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  • Giovedì 10 dicembre 2020

Perché Paolo Rossi è lì?

Marino Sinibaldi racconta i settanta minuti e il singolo gesto con cui Paolo Rossi fece inceppare "la macchina della storia del calcio"

di Marino Sinibaldi

Paolo Rossi contro il Brasile il 5 luglio 1982. (LaPresse Archivio storico)
Paolo Rossi contro il Brasile il 5 luglio 1982. (LaPresse Archivio storico)

Se rimarrà per sempre Pablito non è per il gusto familiare del vezzeggiativo esotico ma perché tutto quello che Paolo Rossi ha dato al mondo è avvenuto in Spagna, nei pochi giorni del Mundial del 1982, anzi in quella breve serie di sole tre partite in cui ha sistematicamente segnato, o meglio ancora nei novanta minuti dei suoi tre gol al Brasile. Addirittura, a essere rigorosi e rispettare davvero il carattere fulmineo dell’essere Paolo Rossi, nei settanta minuti scarsi in cui si concentrarono i gol: un colpo di testa apparentemente facile all’inizio, un bel tiro generato dalla solita scempiaggine difensiva brasiliana in mezzo, infine il più decisivo e sottovalutato gol della storia del calcio quando tutto sembrava perduto.

Il contesto è noto almeno per chi ha memorizzato il racconto epico di quell’impresa. Una nazionale dall’aria modesta, ancora infangata dalla vergogna del calcio scommesse, percepita come mediocremente difensivista, costruita su scelte impopolari. Il tecnico Bearzot – imputato fisso di un popolare Processo televisivo – additato al pubblico disprezzo e aggredito in strada per le sue scelte nelle convocazioni. Risultati insoddisfacenti e in qualche caso sospetti nei primi turni del torneo sembrarono confermare il destino segnato della squadra. Mezza Italia cominciò a tifare contro preferendo perlopiù il calcio sudamericano, secondo un antico pregiudizio più artistico e spettacolare, o prevedendo la superiorità della perfetta organizzazione tedesca. Per reazione, la squadra italiana si chiuse in se stessa alimentando le più perverse ipotesi sulla natura dell’isolamento, proclamò il silenzio stampa inimicandosi definitivamente la pavida tribù dell’informazione, contribuì più o meno consapevolmente a erigere un muro di estraneità e antipatia. (Per chi trovi criptico questo sintetico riassunto spero sia ancora reperibile il libro mirabile e dettagliato di Vittorio Sermonti che con somma cultura e cinquecento dense pagine documenta farneticazioni, insinuazioni, grottesche previsioni).

Questo clima generò l’incredibile giornata (un pomeriggio in verità – anzi: settanta scarsi minuti) del 5 luglio 1982. Quasi una formalità per la squadra brasiliana zeppa di fuoriclasse, cui bastava il pareggio per aprirsi il cammino alla prevedibile finale con la Germania, ovvero la sfida che tutti si auguravano, l’attesa resa dei conti, in parte agonistica in parte metafisica, tra arte e organizzazione. Ma i brasiliani non sanno pareggiare e nella macchina della storia del calcio che stava trionfalmente avanzando verso il suo prevedibile finale si infilò come un granello di polvere il centravanti minuto e banale, fino ad allora inconcludente e deriso. La macchina deragliò, l’Italia vinse quel match e il Mundial, Paolo Rossi divenne Pablito.

Paolo Rossi contro il Brasile il 5 luglio 1982 (DPA/LAPRESSE)

E Pablito è rimasto per sempre, appunto, perché tutto quello che gli (e ci) accadde dopo è trascurabile (è perfino rimasto lo stesso nel fisico e nel temperamento, senza quelle drammatiche cadute che hanno melodrammaticamente e spettacolarmente trasformato altri fuoriclasse, ingolosendo l’impietosa ipocrisia globale). Ma quei tre gol, i tempi e i modi in cui avvennero, sono lì nel pantheon delle poche cose cui capita di assistere in vita e che non potranno mai essere dimenticate. È il loro carattere esemplare a colpire ognuna delle infinite volte in cui capita di rivederli. Il terzo gol soprattutto, quello che arriva quando il sogno sembra già svanito, manca un quarto d’ora alla fine, le due squadre pareggiano, il Brasile pare controllare la partita e il destino del calcio. Un gol senza qualità ma di bellezza e importanza infinita. Ci fu un calcio d’angolo, una palla rinviata mollemente dalla difesa brasiliana, un tiraccio da fuori in una zona indefinita dell’area di rigore. Ma lì, stranamente a lato dalla massa azzurra e verdeoro rimasta a contendersi un pallone che non arriverà mai, c’è un centravanti dimenticato e solo. Corregge con rapida semplicità il tiro sbilenco e lo trasforma nel più fatale dei gol.

C’è un particolare che illustra bene l’intensità imprevedibile di quello che avvenne. Vicino alla linea di porta (e al suo portiere) un calciatore brasiliano invoca un incredibile fuorigioco (per i non addetti: se sei sulla linea di porta con il tuo portiere a fianco il fuorigioco è impossibile, e lo sai). Ma cosa tenta quel difensore brasiliano con il suo gesto patetico? Non sta solo aggrappandosi all’indimostrabile per far annullare il gol e fermare la Storia (o meglio, permettergli di riprendere il cammino previsto). Quell’anonimo calciatore sta esprimendo lo smarrimento di tutti noi: perché Paolo Rossi è lì, come cavolo ci è finito, come è riuscito a ricavarsi uno spazio nel luogo in quel momento probabilmente più affollato del mondo (l’area di rigore dei quindici minuti finali di una partita decisiva del campionato mondiale di calcio)? Per quali vie, con quali strategie è arrivato in quel momento in quel punto, per permettersi infine quel gesto svelto, imprevisto, quasi inavvertito ma irreparabile e finale?


Paolo Rossi è per sempre quel gesto. È l’astuzia, la velocità che si infiltra nella macchina della storia e la fa deragliare (o almeno riesce a scansarla per sopravvivergli: Pablito per sempre). È la saggezza istintiva che appoggia le proprie scarse forze sulle debolezze altrui, che si apre un varco nelle distrazioni del talento e del fato scoprendo una possibilità dove pare non essercene più. È il più mediterraneo dei calciatori (pur avendo indossato maglie di città che negli anni successivi ai trionfi del Mundial quel mare parvero rifiutare). È la singolarità che – in nome e per conto di tutti quelli che il 5 luglio 1982 lo abbracceranno sul prato del Sarrià di Barcellona – cambia il destino anche quando si presenta irreparabilmente segnato dal dominio di grandi macchine agonistiche e narrative. Se nella storia del calcio con la sua indifferenza a uno schema che non fosse il suo gesto e il suo gioco Paolo Rossi si è infilato tra lo splendore del collettivo olandese e l’ossessione del dispositivo sacchiano, per l’immaginazione di un’epoca ha fragorosamente fatto di più mostrando come da qualche parte, per qualche via, dove tutto sembra occupato e determinato, un altro spazio è sempre possibile.