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  • Venerdì 12 febbraio 2021

L’Egitto sta reprimendo sempre di più la comunità LGBT+

Interpretando a suo modo alcune leggi e sfruttando le ricerche sui social network, ha raccontato un articolo di Slate

(Sarah Rice/Getty Images)
(Sarah Rice/Getty Images)

Di recente il regime egiziano guidato dal presidente autoritario Abdel Fattah al Sisi ha intensificato la repressione e persecuzione nei confronti delle persone LGBT+. In particolare ha iniziato a sfruttare le ricerche attraverso le app di appuntamenti e i social network, grazie a leggi molto vaghe in termini di uso delle telecomunicazioni, e ricorrendo ai tribunali economici, che da qualche anno in Egitto si occupano di reati informatici. Delle nuove politiche del regime egiziano se n’è occupata la versione francese di Slate in un articolo scritto da Afsaneh Rigot, esperta tra le altre cose di dati digitali e comunità LGBT+, e collaboratrice con Article 19 (organizzazione con sede a Londra che si occupa di difesa dei diritti umani) e con il Berkman Klein Center, centro di ricerca dell’università di Harvard.

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Nonostante il codice penale egiziano non classifichi come reato alcun orientamento sessuale, nella pratica le cose vanno in maniera molto diversa.

Nel 2000 in Egitto furono introdotte leggi per limitare molte libertà alle persone LGBT+, già fortemente stigmatizzate nel paese. Fu introdotto anche un complesso meccanismo legale basato su interpretazioni e giurisprudenza, e che ha consentito attacchi mirati e costanti delle autorità contro questa comunità. Da anni, spiega Rigot, si è diffusa la pratica di affidarsi alla raccolta di prove online per perseguire le cosiddette minoranze sessuali: è una pratica che spesso si basa su vere e proprie trappole organizzate sulle app di appuntamenti o su siti per incontri appositamente creati dalla cosiddetta “polizia morale”, cioè la direzione per la protezione della morale pubblica del ministero dell’Interno.

Nonostante in Egitto le discriminazioni contro la comunità LGBT+ arrivino da lontano, la situazione è peggiorata con la presidenza di al Sisi, ex generale che governa il paese in maniera autoritaria dal 2013. Secondo l’Egyptian Initiative for Personal Rights (EIPR, la prima ong in Egitto a riconoscere i diritti della comunità LGBT+), tra il 2000 e il 2013 si erano verificati in media 14 arresti all’anno per “crimini” legati all’orientamento sessuale. Tra la fine del 2013 e il 2017 la media annuale è salita a 66.

Il 2017, dice Rigot, è stato l’anno peggiore per le repressioni, con 75 arresti ordinati dopo un concerto del gruppo libanese Mashrou’ Leila, durante il quale erano state sventolate le bandiere arcobaleno. Nel 2019, l’ong Bedayaa ha contato 92 arresti.

Per criminalizzare le attività online e offline delle persone LGBT+, le autorità egiziane hanno a disposizione diverse leggi. Fino al marzo del 2020 la legge di riferimento era stata quella del 1961 contro la prostituzione, che prevede la condanna di «chiunque si dedichi abitualmente alla depravazione o alla prostituzione» (articolo 9). Poiché la natura abituale degli atti è difficile da dimostrare, i tribunali si erano spesso basati sui dati raccolti online provenienti da app di incontri e chat, con la conseguenza che le accuse rientravano generalmente nel reato di “istigazione alla depravazione”, previsto dall’articolo 14 della stessa legge.

Per essere riconosciuta come reato, l’istigazione doveva però essere promossa pubblicamente.

Per la difesa era dunque possibile contestare le circostanze che avevano a che fare con l’ambito “pubblico” (gli scambi erano privati), la “promozione” o la “pratica abituale”: era quindi possibile invocare una serie di vizi formali che facessero cadere le accuse. Grazie agli sforzi e all’esperienza degli avvocati, ha raccontato Rigot, i crimini legati alla dissolutezza erano diventati sempre più difficili da provare nei tribunali e negli ultimi anni erano aumentate le assoluzioni. Le condanne per depravazione erano comunque punite con una multa pari a 300-400 lire egiziane e con una reclusione, nei casi più gravi, che andava da tre a sei mesi di carcere.

Nel 2020, la strategia persecutoria è cambiata. Dallo scorso marzo, infatti, i casi che coinvolgono le persone LGBT+ hanno iniziato ad essere legati a violazioni della legge sulla criminalità informatica e quindi rinviati ai tribunali economici: questo ha aumentato le possibilità di condanna, e portato a condanne più pesanti.

In Egitto i tribunali economici furono creati nel 2008 per regolare i contenziosi di natura economica. Nell’agosto del 2019, un decreto conferì a questi tribunali giurisdizione anche per quanto riguarda i casi legati alla lotta alla criminalità informatica. In questo ambito, le formulazioni dei diversi reati sono però molto vaghe, ambigue e aperte a diverse interpretazioni: una fa ad esempio riferimento «all’uso improprio delle telecomunicazioni» e un’altra punisce l’uso della tecnologia che voglia «minare qualsiasi valore o principio familiare della società egiziana». La decisione di impostare i processi contro la comunità LGBT+ partendo dalle norme sui crimini informatici ha quindi permesso al regime di continuare a usare le tecniche precedenti – perlopiù la sorveglianza di app per appuntamenti e social network – riducendo le possibilità di vittoria per gli avvocati difensori.

«Mentre i casi di depravazione sono solitamente puniti con una multa di 300-400 lire egiziane e con reclusioni da tre a sei mesi (…), la nuova legge prevede una multa tra le 50 mila e le 100 mila lire egiziane e pene detentive minime generalmente di due anni», ha spiegato un avvocato a Rigot: «Stessi interrogatori, stesse indagini, ma accuse e multe più alte».

La situazione sta quindi peggiorando. All’inizio di settembre, il governo egiziano aveva pubblicato il Regolamento esecutivo della legge del 2018 in materia di contrasto ai reati informatici. Prima, gli avvocati difensori potevano sfruttare la mancanza di procedure definite, ora il regolamento conferisce ad esempio ai tribunali il potere di chiamare degli esperti per certificare i dati digitali raccolti.

Rigot, che si è occupata molto di questi temi, ha scritto che durante le sue ricerche non aveva mai visto un altro paese «con un sistema così forte»: «Il quadro repressivo sempre più sofisticato e creativo che l’Egitto usa per criminalizzare la comunità queer minaccia non solo gli egiziani, ma anche tutte le persone LGBT+».