontato questa cosa:
“Collego a quel tappeto del soggiorno nomi immortali nella mia memoria bambina e giustamente stradefunti in quella della musica mondiale: i Santo California, gli Albatross, Paolo Frescura, Leano Morelli. Malgrado le debolezze del gusto infantile, con mio fratello avevamo già maturato una certa capacità critica, per cui le nostre cassette privilegiavano i titoli internazionali che – era invece ancora scarsa la dimestichezza con l’inglese – scrivevamo sulla custodia così come li sentivamo declamati da Luttazzi: “RICIAU ALBIDÈ”, “DE ASSOL”, “A BLU SCIADO”, “ARRI CHEN”, “DETSUEI”, “NEVER CHEN SEI GUBBAI””.
Mi è tornato in mente oggi di fronte alla playlist di Nicolò, alla sua scelta di includere Where not gonna teicit, e alla sua superiore creatività con Shurastero Shurago.
Luca Guadagnino ha fatto un video per Sufjan Stevens, che gli aveva cantato quelle due famose canzoni in Chiamami col tuo nome.
Bruce Springsteen si è messo nei guai con le macchine.

Sing
In alcune canzoni c’è della bellezza in un particolare passaggio, proprio lì, magari anzi solo in quel passaggio. Ognuno ha il suo, come con le canzoni in genere. Il mio esempio più familiare è una cosa che succede in Like it or not, una canzone minore in un disco minore dei tardi Genesis, Abacab (inutile dire che un disco minore dei tardi Genesis è per me meglio del 99,9% del resto della produzione discografica di sempre, e probabilmente di ogni canzone di Sanremo di quest’anno). Like it or not non mi dispiace, ma niente di che: e però a un certo punto Tony Banks crea una specie di scala a chiocciola in cima alla quale c’è un trampolino, e Phil Collins salta, come se ne andasse da un’altra parte, lasciando la canzone dov’era fino a quel punto. E io vado matto per quel momento lì, resto come ipnotizzato e beato.

It’s been a long, been a long long time
Since I held anybody, since I loved anyone.

Per me, questa cosa accade soprattutto quando una canzone deraglia dalle attese, e dal suo cammino prevedibile: – in quel punto di Like it or not il ritornello si è appena concluso, e dovrebbe tornare la strofa oppure iniziare la chiusura del pezzo, e invece lo stesso ritornello viene rilanciato su un nuovo livello, come ho detto: e dici Maddài!, tutte le volte, anche quando ormai lo sai, perché una volta che lo sai diventi complice della sorpresa invece che destinatario.
Sto dicendo cose da ubriaco che capisco solo io?
È venuto il momento di dire qualcosa della vera canzone di stasera?
Con Sing dei Travis mi succede la stessa cosa. È una canzone del 2001, loro sono scozzesi, era il periodo in cui andavano molto forte: ora esistono ancora ma con minori attenzioni, quasi solo nel Regno Unito.

È una di quelle canzoni che parlano della bellezza di cantare (ma in origine doveva chiamarsi “Swing”).

But if you sing, sing, sing, sing, sing, sing
For the love you bring won’t mean a thing
Unless you sing, sing, sing, sing

Ed è una bella canzone pop con un andamento allegro, un arrangiamento ricco e un bel banjo.
E a un certo punto riparte l’ultima strofa, ma è come se si impantanasse e lui rimanesse lì a pensarci su – “Nothing, nothing, nothing, nothing, nothing, nothing, nothing” – e relaizzasse: “sai che c’è, non la canto un’altra strofa, fammi rifare il ritornello”. E se ne va con quel na, na, na, na, na…

So, now, now, now, now, now if you sing, sing, sing, sing, sing, sing


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