Stiamo cercando la “variante inglese” in Italia

Le Regioni hanno avviato un'analisi su alcuni tamponi positivi al coronavirus per capire quanto sia diffusa nel nostro paese e valutare i rischi

(Marco Alpozzi/LaPresse)
(Marco Alpozzi/LaPresse)

L’Istituto Superiore di Sanità (ISS) in collaborazione con le Regioni ha avviato un’indagine rapida per stimare la diffusione della cosiddetta “variante inglese” (B.1.1.7) del coronavirus. L’iniziativa dovrebbe consentire di comprendere meglio quanto sia presente la variante in Italia e quali rischi ci siano di una sua ulteriore diffusione. Finora B.1.1.7 ha causato problemi soprattutto nel Regno Unito, dove si ritiene abbia portato a un aumento dei contagi dalla fine dello scorso anno. La variante rende il coronavirus più contagioso, ma finora non sono emersi elementi per sostenere che renda più rischiosa la COVID-19.

L’indagine rapida è già in corso e sta interessando i campioni raccolti nei primi giorni di febbraio, attraverso gli ormai comuni test molecolari (quelli “del tampone”) per prelevare saliva e muco da naso e gola che sono poi analizzati per rilevare l’eventuale presenza del materiale genetico del coronavirus. Su una selezione di questi campioni risultati positivi, i laboratori regionali devono effettuare una prima analisi per trovare indizi sulla presenza di un gene specifico, effettuando poi un sequenziamento, cioè un’analisi più approfondita sul materiale genetico del coronavirus alla ricerca di una conferma sulla presenza della variante.

Alle Regioni (e alle due Province autonome) spetta poi il compito di indicare l’incidenza dei casi positivi con variante rispetto al totale dei tamponi positivi, su base giornaliera. I dati devono poi essere condivisi con l’ISS, che farà proprie analisi e valutazioni sulla circolazione di B.1.1.7 in Italia. L’iniziativa dovrebbe consentire di rilevare anche l’eventuale presenza di altre due varianti di cui si è parlato molto nelle ultime settimane: quella sudafricana e quella brasiliana.

Dalle analisi svolte finora nel Regno Unito, si ritiene che la variante B.1.1.7 sia fino al 50 per cento più trasmissibile rispetto alle altre in circolazione. Questo spiegherebbe come mai si sia affermata così velocemente nel Regno Unito, con un aumento marcato dei nuovi casi tra la fine del 2020 e le prime settimane del 2021. Anche se non sembra causare sintomi più gravi da COVID-19, la maggiore contagiosità non è da trascurare: implica che si ammalino molti più individui e che di conseguenza aumentino i ricoveri, con il rischio di portare al collasso i sistemi sanitari.

La variante era stata notata dai ricercatori lo scorso autunno grazie alle analisi delle caratteristiche genetiche del coronavirus prelevato da alcuni individui, con il test molecolare. Le analisi avevano portato alla scoperta di B.1.1.7, ricondotta poi all’aumento significativo di nuovi casi positivi rilevato nella parte sud-orientale dell’Inghilterra e a Londra a fine 2020. Nelle settimane successive, la variante si sarebbe diffusa molto velocemente, spingendo il governo a decidere nuove limitazioni e lockdown.

A oggi non è molto chiaro quanto sia diffusa la “variante inglese” in Europa perché non si effettua un numero particolarmente alto di sequenziamenti, soprattutto se confrontati con quelli effettuati nel Regno Unito tramite il COVID-19 Genomics UK Consortium, un consorzio istituito nell’aprile del 2020 e che effettua un alto numero di indagini sulle caratteristiche genetiche del coronavirus per rilevarne mutazioni e varianti.

Stando agli ultimi dati raccolti dal GRINCH (Global Report Investigating Novel Coronavirus Haplotypes), che si occupa di tenere traccia dell’andamento delle analisi sul coronavirus nei vari paesi, il Regno Unito ha rilevato finora oltre 46mila tamponi positivi con la variante, mentre al secondo posto c’è la Danimarca con 1.076 rilevazioni: la differenza così marcata è in parte dovuta al fatto che nel Regno Unito si effettuano molti più sequenziamenti.

In Italia finora erano stati segnalati 169 casi positivi con B.1.1.7, rilevati da alcune analisi effettuate per lo più a scopo di ricerca e non per analisi sulla prevalenza di determinate varianti tra la popolazione. La nuova indagine in corso dovrebbe consentire di avere dati più affidabili sulla diffusione della “variante inglese”.